rivista anarchica
anno 39 n. 348
novembre 2009


capitalismo

Il crollo della finanza
di Alessandro Volpi

Cercare di capire cause e modelli di ciò che sta accadendo da oltre un anno nel mondo finanzario internazionale.
In un libro da poco edito dalle edizioni BFS un’analisi interessante. Ecco la premessa dell’autore.

 

La natura stessa dell’attuale crisi finanziaria, esplosa con una forza per molti versi inattesa e in verità difficilmente prevedibile, consiglia un’estrema cautela nel tracciare scenari futuri. Diverse sono infatti le contraddizioni in atto ma sicuramente una delle più gravi, che rende complessa ogni analisi di ciò che accadrà, è data dalla modifica profonda intervenuta nelle strutture proprietarie del sistema economico internazionale. Dalla metà degli anni Ottanta si è assistito ad un’estensione della nozione stessa di mercato finanziario, con l’accresciuto ruolo di vari soggetti – a partire dalle banche – che in molti ordinamenti hanno ottenuto la prerogativa di creare prodotti finanziari, di acquisire partecipazioni rilevanti in imprese e di produrre in proprio gli strumenti per sostenere tali imprese, spesso attingendo a piene mani alle innovazioni dell’ingegneria finanziaria. Espressione tipica di questo processo è stata l’abolizione nel 1999 da parte dell’amministrazione Clinton dello storico Glass-Steagall Act, introdotto nel 1931 dopo la grande crisi il quale imponeva una netta distinzione delle banche commerciali da quelle di investimento. Simili processi non solo hanno modificato la nozione stessa di rischio per milioni di utenti bancari, inseriti di fatto senza troppa consapevolezza nel mercato finanziario, ma hanno anche alterato la catena di controllo delle società, riproponendo e amplificando a dismisura i conflitti di interesse tipici delle “banche miste”.
La stessa ingegneria finanziaria ha poi permesso a queste banche proprietarie di distribuire i pericoli delle operazioni aperte creando appositi strumenti-veicolo che determinano una vera e propria invisibilità delle esposizioni e delle stesse filiere di controllo. Accanto al nuovo ruolo delle banche esiste, come è noto, il peso crescente dei fondi hedge e private che hanno comprato utilizzando un pronunciato effetto leva, destinato a costringerli a rispondere in termini brevissimi ai loro sottoscrittori, con la preoccupante conseguenza della “trimestralizzazione” degli andamenti perseguiti; è sempre più evidente quindi una prospettiva interamente finanziaria, attratta dalle sirene della speculazione e che certo mal si concilia con i tempi degli investimenti di natura produttiva. Un fenomeno tutt’altro che trascurabile qualora si tenga presente, solo per citare un dato, che in Inghilterra oltre 3 milioni di lavoratori, il 20% degli occupati nel settore privato, erano ancora nel luglio 2008 dipendenti di imprese di proprietà dei fondi o da essi partecipate; si tratta di un comparto ora talmente in crisi da costringere ad un ripensamento l’intero sistema economico britannico, il quale paga il peso di una eccessiva terziarizzazione finanziarizzata e il venir meno di grandi marchi “nazionali”: ormai solo 1/3 del sistema manifatturiero britannico è in mani inglesi.

L’allargamento dei mercati finanziari

La distinzione tra fondi “attivisti”, che intendono cioè partecipare alla gestione delle imprese finanziate, e fondi neutrali pare, in ultima analisi, abbastanza debole visto che comunque entrambe le tipologie devono rispondere ai loro sottoscrittori sulla base di scadenze molto ravvicinate. In particolare i fondi hedge hanno ulteriori controindicazioni proprio in relazione alla struttura proprietaria; il fatto di ricorrere così massicciamente all’indebitamento per finanziarsi, con un’incidenza sulle loro disponibilità effettive che supera di molto la capitalizzazione, e la logica determinante del breve termine non consentono di sapere in realtà a chi appartengano nei diversi momenti della loro esistenza e dunque di chi siano dipendenti i lavoratori delle imprese acquistate. A causa degli strumenti che utilizzano, non di rado tali fondi coprono infatti il finanziamento con il loro capitale per una percentuale pari al 20%, mentre il restante 80% è frutto di debiti che hanno bisogno, per essere sostenibili, di tassi decisamente bassi.
Rispetto ad un simile quadro, a volte le immagini sono molto più chiare delle descrizioni minuziose e argomentate. Quella di un vero e proprio “allagamento” dei mercati finanziari internazionali può servire a rendere bene l’idea della strabordante liquidità generata negli ultimi anni da tassi d’interesse molto bassi, dal risparmio forzato dei cinesi, dai giganteschi surplus delle bilance commerciali dei paesi emergenti e da vari altri fattori difficili da raccontare in poche righe. Questo allagamento ha contribuito a scatenare molteplici effetti; in primo luogo ha trasformato in soggetti finanziari intere fasce sociali che non lo erano a causa delle debolezze del loro reddito. I mutui concessi a potenziali insolventi e poi cartolarizzati per produrre ricchezza finanziaria non sarebbero stati possibili senza gli eccessi di liquidità. Così come senza una tale, ampia disponibilità di carta monetaria e commerciale non sarebbe stato possibile ridurre per molti mesi la volatilità dei mercati fino a ingenerare l’illusione ottica della scomparsa stessa della nozione di rischio; e un capitalismo senza la percezione del rischio, perché i titoli del Tesoro usa rendevano come quelli di un paese dei Balcani, dava corpo ad una sorta di Eden arredato in pieno stile Las Vegas.
Un allagamento irrorato da una enorme messe di dollari, capace di tenere in piedi la disastrata bilancia commerciale della più grande economia del pianeta, alle prese con la perdita di potere d’acquisto dei salari dei cittadini statunitensi che solo le merci sottocosto di cinesi e “cinesizzati”, pagate appunto in dollari creati all’occorrenza, erano in grado di continuare a far consumare.
Parallelamente ad una simile crescita, le invenzioni dell’ingegneria finanziaria sono state applicate nel concepire strumenti per un radicale abbattimento dei rischi connessi all’attività di mercato. Al fine di aumentare in modo esponenziale il numero dei soggetti finanziarizzati, interessati dai prodotti delle banche e dai titoli dei fondi, e di quelli indebitati, che hanno contratto debiti per operare tali acquisti, è divenuto necessario infatti contenere le eventualità di perdite sia per chi presta sia per chi è destinatario del prestito.
Alla luce di ciò si è affermato un modello di allocazione del rischio di credito che è passato dallo schema originate and hold al più “avanzato” originate to distribute. Nel primo caso le banche concedevano il credito e si facevano carico del compito di vigilare sulla solvibilità del destinatario del credito stesso, avendo la preoccupazione principale di evitarne il fallimento. Nel secondo, ora più diffuso, l’originatore dei crediti li assembla in combinazioni di varia qualità e di vario livello di rischio in strumenti cartolari strutturati in strati con diverso grado di subordinazione che poi cede ad investitori istituzionali e gestori di patrimoni; in tale sequenza il rapporto tra il soggetto che eroga il credito e il beneficiario di esso diventa di fatto quasi anonimo e l’interesse per una restituzione certa scema. Anzi, qualora la concessione del credito si sia abbinata a forme di assicurazione contro il rischio, appare assai più conveniente il fallimento del creditore.

Circolo vizioso

La strada per limitare i rischi è quindi quella di spalmarli su una platea molto ampia di compratori di titoli rappresentativi del credito originario che risultano di conseguenza partecipi di una solvibilità non più singola ma collettiva. Di questa frammentazione sono stati a più riprese illustrati molteplici vantaggi, spesso con enfasi eccessiva. Nelle nuove condizioni sarebbe più semplice il pooling dei rischi e si contrarrebbe il fabbisogno di capitale in rapporto al credito originato; al tempo stesso gli investitori dispongono di nuove opportunità in merito alla combinazione rischio-rendimento e soprattutto soggetti che prima erano esclusi dal credito perché giudicati sprovvisti di garanzie vengono ammessi ai finanziamenti per effetto, appunto, della distribuzione “collettiva” dell’incertezza circa la loro capacità di saldare. Il pericolo di crisi sistemiche si riteneva scongiurato accrescendo la percezione della sicurezza per effetto di un ampliamento delle dimensioni dei fenomeni finanziari tale da garantire una costante disponibilità di risorse liquide da parte di soggetti resi affidabili dalla catena delle cartolarizzazioni.
A questo fine hanno concorso le già ricordate strategie di alcune banche centrali, in particolare della Federal reserve guidata da Alan Greenspan, attenta ad allagare di liquidità con tassi molto bassi e con iniezioni di pronti contro termine le diverse piazze del pianeta. La sensazione di sicurezza è stata rafforzata anche dalla limitazione della volatilità dei mercati, dipendente in gran parte proprio dalla grande liquidità disponibile e dagli strumenti pensati per veicolarla che hanno permesso a titoli ad alto rischio di pagare interessi decisamente contenuti, di fatto stabilizzandone gli andamenti. Si è definito pertanto un circolo vizioso nel quale il basso costo del denaro ha facilitato il ricorso a modelli di indebitamento molto azzardati, con effetto leva fino a trenta volte il capitale effettivamente disponibile, ma dove, al contempo, il livello di “azzardo morale” è rimasto occultato proprio dal denaro a buon prezzo.
Ad accrescere l’impressione della cornucopia ha concorso parimenti quello che Nouriel Rubini ha qualificato come il «sistema finanziario ombra», composto da istituzioni non bancarie ma che alla stregua delle banche «ottengono prestiti a breve termine e in forme liquide mentre concedono prestiti a lungo termine e in asset molto meno liquidi». Tale sistema include veicoli di investimento strutturati come i siv, i veicoli finanziari extrabilancio, i conduit, i fondi monetari, le assicurazioni monoramo, oltre ai già ricordati hedge: tutte realtà che hanno la caratteristica di dipendere dalla prerogativa di rinnovare le scadenze debitorie in quanto le loro passività a breve termine possono essere inventariate facilmente, mentre i loro asset sono a lungo termine e illiquidi.
Un’asimmetria sanabile, ancora una volta, solo con tanta liquidità che nel caso del “sistema ombra” non ha potuto derivare direttamente dalle banche centrali che gli sono normalmente precluse data l’assenza in tale sistema di istituzioni depositarie. Spesso però i conduit risultano una filiazione più o meno legittima delle banche stesse che hanno preferito fare ricorso ad essi per evitare di sopportare i costi legati al fatto di detenere il capitale. A differenza delle società industriali che dispongono di un capitale compreso tra il 30 e il 50% e un debito tra il 70 e il 50%, le banche fanno ampio ricorso alla leva finanziaria con un capitale fino al 12%, ma talvolta solo fino al 5%, e con la percentuale restante composta da capitale di bassa qualità o da debito. In questo contesto, data l’assoluta centralità di una fiducia diffusa per il mantenimento delle condizioni di una facile liquidità, la struttura dei modelli di valutazione del rischio non è stata perfezionata in maniera altrettanto minuziosa rispetto all’ingegneria finanziaria.

Molteplici contraddizioni

Le agenzie di rating hanno mostrato infatti una notevole accondiscendenza nei confronti di molti prodotti finanziari, difficili da valutare per la scarsa esperienza “storica” e per l’opacità intrinseca dei crediti strutturati. I prezzi dei titoli valutati sembravano in grado di sfornare sempre e comunque premi allettanti e le agenzie di rating hanno evitato di mettergli un freno, sfruttando la loro condizione di pressoché assoluto monopolio della valutazione che la legislazione usa gli attribuisce sia in rapporto al controllo degli intermediari sia all’ammissibilità degli strumenti finanziari nel portafoglio degli investitori istituzionali. In tale ottica la filiera della costruzione del valore si snodava attraverso una serie di passaggi il cui grado di sicurezza, per quanto artificiale, è stato a lungo sovrastimato; una sopravvalutazione decisamente poco costosa nel particolare caso dei derivati che hanno raggiunto il valore nominale abnorme di 500 mila miliardi di dollari, potendo disporre della “solidità” attribuita loro dalle frequenti esternazioni di Alan Greenspan che li ha definiti gli strumenti in grado di «differenziare il rischio e di allocarlo agli investitori più capaci e desiderosi di assumerlo». Se per ottenere 100 mila dollari in azioni a Wall Street servono 50 mila dollari in contanti e per comprare a termine con un future 100 mila dollari di greggio sono sufficienti 5 mila dollari, è evidente che quest’ultima operazione abbia avuto un appeal maggiore e abbia attirato molti soggetti altrimenti privi di risorse che hanno contribuito così alla generalizzata fame di liquidità e ad un’insicura sicurezza.
Le molteplici contraddizioni insite nelle pratiche della nuova ingegneria finanziaria hanno cominciato ad esplodere nell’estate del 2007 con la crisi degli ormai noti mutui subprime, prestiti concessi a clienti di fatto privi delle garanzie per accedere a forme di credito standard. Tali mutui che nel 1998 erano circa 600 mila, pari al 2% di tutti i mutui usa, sono saliti a quasi 6 milioni alla fine del 2006 per una percentuale del 13,5% del totale. Una crescita tanto tumultuosa si è legata alla progressiva contrazione del reddito medio degli americani e alla vera e propria bolla immobiliare per cui chi si indebitava anche a tassi molto alti aveva la certezza quasi matematica di un rialzo del prezzo dell’immobile acquistato decisamente superiore a quello pagato. Al contempo l’istituto che erogava il credito poteva spalmarlo attraverso le cartolarizzazioni su altri soggetti disposti ad assumere porzioni di rischio in cambio di un interesse.
L’intero sistema si reggeva dunque su due elementi: il prezzo delle case in continua crescita e i bassi tassi d’interesse che facilitavano la catena dell’indebitamento e la gestione del debito. Così l’americano dal reddito incerto poteva coronare il sogno di divenire titolare di casa, alimentando le fortune del mercato di cui era parte.
Quando il mercato immobiliare nell’agosto 2007 ha manifestato chiari segni di regressione, il primo perno del sistema ha cominciato a cedere e la rincorsa verso il basso posta in essere dalla Federal reserve – fino a portare i tassi ben sotto il livello dell’inflazione così da rendere conveniente indebitarsi – non è sembrata in grado di mettere un argine vero alla crisi. Il problema infatti era duplice: capire le dimensioni reali del fenomeno subprime e individuare quanta parte dei prodotti finanziari circolanti per i ben poco definiti mercati del pianeta fosse stata contaminata dalla cartolarizzazione dei medesimi subprime. Soltanto dando una risposta convincente a queste due domande sarebbe diventato possibile limitare gli effetti di un “credit crunch”, di una restrizione dei cordoni del credito dovuta alla paura da parte di banche e operatori di finanziare attività già compromesse.
Ciò è risultato particolarmente importante perché, a differenza di quanto avveniva fino al 2004 – allorché gran parte dei mutui era gestita da due società pubbliche o semipubbliche (come Fannie Mae, Guinnie Mae e Freddie Mac responsabili del 70% di tutte le emissioni di titoli con mutui o asset immobiliari come garanzie collaterali) – dal 2006 oltre il 57% di tali titoli è finito nell’orbita di banche e finanziarie, sia di quelle specializzate come Indymac, Wamu e Countrywide sia di quelle di gran nome, da Leheman Brothers a Jp Morgan, da Goldman Sachs fino a Bear Sterns; tutte realtà che hanno pagato a caro prezzo una simile esposizione, senza peraltro che le agenzie pubbliche siano riuscite ad avere conti migliori vista la mole di mutui subprime cartolarizzati. La sicurezza generata dalla distribuzione del rischio è divenuta così, con estrema velocità, paura dilagante.

Enorme instabilità dei mercati

Davanti ad una dispersione tanto marcata, l’accennata stima delle perdite connesse alla bolla subprime risulta estremamente complessa e tale da scatenare vere e proprie controversie. Le sterminate distese dei mercati non sono più rappresentate in nessuna mappa del rischio e forse nemmeno rappresentabili. Quando Goldman Sachs, con le sue enormi difficoltà, è stata costretta a rivedere in poco tempo le valutazioni circa le perdite indotte dalla crisi globale del credito, portandole da 445 a oltre 1.200 miliardi di dollari (fino poi a 4 mila miliardi), l’unica certezza è rimasta quella di navigare a vista, senza carte nautiche e armati della speranza di non incappare negli scogli di una recessione sempre più cupa. In fondo, il tasso di insolvenza sui circa 11 mila miliardi di dollari di mutui usa è stato finora dell’8,5% e si stima che esistano circa 2-3 mila miliardi le cui rate peggioreranno fino a sfiorare un’insolvenza del 50% nei prossimi due anni. Il problema è che, come ha rilevato Hernando de Soto, «in tutto il mondo ci sono soltanto 13 mila miliardi di dollari di liquidità in monete e banconote, ma centinaia di migliaia di miliardi di dollari di titoli con moneyness», tra cui una parte significativa di mutui deboli e asset tossici.
Deriva da qui l’enorme instabilità dei mercati, messi costantemente sotto pressione dal bisogno di liquidità per alimentare erogatori di credito e acquirenti di carta commerciale a corto di risorse e senza una proprietà certa. La mancanza di una struttura proprietaria stabile ha portato con sé, altrettanto frequentemente, rischi di insider trading finalizzati a stravolgere il valore “reale” degli asset a cui i fondi, per i caratteri prima accennati, non sono mai legati in maniera duratura. L’essere inoltre fuori dalle Borse ha accentuato ancora di più questa opacità, che si estende ovviamente alle società in cui tali fondi decidono di entrare; ma anche nel caso in cui i fondi scelgano di quotarsi, come ha fatto Blackstone, permane il pericolo che diventino delle gigantesche investment banks, senza sopportarne il costo fiscale e senza sottomettersi alle regole previste per tali funzioni. Proprio la vicenda Blackstone permette peraltro di allargare ancora il ventaglio dei problemi in quanto nel suo capitale ha fatto ingresso uno degli ormai noti fondi sovrani in mano al governo cinese, con l’acquisizione di una significativa quota del 10%. Un fondo opaco risulta così partecipato da uno Stato del tutto estraneo a forme democratiche sia in campo politico che in quello economico; se tale fondo controlla pezzi del sistema produttivo in varie parti del pianeta, l’idea che il mercato abbia delle regole a cui i players devono “correttamente” rispondere appare assai debole, tanto più se, come è avvenuto, gli esiti dell’intera operazione sono stati decisamente negativi.

Il ruolo dei paradisi fiscali

Ai fini della trasparenza della catena della proprietà societaria certo non giova neppure il continuo abuso che i fondi fanno dei paradisi fiscali. Le isole Cayman sono la capitale mondiale dell’industria degli hedge, tanto che su 9.000 fondi censiti nel primo semestre 2007, 8.522 – pari all’87% del totale – risultavano registrati a George Town. Qualche preoccupazione in tal senso emerge anche in relazione alla proprietà delle ruggenti imprese cinesi, dove accanto allo Stato compaiono investimenti diretti esteri che provengono per quasi 15 miliardi da paradisi fiscali (11 miliardi dalle sole Virgin Islands), contro i “soli 3 miliardi provenienti “formalmente” dagli Stati Uniti. Del resto, nonostante la definizione nel 2000 di una black list da parte dell’ocse che conteneva l’indicazione di 35 Stati qualificati come paradisi fiscali a cui venivano richiesti precisi chiarimenti in termini di trasparenza, gli ultimi anni hanno conosciuto solo un adeguamento formale da parte di tali soggetti a regole condivise in sede internazionale. Le isole Cayman ad esempio dal 2000 al 2008 hanno registrato una crescita delle loro passività bancarie con gli investitori esteri da 781 a 1.721 miliardi di dollari. La presenza di un sistema dai contorni così indefiniti, in particolare in relazione alla questione decisiva degli assetti proprietari, e che ha già conosciuto una violenta deflagrazione non permette dunque di sapere molto in merito a cosa potrà accadere sui mercati nei prossimi tempi.
È interessante notare a questo riguardo lo sforzo posto in essere da g8 e dalle autorità finanziarie internazionali per stabilire, proprio per fronteggiare la crisi, degli argini più solidi al fenomeno dei paradisi fiscali spingendo la Svizzera all’abbandono del segreto bancario attraverso il superamento della distinzione fra evasione fiscale e frode fiscale, in maniera da scatenare un processo virtuoso anche in realtà analoghe magari accompagnandolo con nuove forme di scudi fiscali pronti a fare “concorrenza” ai paradisi stessi. Nel momento in cui è deflagrata la crisi e serve denaro pubblico è chiaro che la permanenza dei paradisi fiscali non è più tollerabile e forse imporre regole migliori diventa più facile se una larga parte dei 2 mila miliardi di dollari di asset depositati in Svizzera stanno dirigendosi in maniera inattesa verso gli Stati Uniti, a dimostrazione del materializzarsi della paura anche nei confronti dei luoghi tipici della finanza anonima; una spinta che la presidenza Obama vuole rafforzare con un piano in cui è previsto il recupero di 210 miliardi di dollari in 10 anni attraverso la leva fiscale nei confronti delle multinazionali che ora pagano solo il 2% sul loro reddito estero.
Il capitalismo finanziario, nel costante tentativo di perfezionarsi e di creare nuova ricchezza ben oltre la disponibilità del sistema produttivo, ha smarrito ogni traccia di identificazione fino a perdere la propria identità e a rendere anonimo e imprevedibile il rischio connesso alle proprie attività. In un arco di tempo molto breve si è passati dalla scomparsa del rischio alla sua assoluta dilatazione, due dimensioni entrambe evidentemente artificiali che tendono a dimostrare il fallimento di un vero e proprio modello.

Alessandro Volpi

Alessandro Volpi
Una crisi, tante crisi
Il crollo della finanza e la malattia del mercato

BFS edizioni, pp. 112, 2009
euro 13,00
ISBN 978-88-89413-40-1

L’attuale crisi presenta caratteri nuovi. Costituisce l’epilogo di una serie di contraddizioni emerse all’interno del capitalismo finanziario degli ultimi vent’anni: eccesso di liquidità, volontà di cancellare la nozione stessa di rischio, distribuendola su una miriade di soggetti, moltiplicazione degli strumenti speculativi.
In questo senso è una crisi che contiene in sé più crisi diverse, dalla crisi immobiliare a quella finanziaria fino a quella industriale. È quindi la prima vera crisi globale che non parte dalle aree deboli dall’economia internazionale, ma dal cuore del sistema, muovendo dagli Stati Uniti all’Europa e di qui al resto del mondo.
In un tale clima l’idea che il lavoro debba essere prima di tutto riservato ai cittadini “autoctoni” diventa decisamente prevalente. Statalismo, protezionismo, nazionalismo possono comporre quindi una pericolosa catena di “ismi” che rischia di sfociare nella xenofobia; un sentimento di cruda ostilità verso lo straniero, “depredatore” delle magre disponibilità nazionali, che molti linguaggi della politica possono coltivare e che persino le forze sindacali faticano a contenere.

L’autore
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Fra i suoi lavori: Le società globali. Risorse e nuovi mercati (Carocci, 2002); Breve storia del mercato finanziario italiano. Dal 1861 a oggi (Carocci, 2005); Mappamondo postglobale. La rivincita dello Stato, nuovo protagonista dell’economia globale (Terre di Mezzo, 2007). Ha inoltre pubblicato, con Marco Manfredi, Storia illustrata di Carrara (Pacini, 2007). Per BFS è autore di La fine della globalizzazione? Regionalismi, conflitti, popolazione e consumi (2005) e Senza misura. I limiti del lessico globale (2008).