rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


rifiuto del lavoro/1

Lavorare non è un bene per il pianeta!
di Philippe Godard

Il lavoro è messo in discussione soltanto in rari circoli della sinistra utopista, ma, nella maggior parte dei casi, ci si limita ad auspicare una semplice riduzione dell’orario di lavoro. Invece…

 

Nel 1992, il Vertice della terra svoltosi a Rio de Janeiro aveva tentato di seppellire l’ecologia come movimento politico, facendo credere che i vari tipi di inquinamento – all’epoca tema centrale in campo ecologico, che spaziava dall’inquinamento industriale e agricolo fino all’inquinamento nucleare – sarebbero stati riassorbiti, perché gli Stati si impegnavano a occuparsene. Alcuni ci hanno creduto, a cominciare da numerosi ecologisti che, di conseguenza, hanno abbandonato qualsiasi critica al sistema produttivo e si sono allineati alle visioni capitaliste del progresso, della crescita “verde”, dell’industria pulita e dell’agricoltura razionale. Quindici anni dopo, nel 2007, il Gruppo internazionale di esperti sul clima e Al Gore (!) hanno ricevuto il premio Nobel per la Pace; da quel momento l’ecologia è diventata di nuovo molto di moda…
Eppure non è successo granché in tutti questi anni sul piano dell’ecologia politica, se si esclude la presa di coscienza sul fatto che il clima era in crisi e che il problema ora era quello di uscire da questa situazione di squilibrio. È un discorso martellante che ci ammanniscono in continuazione politici, giornalisti, pensatori mediatici e scienziati, e persino certi cantanti o attori del cinema. Ebbene, come uscire dalla crisi ecologica, quando i pilastri fondamentali della società, responsabili di questa crisi, non vengono mai messi in discussione?

La crisi del clima capita a fagiolo!

Geniale questa crisi del clima! Arriva al momento giusto per salvare il capitalismo. Ci dicono che tra non molto non ci sarà più petrolio, proprio nel momento in cui il capitalismo ha sconfitto – e dunque perduto – il suo nemico storico, il “socialismo di Stato” in salsa staliniana, e stenta a inventarsene di nuovi: i terroristi e altri tipi di islamisti non hanno la medesima potenza di fuoco sul piano ideologico della nomenclatura di Mosca. La crisi del clima: ecco un nuovo avversario da affrontare tutti insieme, raccolti dietro ai nostri capi di Stato! Ci chiedono di stringere la cinghia nel momento stesso in cui emerge a livello mondiale una microclasse di superricchi, alcune migliaia di individui che si comprano automobili sportive e yacht, appartamenti di lusso nelle città globali del pianeta, individui che collezionano opere d’arte…
Ma, naturalmente, siamo noi quelli che inquinano troppo e riscaldano il clima! Ci dicono anche che dobbiamo rinunciare ai servizi pubblici dello Stato assistenziale proprio in un periodo in cui la finanza diventa l’elemento chiave di tutto lo spettacolare sistema mercantile del capitalismo e in cui si guadagna assai di più speculando in Borsa che investendo nel settore produttivo. E siamo noi che dobbiamo lavorare di più per ovviare agli errori del sistema capitalista…
Fermiamoci qui, il quadro è fin troppo noto. L’elemento chiave, affinché questo edificio capitalista, corrotto e oppressivo, divenuto molto instabile proprio a causa delle sue contraddizioni interne, resista nonostante tutto, è ottenere la nostra passività. Ebbene, per ottenere la passività degli individui, il modo migliore è quello di far loro paura e di colpevolizzarli. In questo contesto, la crisi del clima fa comodo ai capitalisti: ci dicono che moriremo tutti e, per di più, ci colpevolizzano. Il clima si riscalda perché tutte le mattine prendiamo l’automobile (che la pubblicità ha fatto di tutto per farci desiderare e che ci ha incoraggiato a cambiare prima che sia diventata inutilizzabile) e bruciamo benzina (il che fa la felicità dei magnati del petrolio, dai principi sauditi e dai mollah iraniani fino alla Exxon Mobil, alla Total o all’Agip). Se i bambini lasciano aperto il rubinetto dell’acqua mentre si lavano i denti, lontano da noi, in Etiopia o in Bolivia, altri esseri umani non avranno nemmeno acqua potabile e si ammaleranno di colera…
Anche in questo caso, si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi di questo discorso colpevolizzante, che provoca una impotenza generalizzata perché tutto ciò accade in un contesto di spoliticizzazione del mondo. Da vent’anni, dalla vittoria del “neoliberismo” sull’Unione Sovietica, e più ancora dall’avvento di tiranni democratici come Berluskozy, Putvedev o Bushobama, la spoliticizzazione è l’asso nella manica dei veri padroni del mondo, che si chiamano Monsanto, Syngenta, Exxon Mobil, Areva, Pfizer, Nestlé, CNN Time Warner…

Il lavoro al centro della crisi

Il lavoro è al centro di questo processo di colpevolizzazione/spoliticizzazione. Lavoriamo per consumare e sappiamo di produrre nocività dal punto di vista ecologico, mentre il capitalismo non si preoccupa di ridurre le sue emissioni tossiche. Nei momenti che trascorriamo al di fuori del lavoro e del consumo, la maggior parte di noi tenta di distruggere con il pensiero ciò che il sistema ci ha costretto a fare durante il giorno in cambio di un salario. Giorno dopo giorno, questo processo finisce per essere estremamente colpevolizzante, secondo un modello giudaico-cristiano-musulmano, nel quale le religioni improntate al senso di colpa si pongono come una maniera di vivere o di sopravvivere. Tale colpevolizzazione è il prezzo che accettiamo di pagare per vivere in questo sistema senza doverci ribellare e rischiare di liberarci. La colpevolizzazione è il prezzo dell’infamia.
In un simile contesto socioeconomico (o malgrado tale contesto), il lavoro permane al centro di tutti i programmi politici. La maggior parte dei partiti non pensa neppure a diminuire l’orario di lavoro; anzi: in tutta Europa viene alzata l’età del pensionamento. Il lavoro è messo in discussione soltanto in rari circoli della sinistra utopista, ma, nella maggior parte dei casi, ci si limita ad auspicare una semplice riduzione dell’orario di lavoro. Ma la riduzione dell’orario di lavoro è un attacco radicale al ruolo che il lavoro svolge nella nostra vita o mira semplicemente a migliorare la produttività delle macchine fino al punto in cui gli strumenti finirebbero per produrre per noi?
L’opposizione al lavoro non basta se si limita a chiedere una riduzione, anche se molto significativa, dell’orario di lavoro: ridurlo senza sconvolgere il modo di produzione, gli oggetti prodotti e senza abolire la merce significa affidare il nostro futuro alla tecnologia, agli scienziati, agli esperti e alle macchine. Questo era il sogno di Marx, di Lafargue e di tanti altri… Ebbene, non è forse il progresso tecnologico associato al culto del lavoro che ci hanno portato allo squilibrio climatico? Il nemico, in questo caso, non è soltanto il capitalismo neoliberista; è ogni forma di produttivismo, anche “verde”, anche definito “ecologico”.
I veri responsabili dello squilibrio climatico, il lavoro e la tecnoscienza, non sono mai posti sul banco degli accusati! Saremmo noi produttori gli imputati; veniamo dichiarati colpevoli di sprecare l’acqua, il petrolio o le foreste tropicali, di inquinare l’aria, i terreni e i fiumi. Questo è lo scopo strategico della campagna colpevolizzante sulla crisi del clima: spoliticizzare totalmente il problema. Ebbene, come sbarazzarci del nemico se siamo convinti che esso sta dentro di noi, che siamo la causa della nostra perdizione?

Superare la crisi ecologica

Per questo, il superamento della situazione attuale non è scontato. Tuttavia abbiamo davanti a noi molteplici vie, ma pochissime sono “rassicuranti” e ancor meno rivoluzionarie. La più in voga oggi è quella del capitalismo verde alla Al Gore o alla Cohn Bendit, un modo di produrre pulito, senza riscaldamento dell’atmosfera. Possiamo anche crederci, ma, comunque sia, questa “soluzione”, soprattutto, non metterà in discussione il culto del lavoro, e quindi dei rapporti di sottomissione e di dominio, su scala locale e globale, al tempo stesso. Il capitalismo “verde” in salsa democratica che oggi si tenta di vendere con una vasta operazione di marketing potrebbe benissimo cedere il posto a una dittatura verde, assai più efficace perché imporrebbe a tutti di “sacrificare” ciò che il sistema capitalista ci ha offerto finora: automobili, elettrodomestici, riscaldamento d’inverno e climatizzazione d’estate ecc. Una simile dittatura, benché “verde”, consoliderebbe i rapporti gerarchici e di dominio, perché dovremmo subirla in nome della nostra sopravvivenza; un simile colpo di mano si verificherà tanto più facilmente in quanto finiremo per credere che oggi, l’essenziale è salvare il pianeta. Il fatto che si arrivi ad approvare la dittatura in nome di una speranza superiore è il vero rischio che oggi ci fanno correre i catastrofisti di tutti i generi.
La decrescita si presenta come una strada alternativa al capitalismo verde, ma affinché il suo programma, anche se non è incerto, possa essere realizzato a livello mondiale, è necessario che paesi assai più popolosi dei nostri, quali l’India, la Cina, l’Indonesia ecc., cambino improvvisamente (in virtù di quale miracolo?) i presupposti dei loro obiettivi politici ed economici… Invece di mirare a una egemonia mondiale o regionale, dovrebbero abbandonare quel sogno di potenza e di aumento del livello di vita per una sorta di autosacrificio in nome della sopravvivenza dell’umanità. Tutto ciò sembra poco credibile, se si esclude l’imposizione dittatoriale di provvedimenti “ecologici”: ed ecco che rispunta la dittatura verde.
Qual è una soluzione ecologica alla crisi del clima? Una politica ecologica? L’ecologia comincia con la comprensione dei rapporti di non dominio che gli esseri umani devono stabilire tra loro e con il loro ambiente. Instaurare una relazione non distruttiva con il nostro ambiente naturale implica di criticare tutte le forme di dominio, degli uomini sulle donne, degli adulti sui bambini, dei “cristiani” sui musulmani e viceversa, ecc., perché noi tutti facciamo parte dell’“ambiente” degli altri, che, a loro volta, costituiscono il nostro “ambiente”.

La decrescita come alternativa

Una politica ecologica è una politica di assenza integrale di dominio. Essa implica il rifiuto del potere di cui dispongono gli Stati, gli esperti e le società transnazionali, di decidere per noi del nostro futuro. L’ecologia è assolutamente compatibile con una società fondata sul comunismo antiautoritario, sull’anarchia e sull’assenza di violenza, ma non lo è certamente con la dittatura verde, che presuppone, di necessità, il mantenimento dei rapporti di dominio tra gli esseri umani, soprattutto nel lavoro. La creazione di filiere corte per il nostro sostentamento, il fatto di prendere in mano la nostra vita (e non la nostra sopravvivenza) in tutti i campi, dalla produzione agricola alla cultura e alla riflessione, è possibile in spazi che non hanno bisogno di un mondo tecnologizzato per svilupparsi – e che conserveranno, in questo modo, la diversità del mondo, dei mondi, contro l’omologazione alienante del capitale globale. Ancora oggi lo dimostrano le comunità zapatiste del Chiapas, e numerosi esempi storici provano che le realizzazioni umane emancipatrici non hanno niente da aspettarsi dalla globalità né dalla tecnoscienza.
L’ecologia antiautoritaria è un’utopia? La vera incoscienza consiste piuttosto nell’affrontare la crisi del clima senza individuare le vere cause del degrado del nostro pianeta. È proprio il nostro lavoro, i cui effetti nocivi sono considerevolmente esagerati dall’inaudito potere della tecnoscienza, che ci ha portato al punto in cui ci troviamo. Vivere l’ecologia inizia con l’uscire dal mondo del lavoro.

Philippe Godard
(traduzione di Luisa Cortesi)