rivista anarchica
anno 39 n. 348
novembre 2009


un documento storico

Chiarezza e determinazione
di Massimo Ortalli

 

Erano anni di forte impegno quelli dopo la fine della guerra. Anni nei quali il movimento anarchico, ricomposte le fila dall’esilio, dal carcere, dal confino, cercava di ritrovare all’interno della società italiana il ruolo e la presenza che erano stati quasi del tutto cancellati da vent’anni di dittatura. E coloro che finalmente poterono riprendere il posto nella lotta sociale non si risparmiarono. I giri di conferenze e comizi erano frequenti e ovunque, in Italia, c’erano oratori impegnati in tour de force estenuanti ma premiati da un concorso di pubblico quale oggi potremmo solo immaginarcelo.
Alfonso Failla era uno di questi, sempre disponibile a parlare del “ruolo degli anarchici oggi” o ad illustrare la apodittica dichiarazione d’intenti riassunta nella formula “né dio né padrone”. A cavallo fra il dicembre 1946 e il gennaio 1947 compiva uno dei suoi soliti giri, il 15 dicembre era a Salerno, il 27 a Ragusa, il 29 a Vittoria, il 13 gennaio a Pozzuoli, poi il 15 a Capua, e dopo, sicuramente, in altre località. Guardando le date, però, sembra esserci un salto. Anzi, leggendo la lettera qui pubblicata (1), spedita alla redazione di “Umanità Nova” e pubblicata nel n. 4 del 26 gennaio 1947, appare evidente che il salto c’è davvero: a Reggio Calabria la conferenza non si tiene, stante la decisione di questore e prefetto di vietarla per non turbare “l’ordine pubblico”.
Come si legge in un commento firmato da Giuseppe Grillo e apparso sullo stesso numero di “Umanità Nova”, la decisione censoria delle autorità reggine non era affatto un caso isolato, ma si verificava regolarmente, legittimando, quindi, l’accusa che gli anarchici, non da soli, muovevano al potere politico, di restaurare forme illiberali eredi del precedente regime fascista.
Colpisce, nel documento che pubblichiamo, l’estrema chiarezza del linguaggio usato dai compagni del Gruppo Misefari (2) di Reggio Calabria, linguaggio privo di eufemismi o circonlocuzioni. Gli “anarchici di Calabria”, infatti, nel rivolgersi ai rappresentanti del potere costituito, che in questo caso è anche potere assoluto, non la mandano a dire. Non temono la reazione di un’autorità non abituata ad essere messa in discussione con tanta sincerità, e non si esimono dal definire i poliziotti “disertori del lavoro” (dal duro lavoro della fabbrica o dei campi) e il questore e il prefetto “spegnimoccoli, vigliacchi e servili”.
Questa chiarezza e determinazione nel far valere le proprie ragioni non sono eccessi verbali spesi per dare loro maggior risalto. E non sono nemmeno affermazioni gratuite, gridate per fare colpo su chi legge. Sono invece la manifestazione di una integrità politica e di una forza morale che non hanno paura di essere messe in discussione e che sono talmente inattaccabili da permettere di rivolgersi al “potere” con una libertà che pochi saprebbero e potrebbero prendersi. Gli “anarchici di Calabria”, in questa poche righe, si fanno testimoni del patrimonio di valori comune a tutto il movimento anarchico. E oggi, dopo più di sessant’anni, è giusto ricordare questo atto di protesta, piccolo, forse, ma ancora di grande significato.

Massimo Ortalli

Note

  1. Questa lettera si trova presso il Fondo Fedeli dell’IISG (Istituto Internazionale per la Storia Sociale) di Amsterdam. Una copia fotostatica è conservata presso l’Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana a Imola.
  2. Non è un caso che il gruppo anarchico reggino fosse intitolato a Bruno Misefari, senza dubbio una delle figure più belle e importanti dell’anarchismo calabrese. Nato nel 1892, di professione ingegnere, Misefari iniziò giovanissimo a manifestare i propri convincimenti libertari e antimilitaristi. Più volte arrestato, processato e condannato per le sue idee, non piegò mai la testa e anche sotto il fascismo mantenne intatta la sua profonda adesione ai principi anarchici. Condannato al confino nel 1931, venne inviato a Ponza, dove poté ritrovare molti dei vecchi amici e compagni, deportati come lui nelle “Siberie a cielo aperto” del regime fascista. Tra questi anche Alfonso Failla, il seggiolaio anarchico che scontò nelle isole più anni di confino di qualsiasi altro oppositore del fascismo. Stroncato da un male incurabile, Misefari morì nel 1936 a soli 44 anni. Quando Failla fu invitato a parlare dai compagni calabresi del gruppo Misefari, si ristabilì, idealmente, quella comunanza di idee e di esperienze che nemmeno la dittatura fascista era riuscita a spezzare.