rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


repressione

Le carceri in Sardegna
di Laura Gargiulo

Il Piano straordinario carceri varato dal governo prevede 4 nuove carceri nell’isola. Si tratta di un eccezionale affare economico e, al contempo, di uno strumento per il controllo della “devianza” e del territorio.
Analizziamolo da vicino.

 

La chiamavano terra di conquista...

Cagliari: 58 milioni e 840 mila euro.

Sassari: 53 milioni e 710 mila euro.

Oristano: 36 milioni e 150 mila euro.

Tempio: 33 milioni.

Sono gli investimenti che lo Stato ha deciso di stanziare per la costruzione di quattro nuove carceri in Sardegna. Fanno parte del Piano straordinario carceri presentato il 23 gennaio 2009 dal Consiglio dei Ministri che dovrebbe rispondere all’attuale “inadeguatezza strutturale del sistema carcerario italiano” e alla conseguente situazione di sovraffollamento, con la costruzione di otto istituti penitenziari (oltre a quelli sardi, Forlì, Rovigo, Savona e Reggio Calabria).
Ma come funziona e chi sono i protagonisti di questo maxi investimento che nel suo complesso arriva a circa 160 milioni di euro soltanto per le carceri sarde? Per rispondere a queste domande, per capire la logica politica con cui lo Stato “investe” in Sardegna, è necessario sbrogliare i fili di una complessa matassa che dalle stanze di Montecitorio vanno agli studi di importanti affaristi, recentemente all’attenzione della cronaca locale.
Il Piano straordinario carceri si avvale di una serie di eccezioni previste dalla legge italiana già ampiamente praticate come nel dopo-terremoto dell’Aquila: si chiamano decreti interministeriali (in questo caso tra il Ministero della Giustizia e quello delle Infrastrutture) relativi a “interventi con carattere di urgenza la cui esecuzione deve essere accompagnata da particolari misure di sicurezza; per quanto riguarda la realizzazione dell’attuale piano carceri, la delibera dello stato di emergenza nazionale carceri attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri di avvalersi, fino a tutto il 2010, di commissari delegati per l’attuazione degli interventi previsti nel quadro dell’emergenza nazionale carceri” (1). In altre parole si istituisce un Commissario straordinario, individuato nel Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Franco Ionta), cui sono attribuiti pieni poteri previsti dal decreto legge anticrisi “al fine di procedere al compimento degli investimenti necessari per realizzare nuove infrastrutture carcerarie o aumentare la capienza di quelle già esistenti”. Sarà quindi Ionta, e solo lui, a fare i progetti, individuare le ditte, affidare i lavori, contattare i presidenti delle regioni e i sindaci delle aree interessate alle nuove opere.
Le gare di appalto, inoltre, vengono coperte dal segreto di Stato. Perché costruire un carcere è un affare serio, tremendamente serio, “ne va della sicurezza dello Stato e dei cittadini”, si dice a un livello pubblico, ma in privato si sa che in ballo ci sono appalti per milioni di euro e la segretezza è d’obbligo. Per finanziare il Piano carceri lo Stato (legge 14/2009) ha previsto il cosiddetto “project financing”, ossia coinvolgere il privato in un progetto che faccia fruttare un terreno o un bene che altrimenti resterebbe inutilizzato per carenza di fondi pubblici, con il vantaggio per il privato di investire in un’opera da cui ricaverà ingenti guadagni (2). Il secondo canale di finanziamento, invece, è la Cassa delle ammende, attualmente dotata di circa 159 milioni di euro, i cui fondi derivano dalle ammende pagate dai condannati, e che da sempre è stata destinata esclusivamente per i programmi di reinserimento sociale dei detenuti. Insomma, usare la Cassa delle ammende per la costruzione delle carceri è come usare il tfr dei lavoratori per pagare la ristrutturazione edilizia di un’azienda.
Ritorniamo però agli appalti, avvenuti “mediante gara informale tra le ditte di fiducia dell’amministrazione”, e ai vincitori che si sono aggiudicati la costruzione delle nuove quattro carceri in Sardegna. Ci accorgiamo così che il Piano straordinario per le carceri si lega a un altro piano edilizio d’eccezione, quello legato a La Maddalena in vista del G8. Ecco le aziende coinvolte:

  • Opere Pubbliche spa si è aggiudicato la costruzione del carcere di Cagliari, incassando già 39 milioni 444 mila euro, pari al 52.65% del costo; lo stesso gruppo si era aggiudicato la costruzione del depuratore a La Maddalena;
  • Anemone srl, già costruttore del palazzo delle conferenze a La Maddalena (58 milioni), ha ricevuto 26 milioni 232 mila euro (35,15% dell’ammontare complessivo) per la costruzione del carcere di Sassari, zona Bancali;
  • Gia.fi Costruzione Spa ha ricevuto 31 milioni e 364 mila euro (62,58%) per il carcere di Tempio Pausania, mentre per il G8 aveva ottenuto un appalto da 59 milioni per edificare l’hotel che avrebbe dovuto ospitare i capi di stato;
  • Gruppo Intini di Bari, vincitrice dell’appalto per il nuovo carcere di Oristano per un importo di 40 milioni di euro;

“Ditte di fiducia dell’amministrazione”, come è stato pubblicamente sottolineato dai rappresentati di Governo. Ma come si ottiene la fiducia dello Stato, soprattutto quando da costruire ci sono strutture di massima sicurezza? Il gruppo Anemone e la sua storia ci raccontano come si costruiscono e si tessono in anni di scambi le relazioni tra lo Stato e le imprese. L’Unione Sarda, in un articolo del 17 febbraio 2010, la definisce “un’azienda miracolo” che passa in 5 anni da essere autorizzata solo per lavori entro i 5 milioni, a poter sostenere qualsiasi tipo di lavoro, direttamente o attraverso società satellite. Nel 2008 chiude il bilancio con un utile di 588 mila euro, contro i 52 dell’anno precedente; si candida e ottiene la costruzione del centro conferenze a La Maddalena, del carcere di Sassari, nonché della nuova caserma della Guardia di Finanza sempre a Sassari, con due anni di interruzione dei lavori e la recente ripresa delle opere.
Anemone, però, è anche noto alla magistratura per una serie di operazioni immobiliari che lo legano a importanti esponenti del ministero delle Infrastrutture, in particolare all’ex ministro Lunardi che, insieme a Castelli, firmò il 2 ottobre 2003 il decreto ministeriale che impone particolari misure di sicurezza per interventi ritenuti urgenti. Nella trama di rapporti troviamo anche Angelo Balducci, finito in carcere con l’accusa di corruzione per i lavori del G8 de La Maddalena, a suo tempo responsabile del S.I.I.T con cui erano state gestite le gare informali attraverso cui le ditte si sono aggiudicate la costruzione delle carceri sarde. A chiudere il cerchio, Flavio Carboni, mediatore tra politici e imprenditori impegnati in tre grandi aree d’investimento: il G8, l’eolico e le nuove carceri. Tutte operazioni che hanno per scenario la Sardegna.
C’è un secondo tassello, importante ma meno vistoso: si chiama subappalti (per il Piano carceri è prevista la possibilità di subappaltare i lavori fino al 50% del valore d’opera) e colpisce le piccole società, ma soprattutto mette in luce un meccanismo che è espressione della logica politica con cui lo Stato e le sue “ditte di fiducia” investono in Sardegna. L’esempio ci viene fornito dal carcere in costruzione di Oristano, rimasto fuori dalle indagini della magistratura che, per ora, indagano solo su quello di Sassari. Il problema questa volta è di natura economica (Nuova Sardegna, 16 maggio 2010) e riguarda il gruppo Intini di Bari, che si era aggiudicato l’appalto e che verserebbe in una grave crisi finanziaria. Le difficoltà avrebbero coinvolto anche altre piccole società, tra cui una locale, che attraverso il sistema del subappalto stavano realizzando le strutture secondarie.
In poche parole: gli appalti vengono giudicati urgenti, della massima sicurezza, si prevedono forme di appalti a ditte ritenute di fiducia, e quindi teoricamente capaci di portare a termine le opere assegnate, e poi si scopre che gran parte di quelle opere vengono date in subappalto perché l’azienda non è capace di farsi sostenitrice dell’intero progetto. Ci arrivano anche i deputati del PD che in un’interrogazione parlamentare del 2 febbraio affermano: “ciò significa che l’appalto affidato inizialmente era un simulacro, era una scatola vuota che serviva a conferire diritti di credito nei confronti dell’amministrazione, scatola da riempire di contenuto perché quelle imprese, quelle società non era in grado di fornire l’opera ultimata.” Non è niente di nuovo, in fondo, quello che stiamo raccontando, se non fosse che dietro gli interessi di governi e affaristi, dietro appalti milionari e opere mai portate a termine, ci fosse una precisa volontà politica che non risponde solo agli interessi di gruppi finanziari e politici ma a una concezione precisa con cui lo Stato guarda alla Sardegna: farne terra di conquista in cui sperimentare e radicare una politica che spogli un territorio dei suoi beni naturali, annichilendo le possibilità di investimento locali. Ecco perché il subappalto non è una semplice e ormai diffusa pratica economica, ma è soprattutto una delle migliori forme legalizzate per attribuire finanziamenti milionari a ditte esterne e intrecciate al potere, e al massimo dare le briciole a piccole ditte locali. È su questa logica che si fondano gli slogan che accompagnano ogni investimento in Sardegna: si porteranno posti di lavoro, si avvierà l’economia. Ma avviare un’economia dovrebbe significare sviluppare i settori legati al territorio e gestiti dai soggetti di quella terra; il resto, il modello dei mega appalti per mega strutture senza fini sociali (vedi strutture per il G8 o vasti impianti eolici in una terra già autonoma energeticamente) risponde solo a un’esigenza: far girare soldi, molti, ma ai piani alti in modo che le poche briciole che cadono dal tavolo non avviino nessuna economia locale perché ciò significherebbe la fine di un banchetto troppo succulento per poter essere lasciato nelle mani di un popolo negli interessi della sua terra.
E la costruzione di un carcere, ad esempio di 200 posti, oggi significa mettere in giro 15 milioni: 75 mila euro a posto letto, senza considerare i costi per gli espropri delle aree e, soprattutto, senza considerare ruberie e corruzione. E, come possiamo intuire, non è questo il nostro caso.
Ma investire nella costruzione di un carcere, oltre a rappresentare un’importante opportunità di spartizione di danaro e favori tra classi dirigenti politiche e affaristi, cosa significa? E soprattutto, perché in Sardegna?

La trasformarono in terra di carcerazione

La Sardegna si inserisce per molti versi nel quadro generale del sistema carcerario italiano popolato da giovani maschi, molti dei quali meridionali, senza lavoro e con basso livello di istruzione, con un’alta componente di stranieri e di tossicodipendenti. Nel carcere, quindi, ci finisce chi non ha un’occupazione stabile, chi non ha avuto accesso a una formazione né professionale né scolastica, chi per ragioni di marginalità sociale finisce nel circuito della dipendenza o della clandestinità. (3)
Ma il carcere sardo si caratterizza per delle peculiarità che fanno di quest’isola non solo una terra di conquista ma anche una terra di carcerazione.
Dal punto di vista storico, l’arrivo del carcere in Sardegna avviene a partire dal XVIII secolo, prodotto quindi della modernità, così come lo fu nel più ampio contesto europeo. Eppure qualcosa di diverso accade: non avviandosi un’economia prima mercantilistica e poi industriale, l’affermarsi del carcere venne legato a quella che fu definita dai dominatori una piaga endemica del territorio: il banditismo. Ma ogni discorso politico per potersi meglio radicare ha bisogno anche di un discorso teorico apparentemente scientifico. E così, sul finire dell’ottocento, sulla scia di Lombroso, si affacciarono diverse personalità come Alfredo Nocifero, che nel 1897 individuava la Sardegna come una “zona delinquente” per ragioni biologiche. Insomma nasci sardo e delinquente al tempo stesso.
Ieri come oggi non veniva spiegato, però, che le condizioni di povertà e miseria che portarono, da una parte a sollevazioni e rivolte, dall’altra al banditismo, erano la conseguenza di una politica colonialista che nelle figure dei Re Sabaudi e a seguire in quelle dei rappresentanti dello Stato prima unitario poi fascista e infine democratico avevano depredato la terra delle sue risorse e tagliato quei rapporti economici e sociali su cui una società prevalentemente agro-pastorale e dai tratti fortemente comunitari si era consolidata. Quello che maturerà nel corso degli anni sarà una contrapposizione agli occhi del pastore sardo, simbolo della società isolana, tra una “Giustizia che si fa strumento di un potere che non nasce dalla struttura della comunità ma le si sovrappone dall’esterno, potere di invasori, potere di dominatori, potere di uno Stato che non è espresso dalla società originaria ma ha connotati suoi propri... diverse esigenze e suoi propri strumenti di imperio” (4): non a caso l’arresto veniva considerato una disgrazia, a cui si opponeva il sostegno della comunità alla famiglia del detenuto; a quest’ultimo, attraverso la bellissima pratica de sa ponidura, ogni pastore regalava un suo capo di bestiame per ricostituire un nuovo gregge il cui furto veniva considerato sacrilegio.
Dietro gli slogan contro il banditismo o quelli a favore dell’industrializzazione c’era, quindi, l’obiettivo di scardinare tanto il modo di intendere i rapporti dentro la comunità quanto la sua autonoma concezione di giustizia.
In poche parole, era la concezione che i sardi avevano della comunità e del rapporto con la terra che bisognava minare, non solo a colpi di baionetta ma, soprattutto, a colpi di industrie che aprivano e chiudevano, di pastori costretti alla miseria, di terre comunali che diventavano terre private di signorotti locali.
E così, mentre i sabaudi portavano il concetto di proprietà privata in una terra abituata alla concezione comunitaria, e mentre nei primi anni del ‘900 si susseguivano gli scioperi dei minatori e la loro organizzazione in movimento operaio, si completava il sistema carcerario che vedeva ogni capoluogo provvisto del proprio carcere. Questo diventa, soprattutto con il Regno d’Italia, il luogo in cui chiudere “gli irregolari”, cioè tutti coloro che non accettano le leggi del nuovo Stato o che, ridotti in miseria, cercano fuori dalla legge spazi di sopravvivenza. Basta guardare le date di costruzione delle carceri sarde per rendersi conto di come ognuna di esse risponda a una precisa tappa di adeguamento del sistema repressivo al contesto politico-sociale: 1871 San Sebastiano; 1855 Buon Cammino; 1850: colonie penali per il lavoro forzato; 1950 Nuoro; 1960 Is Arenas; 1970 Iglesias; 1980 Macomer.
E oggi chi si rinchiude dietro le sbarre?
Un’indagine condotta tra il giugno e il luglio del 2000 a carico della seconda commissione del consiglio regionale sui diritti civili metteva in luce un sistema carcerario caratterizzato da “strutture fatiscenti, insalubri, prive di spazi idonei alle attività di rieducazione e reinserimento sociale, assenza di spazi verdi e locali per i colloqui, mancanza di centri diagnostici, penuria di spazi per attività lavorative e di formazione; in conclusione: la situazione delle strutture impedisce l’attuazione delle leggi di riforma penitenziaria e prefigura circostanze di violazione dei diritti civili”. Le recenti notizie di cronaca e le nuove ispezioni non hanno modificato il quadro qui dipinto. A finire nelle carceri sarde sono per lo più maschi tra i 25 e i 40 anni, la maggior parte possessori di solo diploma di scuola media.
Eppure qualche dato conferma il sospetto che le carceri sarde siano un grande contenitore usato per marginalizzare i prodotti della politica dello Stato in Sardegna: i sardi risultano disoccupati in misura maggiore dei detenuti italiani; il 40,2% è tossicomane (elemento importante se si tiene in conto che la maggior parte delle rapine urbane sono collegate alla dipendenza da droga) ed ha tra i 30-39 anni con un basso grado di istruzione. Il 35% dei suicidi avviene, poi, nelle carceri sarde.
Secondo elemento (5): gli autori di rapine sono nati per il 50,7% nella provincia di Nuoro, il 30,1% in quella di Sassari, il 3,4% nella zona di Olbia-Tempio, il 4,1% dalle zone restanti.
La Sardegna terra di delinquenti? Lombroso, e non solo, avrebbe letto così questi dati, non tenendo conto di altri importanti guinness che la Sardegna si è aggiudicata in questi ultimi due anni: primo posto nella classifica nazionale della mancanza del lavoro con il 16,1% del tasso di disoccupazione nei primi tre mesi del 2010 e un incremento dello 0,7 rispetto al 2009; il tasso di disoccupazione giovanile nel 2009 è stato del 44,7%, insieme a 11.500 cassaintegrati senza ammortizzatori sociali e altri 40mila con ammortizzatori Inps. Ma non è solo il settore dell’impiego a conoscere queste cifre che, a detta di Enzo Costa (Cgil) situano la Sardegna “a rischio di rivoluzione sociale”: sono la scuola e l’istruzione in generale a essere colpiti da un abbandono scolastico del 15,2% insieme a un 18,8% di bassa occupazione associata ad un elevato abbandono scolastico. “In un sistema che offre poche opportunità lavorative, l’abbandono prematuro della scuola può portare a situazioni di lavoro nero, sottopagato privo di tutele sul piano assicurativo e pensionistico e, in altri casi, a situazioni di emergenza sociale, terreno fertile di devianze sociali.” Parla l’Agenzia regionale per il lavoro in un dossier sulla dispersione scolastica del 2008 (6) in cui si sottolineano “le peculiarità che fanno della Sardegna un caso unico, che non trova riscontro in tutto il panorama nazionale..performance negative..in termini di dispersione scolastica..frutto dell’applicazione di criteri non adeguati alla realtà isolana.” E così gli abbandoni al primo anno di scuola superiore sono fra i più alti del sistema scolastico italiano (11,5 al 2006), una percentuale al di sotto della media per quanto riguarda i giovani in possesso del titolo di scuola media inferiore, e un alto tasso di ripetenza nella scuola superiore. Strane coincidenze quelle che intrecciano i più alti tassi di disoccupazione, la mancanza di formazione scolastica e professionale con una situazione carceraria che vede il detenuto sardo corrispondere perfettamente a questo generale quadro di marginalità e mancanza di alternativa sociale e lavorativa stabile. Non appare un caso che sia la provincia di Nuoro a detenere il tasso di rapine più alto, se teniamo in considerazione che proprio questa è stata, storicamente, la zona in cui lo Stato ha attuato con più forza la sua politica di lotta, prima al banditismo poi alle varie forme di devianza.
È la storia che riemerge: le gradi industrie, i poli chimici, il complesso di Ottana che al lavoro dovevano affiancare la distruzione di quello che si considerava il tessuto naturale del banditismo; eppure a distanza di anni è rimasto ben poco, in termini di occupazione e lotta alla marginalità, molto invece in termini di distruzione del tessuto sociale e produttivo tradizionale. Si potrebbe pensare al fallimento della politica dello Stato in Sardegna, ma forse sarebbe più corretto pensare a una sua vittoria: trasformare l’isola in una terra di conquista in cui non possa sorgere un’economia locale e gestita sulla base dei bisogni e delle risorse di questo popolo.
Mancano ancora due tasselli però: il 40-50%, in alcuni casi 60%, dei detenuti presenti nelle strutture detentive sarde provengono da fuori, tanto da farle definire dagli stessi operatori come dei “grandi contenitori usati per ridurre la popolazione degli istituti del Nord e della Campania, da cui deriva la condizione di collasso cronico del sistema penitenziario dell’isola”. I detenuti trasferiti dalle carceri d’oltremare denunciano come loro stessi non sapessero, fino ad arrivo compiuto, che la loro nuova destinazione carceraria fosse la Sardegna; molti di loro, infatti, avevano chiesto, sì il trasferimento, ma in un carcere che li avvicinasse al luogo di residenza della famiglia. Eppure qualcosa non torna tra questa pratica dell’amministrazione penitenziaria e il cosiddetto principio di “territorialità della pena” che, partendo dal teorico diritto riconosciuto ai detenuti di scontare la pena vicino alla famiglia, “impegna il Ministero della Giustizia a favorire il rientro in istituti della Sardegna dei detenuti di origine, residenza o interessi nel territorio sardo che aspirino a tale rientro”: è il Protocollo d’Intesa con la Regione Sardegna firmato nel 2006 tra l’allora presidente Soru e il sottosegretario alla giustizia Vitale.
Insomma da una parte ci sono le carceri sarde piene di detenuti che in Sardegna non vogliono stare, dall’altra detenuti sardi confinati oltre mare (circa 250) a cui il trasferimento viene negato per sovraffollamento delle carceri isolane; questa condizione di allontanamento sembra essere quindi conseguenza di una politica che, al di là delle dichiarazioni d’intenti, non può rinunciare a una delle finalità basiche del carcere: alienare il detenuto distaccandolo da ogni legame affettivo e con la sua terra. È parte della rieducazione.
Non dimentichiamo che la stessa famiglia viene colpita in questo circolo punitivo, poiché al già difficile distacco col familiare si aggiungono distanze e costi spesso incolmabili: pensate che se avete la sfortuna di essere mandati a Catanzaro, cioè uno dei punti più lontani per percorribilità dalla Sardegna, i vostri familiari dovranno sostenere una spesa di circa 400 euro per un colloquio di due ore. Rieducare ha il suo prezzo, si sa.
Secondo tassello: entra in gioco la politica, non quella di stampo istituzionale, ma quella che per i servizi segreti fa della Sardegna “una sorta di moderno laboratorio politico..una terra in cui si dibatte e si discute, un luogo [con un] alto tasso di cultura politica”; sembrerebbero parole di elogio quelle che la rivista Gnosis, rivista italiana di intelligence, spende in un articolo del 2005 (7) (data non casuale se si tiene conto dei numerosi arresti avvenuti tra il 2004 e oggi di indipendentisti, anarchici e comunisti); in realtà sono parole che vanno interpretate come un segnale d’allarme dato allo Stato affinché quell’”alto tasso di cultura politica” non esca dall’alveo dei partiti asserviti agli interessi dello Stato italiano.
Altra strana relazione, quindi, quella che si istituisce tra un popolo che vanta un alto tasso di politicizzazione (a detta delle stesso Stato) e allo stesso tempo ha il più alto numero di carceri in proporzione al numero di abitanti, come se per ogni scollamento che si produce tra Stato e popolo, per ogni potenziale presa di coscienza che possa tradursi in pratica politica ci fosse un carcere che sorga. O meglio, nel nostro caso, quattro.
Lo Stato ha la sua risposta per giustificare la necessità di costruire nuove strutture penitenziarie in Sardegna: si chiama superamento della capienza tollerabile, ossia il numero di persone che, a dispetto dei posti letto previsti dai progettisti del carcere, possono essere infilate in una cella lasciando un metro di spazio tra i letti a castello. Insomma non c’è più posto, ogni mese entrano tra circa 1.000 detenuti e da qualche parte bisogna pur metterli, per costruire sicurezza, certo, ma anche per trasformare il delinquente in un bravo cittadino.
Eppure i dati e le testimonianze ci raccontano che il carcere non serve a reinserire, il carcere non produce sicurezza (i tassi di recidiva sono nell’ordine del 60-70%), anche perché non modifica le condizioni di marginalità iniziali.
Ma il carcere serve allo Stato per tre ragioni fondamentali:
il carcere è un enorme business economico necessario a muovere soldi tra grossi affaristi e Stato, in modo da rendere solidi i rapporti clientelari.
Il carcere serve a rinchiudere i devianti dal patto sociale affinché nella società si produca un senso di necessità di un sistema repressivo, affinché si divida la società tra buoni e cattivi, tra ladri e lavoratori, tra donne di strada e casalinghe.
Il carcere è uno strumento di controllo tanto del territorio quanto della società, necessario in una terra come la Sardegna definita dai servizi segreti “un laboratorio politico” in cui, a dispetto della generale crisi dei movimenti extra-istituzionali italiani, si sperimentano ancora forme di politica radicate nel territorio e capaci di politicizzare quel malessere sociale che dallo scontento può arrivare alla rabbia, e da qui alla ricerca di un’alternativa estranea alla logica dello Stato.
Ecco perché quattro nuove carceri. Ecco perché in Sardegna.

Appendice

Ciò che è stato e ciò che sarà

Per capire a pieno il carcere, bisogna fare un passo indietro nella storia per accorgersi di come esso sia prima di tutto un’istituzione politica, frutto di una concezione della società. Nel leggere questo breve sguardo all’indietro sarà utile tenere bene a mente il nostro presente perché, si sa, la storia insegna che certi meccanismi ritornano, cambiano veste ma conservano l’essenza.
L’idea del carcere come pena non nasce negli anni delle più cruente forme di punizione, a cui i Romani sottoponevano chi infrangeva la legislazione dell’epoca; nemmeno la società del Medioevo ricorreva al carcere per reprimere il crimine. I primi germi della detenzione nascono in concomitanza con un’importante svolta sociale al principio del XIV sec: sono gli anni in cui guerre, carestie, contrazioni del commercio e trasformazioni dei rapporti produttivi e di proprietà, soprattutto nell’area delle campagne, portano a un generale impoverimento. Sorgono i derelitti della società, gli emarginati, ieri vagabondi oggi disoccupati, tossicodipendenti, stranieri clandestini. E così l’epoca moderna, con l’affermazione della borghesia e il rafforzamento di Stato guardiano delle diseguaglianze sociali, relegò le masse sottoproletarie alla marginalità. Nasce quindi il bisogno di internare, così come gli appestati nei lazzaretti, gli emarginati nelle carceri. La lista dei crimini, però, un po’ come nel presente, va via via arricchendosi: dalle vecchie forme di criminalità (violenza sulle persone e sulle cose) alla lesa maestà, fino alle bestemmie e le eresie in concomitanza con l’affermarsi del potere religioso. Scopo: perseguire i comportamenti antagonisti, oppositori, contrari all’obbedienza e al conformismo. Certo, stiamo parlando di secoli passati, ma tenete bene a mente questo cambio d’epoca e di detenzione perché anche la nostra società vedrà riproporsi, in sintonia con tempi e contesti diversi, lo stesso adattamento della detenzione ai cambiamenti sociali. Quello che si sta verificando, infatti, è l’ampliamento dei crimini non tanto legati a una violenza diretta su cose o persone, quanto espressione di un agire fuori dal controllo dello Stato. Il settecento è l’epoca in cui il carcere si afferma come istituzione, in parallelo a una svolta politica-economica-sociale: l’affermarsi del capitalismo, cioè di un modello produttivo che richiedeva un ampio bacino di mano d’opera disposta ad accettare la disciplina e i ritmi lavorativi richiesti dalla produzione. I detenuti di quell’epoca erano figli di uno sconvolgimento politico che aveva attraversato tutta l’Europa e che la Sardegna imparò presto a conoscere bene: si privatizzarono le terre pubbliche, si limitarono i tradizionali diritti di pascolo e di uso civico ai danni delle popolazioni rurali, si crearono così le premesse per la formazione di un’enorme massa di sradicati. L’ottocento non fu che un’ulteriore tappa di consolidamento del modello produttivo capitalista e del sistema liberale, con l’accentrarsi della produzione nelle realtà urbane, accrescendo le sacche di povertà ed emarginazione. C’è però un cambiamento, questa volta tra le fasce sociali deboli: la presenza prolungata nelle fabbriche favorisce la nascita delle organizzazioni operaie e sindacali che fomentano i sommovimenti sociali e politici, suscitando paura e apprensione nelle classi detentrici il potere. Ed ecco un nuovo cambio del sistema penale e, soprattutto, dell’immaginario sociale: le proteste sociali e operaie, basate sul desiderio di emancipazione e libertà, vennero disegnate agli occhi della collettività come atti di devianza e criminalità. La colpa diventa l’aver introdotto la trasgressione all’interno del tessuto sociale; una trasgressione che può generalizzarsi. Ecco perché i reati politici, ieri come oggi, sono puniti con alte pene detentive, poiché essi sono tra i più pericolosi per pericolo di generalizzazione e per violazione del patto sociale. Per questa ragione i tempi di detenzione preventiva si allungano, il carcere si rafforza poiché passa l’idea che la pena ricompensi la vittima, ma soprattutto la società per il torto subito, servendo come esempio non tanto per il singolo quanto per la collettività. Sul finire dell’ottocento, infatti, la necessità di riformare lo Stato Unitario porta a riformare anche il codice penale con un’importante modifica: diminuiscono le sanzioni per i reati contro il patrimonio, si liberalizza parzialmente lo sciopero, ma soprattutto si affinano le tecniche di schedatura delle persone sospette e si riorganizza la polizia. Cosa sta accadendo? Accade che lo Stato reagisce alle ondate di manifestazioni e lotte sindacali cedendo da una parte, ma inasprendo la lotta ai movimenti rivoluzionari poiché il pericolo è rappresentato da chi avrebbe potuto innescare una coscienza politica sulla miseria e la disperazione, trasformandoli in fattori di destabilizzazione ed eversione del sistema economico e politico liberale.
Nel 1930 il Codice Rocco sanciva gli strumenti contro opposizione politica e sociale, ispirando non a caso l’articolo 270 con cui si colpiscono i reati di “associazione sovversiva”. Proprio questa legge, figlia di un codice fascista, venne ripresa negli anni ’70 e successivamente da Pisanu, diventando fino ad oggi il perno giudiziario per reprimere le istanze radicali di cambiamento.
Gli anni ’80 e ’90 (legge Gozzini, legge Simeone-Saraceni), videro alcuni cambiamenti del sistema penale con l’apertura parziale alle misure alternative e il riconoscimento di alcuni diritti, segni delle forti lotte dei prigionieri durante gli anni settanta, con l’incontro dietro le sbarre tra detenuti politici ed emarginati sociali.
Ciò che è importante sottolineare, in questo passaggio della concezione della pena ottocentesca a quella del novecento, è che il carcere si trasforma in una istituzione finalizzata a radicare nella società l’idea della necessità dello Stato come tutore della stabilità, rinforzando così un apparente legame tra i “cittadini onesti” e lo Stato, evocando sicurezza, rigore, giustizia.

Laura Gargiulo

Note

  1. Giuseppe Maria Reina, sottosegretario di Stato per le infrastrutture e i trasporti risponde all’interrogazione parlamentare di Donatella Ferranti , 25 febbraio 2010, in merito all’aggiudicazione degli appalti relativi alla costruzione di alcuni istituti penitenziari in Sardegna.
  2. Per andare nel concreto, facciamo un esempio dalla storia recente: nel 2002 il governo di centro-destra rilanciò il tema della privatizzazione, con riferimento a “l’ottimo modello penitenziario privato cileno”; Tinebra, allora capo del Dap, affermò che la costruzione delle prime nove carceri sarebbe stata realizzata con fondi statali, messi a disposizione dal ministero delle Infrastrutture; per le altre sarebbero state raccolte risorse attraverso la Patrimonio S.p.A, fondi provenienti dalla dismissione delle vecchie carceri. Nessun privato si fece avanti, nessun vecchio carcere fu dismesso. Fu costituita però da Castelli e Tremonti la Dike Aedifica, società finita sotto l’attenzione dei magistrati poiché uno dei suoi consulenti, Giuseppe Magni, ex sindaco leghista, venne indagato per corruzione ed istigazione alla corruzione: si vantava di decidere lui i vincitori delle gare d’appalto. Fu definita dai giornali la seconda tangentopoli carceraria. La prima risaliva agli anni ’80 e passò allo storia come “lo scandalo delle carceri d’oro”.
  3. Dati del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria:
    – (dati 2010) 67.593 i detenuti presenti contro i 44.000 consentiti;
    – (dati 2009) il 52,2% è in attesa di giudizio, di cui il 40% viene assolta;
    – (dati 2009) il 36% sono stranieri, molti dei quali dentro per reati legati alla normativa sulle droghe o alla clandestinità;
    – (dati 2009) 26,8% è tossicodipendente;
    – 36 detenuti su 100 soffrono forme di disagio psichico;
    – 1 detenuto su 2 è sottoposto occasionalmente a trattamento con psicofarmaci;
    – la maggior parte dei reati sono quelli contro il patrimonio, poi per droga;
    – il profilo medio di un detenuto: celibi/nubili in possesso di un basso grado di istruzione, la maggior parte con licenza di scuola media inferiore, e una percentuale bassissima di detenuti in possesso di una laurea;
    – il tasso di recidiva di chi ha usufruito delle pene alternative alla detenzione è del 5%, mentre chi ha scontato tutta la pena in carcere ha una recidiva del 66%;
    – (dati 2010) 173 decessi di cui 66 per suicidio.
  4. Gonario Pinna, Il pastore sardo e la giustizia.
  5. La criminalità in Sardegna. Primo rapporto di ricerca, edizioni Unidata 2006.
  6. La dispersione scolastica in Sardegna. Analisi di alcuni indicatori statistici. Analisi pubblicata nella rivista Congiuntura Lavoro Sardegna dell’Agenzia regionale per il lavoro, settembre 2008
  7. Sardegna laboratorio politico, Gnosis n.2/2005 (http://www.sisde.it/gnosis/Rivista3.nsf/servnavig/7).