Il lungo inverno dell’incertezza 
                    si è rotto. Luca, il No Tav precipitato da un traliccio 
                    dell’alta tensione, dopo essere stato folgorato, poco 
                    a poco si sta riprendendo. È sempre in terapia intensiva 
                    ma da qualche giorno respira senza ossigeno: ci vorranno lunghi 
                    mesi e tante altre sofferenze per curare le gravissime ustioni 
                    che gli hanno inciso le carni. 
                    Era il 27 febbraio e Luca era salito sul traliccio per rallentare 
                    l’azione delle ruspe e della polizia che quel giorno 
                    si presero la Baita No Tav e allargarono il fortino. 
                    Erano passati solo due giorni dalla grande manifestazione 
                    popolare da Bussoleno a Susa. Tanti piemontesi e tanta gente 
                    venuta da fuori per dire no al Tav ed esprimere solidarietà 
                    ai No Tav arrestati il 26 gennaio per la resistenza allo sgombero 
                    della Libera Repubblica della Maddalena. 
                    Il giorno successivo, a Villarfochiardo, in un’assemblea 
                    affollata ma difficile il movimento No Tav si interrogava 
                    sulla strada da prendere per mettere finalmente in difficoltà 
                    l’avversario, dopo dieci mesi di resistenza e nove di 
                    occupazione militare.
                  
                  
 
                    Giorno dopo giorno, notte dopo notte
                   Il quadro non era più quello del 2005. Nel 2005 tutto 
                    era nuovo, facile come la scoperta della vita che si apre, 
                    difficile come ogni volta che si fa qualcosa di non saputo. 
                    Aurorale. Si vinse e non si credeva che fosse vero, si vinse 
                    di slancio, gettando il cuore oltre l’ostacolo e trovandosi 
                    poi in tanti a fare la strada giusta. Se si fosse ascoltato 
                    il cuore, quel cuore che batteva al ritmo della lotta popolare, 
                    dopo la rivolta del dicembre, non ci si sarebbe fermati. Cominciava 
                    il walzer delle poltrone: il movimento aveva detto “no” 
                    agli amministratori che volevano il tavolo di trattativa offerto 
                    da Berlusconi. Ma dire “no” non basta. Bisognava 
                    restare in strada, non mollare: il governo aveva paura delle 
                    barricate, dei blocchi, della gente che spontaneamente aveva 
                    risposto alla violenza e all’occupazione militare. 
                    Sei anni dopo, di tavolo in tavolo, il gioco degli inganni 
                    è andato avanti, tra walzer e giravolte, per logorare, 
                    sedurre, comprare. Nel maggio del 2011 la parola è 
                    tornata alle armi. Quasi dieci mesi di lotta, giorno dopo 
                    giorno, notte dopo notte. 
                    Ci sono state giornate di resistenza, cortei, assemblee e 
                    mille incontri, cibo condiviso: la solidarietà di uno 
                    sguardo scambiato a metà notte mentre ci si incrocia 
                    su per il sentiero, tra un turno di guardia e l’altro. 
                    Ci sono stati i cortei dei tutti quanti e le giornate alle 
                    reti. Le botte, gli arresti, i gas che mozzano il respiro, 
                    la violenza dei media scatenati. Hanno provato a dividerci 
                    ma non ci sono riusciti. I buoni e i cattivi, gli ingenui 
                    valligiani e i guerriglieri venuti da fuori, quelli con la 
                    bandiera e i black bloc sono rimasti incastrati nelle penne 
                    malevole di certi giornalisti.
                    Il governo teme una rivolta che dilaghi da Torino all’alta 
                    Valle, teme che si ripetano gli scenari del 2005, per questo 
                    ha scelto con cura il luogo dove sferrare l’attacco 
                    e aprire una guerra di posizione e di logoramento: una zona 
                    isolata, difficile da raggiungere, dove si può gasare 
                    come in guerra e poi raccontare che i No Tav sono violenti.
                    Hanno dimostrato di aver imparato la lezione del 2005. Hanno 
                    puntato sui gas e le recinzioni. Un procuratore di stretta 
                    osservanza “Democratica” come Caselli si è 
                    assunto il compito di distribuire centinaia di denunce, decine 
                    di fogli di via, ordinare perquisizioni ed arresti. 
                  
 
                    Un’altra via, diversa dalla rassegnazione 
                   L’8 dicembre, nel sesto anniversario della ripresa 
                    di Venaus, un corteo di tutti quanti, aperto dai bambini, 
                    aveva bloccato l’autostrada per oltre 14 ore. Un passaggio 
                    importante. Alcuni attivisti ci avevano creduto poco, attratti 
                    magneticamente dalle reti della Val Clarea, dal catino militarizzato 
                    predisposto dallo Stato per dare la propria prova di forza. 
                    La gente invece ci aveva puntato, convinta che fosse tempo 
                    di cambiare strategia. Lo aveva sancito in assemblea e poi 
                    realizzato con semplicità e coraggio l’8 dicembre. 
                    
                    Quello stesso 8 dicembre in Clarea si è ripetuto una 
                    schema visto e rivisto. Gli accessi dai sentieri principali 
                    bloccati dalla polizia, i manifestanti che arrivano facendo 
                    giri lunghi e non percorribili da tutti. Al fortino la polizia 
                    si scatena con i gas, esce dal fuori e carica. A fine giornata 
                    i feriti non si contano. Tre, colpiti dai bossoli sparati 
                    ad altezza d’uomo, sono gravi: un operaio padovano di 
                    cinquant’anni ci rimetterà un occhio e dovrà 
                    essere operato più volte al volto. 
                    Una giornata che lascia il segno. Sono sempre di più 
                    gli attivisti che vogliono un’inversione di rotta, ma 
                    realizzarla non è facile. Da un lato i gruppi più 
                    moderati e i rappresentanti istituzionali premono perché 
                    il movimento rinunci all’azione diretta, dall’altro 
                    l’area post-autonoma punta sulla lotta di lungo periodo, 
                    sulla strategia di logoramento dell’avversario, sulla 
                    battaglia di trincea, su lunghi inverni di quiete interrotti 
                    da assedi estivi. Ma l’8 dicembre ha indicato anche 
                    un’altra via, diversa dalla rassegnazione, come dal 
                    testardo insistere nella pressione sul fortino. 
                    Quella giornata ha rappresentato una sorta di spartiacque 
                    in questa fase della lotta al Tav. Per il governo di turno 
                    è più facile trattare le questioni sociali come 
                    affari di ordine pubblico, finché il dissenso, per 
                    quanto ampio, si concentra nell’assedio al fortino della 
                    Maddalena.
                    Il blocco dell’autostrada mette in difficoltà 
                    l’apparato militare, che la usa per i cambi turno e 
                    per i mezzi pesanti, crea danni alla Sitaf, la società 
                    che gestisce la A32 e ha aperto uno svincolo che immette direttamente 
                    nell’area del futuro cantiere. Il blocco dell’autostrada 
                    può essere fatto da tutti e riprodotto ovunque. 
                    L’8 dicembre la lotta popolare ha cominciato a riprendere 
                    il proprio ritmo. Il ritmo di chi si mette di mezzo, scegliendo 
                    da se i luoghi e i tempi. Il ritmo di chi non delega a nessuno, 
                    soprattutto a chi gioca anche oggi il walzer delle poltrone 
                    sulla pelle di tutti. 
                    La Procura, nell’ordinanza di arresto del successivo 
                    26 gennaio punta l’indice sulla Libera Repubblica della 
                    Maddalena, ne cita l’autonomia, la partecipazione, la 
                    libertà. Segno inequivocabile che un movimento popolare 
                    mette paura anche agli specialisti della repressione. D’altro 
                    canto nessun potere, foss’anche il più dispotico, 
                    può permettersi di fare a meno di un po’ di consenso: 
                    assicurandosi almeno l’indifferenza dei più. 
                    
                    Non per caso il governo alza la posta, sperando che i No Tav, 
                    si infilino da soli in un cammino senza uscita. Decidere di 
                    attaccare la baita e, senza aver fatto le procedure per l’occupazione 
                    temporanea, prendersi con la forza i terreni dove è 
                    previsto lo scavo del tunnel geognostico, è segno della 
                    volontà di piegare i No Tav per far abbassare la testa 
                    ai tanti che considerano il movimento contro la Torino Lyon 
                    un punto di riferimento per le lotte e le resistenze di mezza 
                    Italia. 
                    L’assemblea del 26 febbraio deciderà – 
                    pur tra mille dubbi e perplessità – di resistere 
                    ancora in Clarea: in prima fila un gruppo di anziani incatenati 
                    agli alberi. Ma il governo e il caso scompaginano tutto: le 
                    truppe si muovono nella notte di quella stessa domenica, i 
                    sentieri vengono chiusi, i No Tav non possono avvicinarsi, 
                    i quindici alla Baita vengono circondati, solo Luca riesce 
                    a intrufolarsi. La polizia gli lancia alle spalle un rocciatore: 
                    vuole chiudere in fretta, obbligarlo a scendere, mettere la 
                    parola fine alla giornata facendosi forte delle migliaia di 
                    uomini in armi concentrati nel catino della Maddalena. Luca 
                    non si arrende e sale più in alto. Solo per un caso 
                    fortunato la sua vita non finisce quel giorno.
                    Il gravissimo incidente di Luca mette fine ai dubbi del giorno 
                    precedente. La lotta popolare riprende il suo ritmo: tre giorni 
                    di blocco della A32 ridanno visibilità al movimento 
                    e mettono in difficoltà la polizia. Quando il ministro 
                    dell’Interno decide lo sgombero, gli uomini in divisa 
                    pestano gasano, umiliano, rastrellano sotto gli occhi di numerose 
                    telecamere. Anche nel fronte dell’informazione irreggimentata 
                    si aprono delle crepe. 
                    Uscire dal catino della Clarea, dalla trappola allestita dallo 
                    Stato, che vuole nascondere la militarizzazione del territorio 
                    e la resistenza dei No Tav, mette in difficoltà un 
                    avversario che usa armi da guerra come i gas CS e poi intesse 
                    elegie alla non violenza. 
                  
                  
 
                    In ogni angolo d’Italia 
                   I No Tav non mollano. Giorno dopo giorno si moltiplicano 
                    le iniziative. Dopo lo sgombero della A 32 si torna ancora 
                    in autostrada, cambiando luogo e senso all’agire: una 
                    volta si blocca, un’altra si erige un barricata e si 
                    va, un’altra ancora si aprono i cancelli e si fanno 
                    passare gli automobilisti gratis.
                    La lotta popolare trova il proprio ritmo, con azioni cui possono 
                    partecipare tutti. 
                    In ogni angolo d’Italia ci sono manifestazioni, blocchi, 
                    presidi, occupazioni. La lotta No Tav è divenuta un 
                    affare nazionale, perché l’opposizione al supertreno 
                    è lotta contro lo sperpero di denaro pubblico, spinta 
                    alla partecipazione diretta, rifiuto della delega in bianco, 
                    della logica della merce, del profitto ad ogni costo, della 
                    violenza di Stato come strumento di regolazione dei conflitti.
                    La posta in gioco è alta. Lo sa il governo, questo 
                    o qualsiasi altro venga dopo, lo sappiamo noi. Non si tratta 
                    solo di contrastare uno sporco affare, non è più 
                    solo lotta al malaffare pubblico o per la tutela di case, 
                    alberi, stili di vita. Tra Torino e Chiomonte sta capitando 
                    qualcosa che sarebbe potuto accadere ovunque. Si è 
                    rotto l’equilibrio che consente ai governanti di assoggettare 
                    i governati, di farli sudditi. Alla faccia della logora retorica 
                    democratica in questo poker con carte truccate tanta gente 
                    ha deciso di buttare le carte e di cambiare gioco, di fare 
                    da se le proprie regole, di sperimentare, giorno dopo giorno, 
                    il proprio percorso. Le scelte si delineano nel farsi concreto 
                    della lotta, in una sorta di laboratorio politico e sociale 
                    dove si pensa e si sceglie facendo e si agisce interrogandosi 
                    sul proprio agire.
                    Sarebbe potuto accadere ovunque ma è accaduto qui, 
                    perché qui, in tanti anni l’opposizione si è 
                    coniugata alla costruzione di relazioni politiche e sociali 
                    all’insegna della solidarietà, del mutuo appoggio 
                    perché qui radicalità e radicamento, resistenza 
                    e progetto, insistere nel presente e pensare il domani hanno 
                    creato l’humus adatto. Anche l’emergere di leadership 
                    carismatiche è temperato dall’intelligenza e 
                    dall’ironia. Chi si impegna di più, chi con generosità 
                    si spende per il movimento è amato e rispettato, mai 
                    posto su un piedistallo. 
                  
 
                    Costruire Libere Repubbliche 
                   Il movimento No Tav ha accresciuto la propria autonomia 
                    nei sette anni che ci separano dai giorni di Venaus. Allora 
                    le assemblee ritmavano il nome di un leader istituzionale 
                    ma amato come Ferrentino, come i tifosi alla partita di calcio, 
                    oggi sarebbe impensabile. Oggi nessuno ha più quel 
                    tipo di delega: la parabola amara dell’ex presidente 
                    della Comunità montana, ha impresso un’accelerazione 
                    ai processi di autonomia dall’istituito, che caratterizzano 
                    questi mesi di lotta popolare. 
                    Oggi in assemblea si plaude chi resiste, chi viene ferito, 
                    chi si spende tutti i giorni, chi riesce a dire quello che 
                    tanti pensano e vogliono, ma l’atmosfera è quella 
                    calda della relazione diretta, affettiva ma non cieca. Tenera 
                    perché di tenerezza è intessuta la nostra forza. 
                    
                    L’esperienza della Libera Repubblica della Maddalena 
                    ha lasciato il segno. Un segno forte. Lo scorso mese su queste 
                    stesse pagine scrivevo, tentando di riassumere in una formula 
                    agile il senso dell’agire per la libertà attraverso 
                    la libertà come “Esodo conflittuale e insieme 
                    conflitto che si radica nel presente, ne interroga le potenzialità 
                    e si assume il carico della sperimentazione. Itinerari d’anarchia. 
                    L’altrove che si fa qui.”
                    Nel piccolo la Libera Repubblica alludeva a questa possibilità.
                    Nei prossimi mesi ed anni la scommessa è costruire 
                    Libere Repubbliche ovunque, luoghi dove la comunità 
                    resistente si incontra e costruisce quello spazio altro che 
                    tanto intimorisce chi governa. Tutti i governi.