rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


trasformismi

Le proporzioni politiche del cappuccino

di Carlo Oliva

Rivendicare le radici liberal-socialiste del Partito Democratico fa fino e aiuta nel rafforzarne l’immagine.
Peccato che nessuno dei pensatori di quel filone abbia mai avuto niente a che fare né con il PCI né con la DC, i due partiti alle origini del PD.

Secondo Eugenio Scalfari, che ne ha scritto in uno dei raffinati elzeviri che pubblica ogni due settimane sull’“Espresso” (Cappuccino democratico, 15 marzo 2012), il Partito democratico è un po’ come un cappuccino, nel senso che è composto da due elementi da nessuno dei quali si può prescindere per la definizione dell’insieme. In effetti, omettendo il latte in quella bevanda ci resta solo un caffè e senza il caffè non si ottiene altro che latte, e allo stesso modo le componenti ex Ds ed ex Margherita sono essenziali per quel partito e solo dalla loro combinazione può sprigionarsi quel tipico aroma salvifico in cui il fondatore di “Repubblica” e buona parte dei suoi lettori confidano.
L’argomento, almeno per quanto si riferisce alla ricetta del cappuccino, è al di là di ogni possibile contestazione, anche se da uno dei più venerati maitres à pénser del giornalismo italiano ci si penserebbe autorizzati ad aspettarsi qualcosa di più. Ma in realtà Scalfari vuol dire che nessuna delle due componenti può arrogarsi un diritto di veto nei confronti dell’altra minacciando una nuova separazione e ne approfitta per esprimere la propria preferenza per un cappuccino dal sapore, diciamo così, più carico, quale lo si otterrebbe se nella formazione confluisse anche il gruppo di Vendola. L’operazione, a suo dire, rafforzerebbe il carattere liberalsocialista del partito e porrebbe le premesse per la definitiva realizzazione di quelle riforme di cui tanto il paese abbisogna.

Nemmeno un comunista o democristiano

Personalmente, su questo esito avrei qualche dubbio. Come avrei qualche perplessità sulla disinvoltura con cui, non solo da parte di Scalfari, si tende oggi ad appropriarsi del termine “liberalsocialismo”, una espressione coniata verso la metà degli anni ‘30 del secolo scorso da Carlo Rosselli per definire un programma politico e ideale che non avrebbe avuto, nei decenni successivi, una particolare fortuna. Ma a quella tradizione Scalfari è sempre stato legato e nessuno può contestargli il diritto di auspicare una sua rinascita. Anche il liberalsocialismo, nella visione rosselliana, era la sommatoria di due componenti eterogenee ma imprescindibili, quella socialista e quella liberale, ciascuna delle quali avrebbe vivificato l’altra con il proprio sistema di valori e ne avrebbe emendato i difetti. Detta così, la prospettiva può sembrare un po’ meccanica e in effetti il pensiero di Rosselli prevedeva qualche mediazione in più (aveva , in particolare, delle accentuazioni libertarie che forse potrebbero interessare ai lettori di questa rivista), ma in questi casi quel che conta è farsi capire e accontentiamoci pure.
C’è una cosa, piuttosto, che non capisco io. Scalfari, che era presente, rievoca la “lunga giornata” in cui, al Lingotto di Torino, fu fondato il nuovo partito, e ne ricorda quelli che a suo avviso ne rappresentavano i precedenti culturali e politici nella storia d’Italia. “Mi vennero in mente” scrive “Turati, Gobetti, il socialismo riformista dei fratelli Rosselli, il liberalsocialismo di Guido Calogero e infine Norberto Bobbio, Piero Calamandrei e Galante Garrone. Queste furono le patenti nobili del riformismo italiano che … segnò una traccia profonda nella cultura politica italiana … e che a mio avviso … dovrebbe rappresentare l’identità profonda del partito democratico.” Il che è ben detto ma un po’ strano perché, Turati a parte, nessuno dei nomi citati può essere ricondotto alla tradizione da cui provenivano i Ds, né tanto meno a quella della Margherita.
Nessuno di quei rispettabili signori era di scuola marxista o credeva nella dottrina sociale della Chiesa, come a dire, esprimendosi rozzamente, che non aveva nulla a che fare né con il Partito comunista né con la Democrazia cristiana, e tutti, in effetti, vissero gli sviluppi della politica italiana del dopoguerra in una posizione isolata e minoritaria, raccogliendo da parte dei militanti e dei dirigenti di quei partiti di massa e dei loro satelliti e alleati una certa indifferenza ostile e superciliosa, temperata al massimo da qualche rara e occasionale attestazione di stima.

Maionese impazzita

Ma erano tutti dei rigoristi, secondo la miglior tradizione giacobina, e non cercavano quel tipo di consenso che si ottiene rinunciando ai propri valori di fondo. In particolare, essendo tutti, per una quantità di motivi su cui non possiamo soffermarci adesso, assertori convinti del punto di vista laico, avrebbero considerata bizzarra l’idea per cui una forza politica di sinistra avrebbe avuto qualche prospettiva di successo solo a condizione di accogliere nel proprio interno una componente ex democristiana. È probabile che se avessero sentito esprimere l’ipotesi, da esponenti quali erano di un’era prebasagliana, avrebbero invocato a gran voce la cella imbottita e la camicia di forza.
Insomma, non tutte le mescolanze sono paragonabili tra loro e chi pensasse che, in fondo, il cappuccino e il martini, in quanto entrambi composti dalla fusione di due elementi, siano la stessa cosa potrebbe subire qualche amaro disinganno. Più che di petizioni di principio e di padri nobili – che, naturalmente, ciascuno è libero di attribuirsi a piacere, tanto a chi volete che importi? – la democrazia italiana ha bisogno di riforme politiche e di attenzione ai diritti civili.
E quanto a questo, l’amalgama su cui si fonda il Partito democratico non è forse il più propizio: pensate a tutto il canaio che succede ogni volta che entrano in ballo le questioni cosiddette “di coscienza” e aspettate a vedere, per esempio, cosa succederà dopo la recente pronuncia della Cassazione sul matrimonio gay e vi renderete conto che quella organizzazione, più che a un cappuccino, rischia di somigliare a una maionese impazzita.

Carlo Oliva