rivista anarchica
anno 36 n. 319
estate 2006


comportamenti

Noi e gli animali
di Francesco Robustelli

 

“Il rapporto con l'animale come rapporto con il diverso” è il titolo di questa relazione scritta da Francesco Robustelli.

 

Il rapporto con il diverso

Uno degli aspetti fondamentali dell'esperienza umana è il rapporto con il diverso. Ciascun essere umano fa parte di una realtà in cui tutto è diverso da lui. Naturalmente, problematico sul piano psicologico non è tanto il rapporto con gli elementi inanimati della realtà (un sasso, un tavolo, un edificio) ma è il rapporto con gli altri esseri viventi, in particolare con quegli esseri viventi che pensano, che hanno emozioni e soprattutto che soffrono. Per questo tante ricerche psicologiche hanno affrontato le tematiche dell'empatia, cioè della capacità di immedesimarsi in un altro individuo sia sul piano cognitivo che sul piano affettivo.
In questo contesto il rapporto degli esseri umani con gli animali acquista un particolare significato, dato l'alto grado di diversità degli animali rispetto agli esseri umani. Gli interventi educativi per lo sviluppo dell'empatia nei riguardi degli animali devono avere un ampio respiro perché un rapporto positivo con gli animali può costituire un valido strumento esperienziale per imparare a stabilire rapporti positivi anche con gli esseri umani. Da un punto di vista psicologico infatti la struttura logica di quel complesso processo che è la comprensione degli altri è sempre la stessa, che si tratti di comprensione fra donne e uomini, fra vecchi e giovani, fra poveri e ricchi, fra eschimesi e ottentotti o fra esseri umani e animali.

La capacità di immedesimarsi negli altri, almeno per quanto è umanamente possibile, è il fondamentale punto di partenza per un'efficace socializzazione. La qualità dei nostri rapporti interpersonali dipende soprattutto dalla misura in cui riusciamo a capire i pensieri e i sentimenti degli altri. Non possiamo entrare nella mente degli altri. L'unica mente che ci è direttamente accessibile è la nostra. In questo senso siamo irrimediabilmente isolati. Ma possiamo almeno in parte rompere questo isolamento cercando di immaginare i contenuti mentali degli altri per mezzo della comunicazione e dell'analisi del loro comportamento.
È importante capire ciò fin dall'infanzia perché solo in questo modo possiamo abituarci al sistematico ed impegnativo sforzo di immedesimazione. Purtroppo la nostra cultura non ci incoraggia in questa direzione. La nostra cultura orienta il nostro sviluppo psicologico soprattutto nella direzione dell'egocentrismo. Ci abituiamo a considerarci il centro dell'universo. Nella maggior parte dei casi non ci poniamo affatto il problema della diversità degli altri in modo concreto. Per lo più proiettiamo negli altri noi stessi. È per questo che la psicologia sostiene la necessità di una decentrazione cognitiva ed affettiva. Si tratta indubbiamente di un processo difficile e faticoso. Ma il mondo sarebbe infinitamente migliore se questo processo facesse parte del normale sviluppo psicologico di ogni individuo.

Lo sviluppo dell'empatia

La psicologa americana Norma Feshbach (1991, 1996) ha messo a punto varie tecniche per favorire lo sviluppo dell'empatia nei bambini delle scuole elementari. Per esempio si abituano i bambini ad analizzare fotografie di volti umani o registrazioni di conversazioni in modo da capire le emozioni espresse nei volti o nelle conversazioni. Oppure si cerca di facilitare nel bambino la capacità di mettersi nei panni di un altro chiedendogli quale regalo pensa che un membro della sua famiglia gradirebbe per il suo compleanno. Oppure gli si chiede: “come ti apparirebbe il mondo se tu fossi alto come una giraffa o piccolo come un gatto?” Oppure: “che cosa farebbe il tuo maestro – o tuo fratello più grande, o un poliziotto, o il tuo migliore amico – se trovasse un bambino perduto in un grande magazzino?” Infine si può far recitare al bambino la parte di un personaggio in una scena teatrale, poi gli si fanno recitare le parti di altri personaggi della stessa scena. Quindi si fanno analizzare al bambino le varie parti che ha recitato in modo che possa individuare e confrontare fra di loro i punti di vista dei vari personaggi. Si cerca anche di insegnare al bambino ad esaminare le conseguenze che hanno sugli altri i comportamenti aggressivi, anche suoi. Questo porta ad un potenziamento della componente affettiva della sua empatia. La decentrazione cognitiva ed affettiva permette al bambino, nei suoi rapporti con gli altri, di sostituire una prospettiva alterocentrica ad una prospettiva egocentrica.
Si tratta insomma di attivare nel bambino certi meccanismi di pensiero e di partecipazione affettiva che lo abituino a immedesimarsi negli altri più che sia possibile. E, poiché l'atteggiamento empatico fra due individui è tanto maggiore quanto più essi si percepiscono come simili, di fondamentale importanza è sviluppare al massimo nel bambino la capacità di individuare negli altri ciò che essi hanno in comune con lui.


Il rapporto con gli animali

In questa prospettiva il rapporto con gli animali, soprattutto con gli animali superiori, ha un ruolo determinante proprio perché gli animali sono molto diversi da noi e quindi l'addestramento all'empatia nei loro riguardi costituisce un esercizio efficacissimo e permette l'acquisizione di processi di pensiero e di partecipazione affettiva particolarmente adatti al potenziamento delle capacità empatiche in generale.
Il maggior ostacolo allo sviluppo di un atteggiamento empatico nei riguardi degli animali è costituito dall'antropomorfismo, che non è altro che un egocentrismo sul piano interspecifico.
L'antropomorfizzazione degli animali consiste nell'attribuzione ad essi di caratteristiche umane. Questo significa che la loro diversità viene fondamentalmente negata e comunque non compresa.
Per il bambino piccolo l'atteggiamento antropomorfico nei riguardi degli animali è la norma. Egli attribuisce agli animali i suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi desideri, le sue motivazioni. Parla col suo cane o col suo gatto convinto di essere capito. Intervenire su questo atteggiamento antropomorfico, fargli capire che gli animali sono diversi da lui e che, se non capisce questo, non può neanche rendersi conto delle loro reali esigenze, è molto importante. Significa appunto attivare in lui quel processo di decentrazione cognitiva ed affettiva che gli permetterà di porsi in un rapporto corretto con gli altri in generale, favorendo in modo determinante il suo processo di socializzazione.
D'altronde il rapporto degli esseri umani con gli animali è particolarmente adatto per capire gli abissi di incomprensione e di violenza che sono inevitabilmente prodotti dall'assenza di empatia. Per illustrare questo punto farò due esempi, uno tratto dalla letteratura e un altro tratto dalla ricerca scientifica.

Moby Dick di Melville

L'esempio tratto dalla letteratura è costituito da Moby Dick di Melville, considerato uno dei capolavori della letteratura americana dell'ottocento. Riassumo la trama del romanzo.
Moby Dick è il nome che molti danno ad una grossa balena bianca. Achab, comandante di una baleniera, ha tentato di uccidere Moby Dick ma non c'è riuscito e nella lotta la balena gli ha portato via una gamba. Dopo di ciò Achab è ossessionato dal desiderio della vendetta e nonostante la sua invalidità continua a comandare baleniere alla forsennata ricerca di Moby Dick. Alla fine lo trova e a bordo di una lancia gli va incontro e lo colpisce con due arpioni. Ma la balena ha di nuovo la meglio. Moby Dick infuriato si scaglia contro la nave e ne squarcia lo scafo. Achab rimane impigliato nella corda di un arpione e finisce in mare. La nave e la lancia affondano. Achab e il resto dell'equipaggio muoiono, tranne un marinaio che è il narratore del romanzo.
Ma vale la pena di riportare un brano direttamente dal romanzo di Melville, che descrive il primo incontro di Achab con Moby Dick e lo stato d'animo esasperato che da allora domina e ossessiona il baleniere:

Con le sue tre lance sfondate intorno e uomini e remi turbinanti nei gorghi, un capitano, afferrando dalla prora spaccata il coltello della lenza, s'era lanciato sulla balena, come un duellista dell'Arkansas sull'avversario, ciecamente tentando con una lama di sei pollici di raggiungere la vitalità, profonda una tesa, del mostro. Quel capitano era Achab. E fu allora che, passandogli sotto di colpo la sua mandibola falcata, Moby Dick gli aveva falciato la gamba, come un mietitore fa di uno stelo d'erba in un campo. Nessun turco dal turbante, nessun prezzolato veneziano o malese avrebbe potuto colpirlo con più apparente malvagità. Poco c'era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell'incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell'intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell'intangibile malvagità che è stata al principio delle cose; al cui impero persino i moderni cristiani ascrivono metà dei mondi; che gli antichi Ofiti dell'Oriente veneravano nel loro demonio scolpito; questa malvagità Achab non cadeva in ginocchio ad adorarla come quelli ma, trasportandone freneticamente l'idea nell'aborrita Balena Bianca, le si lanciava contro, così mutilato com'era. Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male, per l'insensato Achab era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick. Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l'ira e di tutto l'odio provati dall'intera sua razza dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante. (1)

In tutto il romanzo le balene vengono definite “mostri mortali”, “mostri assassini”, “bruti”, “pesci maledetti”. In tutto il romanzo si parla della loro “malvagità” e della loro “ferocia”.
Ecco un altro brano di “Moby Dick”:

Potrei continuare coi molti altri esempi, noti a me in un modo o nell'altro, della grande potenza e malvagità occasionali del capodoglio. In più di un caso esso non solo alle imbarcazioni che lo assalivano ha dato la caccia fino alla nave, ma ha inseguito anche la nave e tenuto testa per un pezzo ai lancioni scagliatigli dai ponti. [...] e quanto alla forza del capodoglio, vi dirò che si sono avuti casi in cui le lenze attaccate all'animale in corsa sono state, in una sosta, passate sulla nave e qui assicurate, e la balena ha rimorchiato il grosso scafo nell'acqua come un cavallo trascina un carro. Ancora, si osserva sovente che se al capodoglio, una volta colpito, si dà il tempo di riprendersi, esso allora agisce contro gli inseguitori non tanto con furia cieca quanto con ostinati e risoluti piani di distruzione; e non è senza eloquente indizio della sua natura che, venendo assalito, esso molto sovente spalanca la bocca e la mantiene in quella spaventevole posizione per vari minuti consecutivi. (2)

In questo brano si dice esplicitamente che le balene vengono assalite, inseguite, colpite. Eppure, lo ripeto, sono definite “mostri mortali”, “mostri assassini”, “bruti”, “pesci maledetti” e si parla della loro “malvagità” e della loro “ferocia”. Ben differente è il giudizio che viene dato dei balenieri. Dice il narratore del romanzo:

Più mi sprofondo in questa faccenda della baleneria e spingo le mie ricerche fino alla fonte prima, più mi colpisce la sua grande onorevolezza e antichità, e specialmente quando trovo tanti grandi semidei ed eroi e profeti d'ogni sorta, che in un modo o nell'altro hanno contribuito a darle distinzione, mi sento esaltare al pensiero che io stesso faccio parte, sebbene soltanto in sott'ordine, di una confraternita tanto illustre. (3)

Insomma Achab vuole uccidere Moby Dick, per l'onorevole scopo di guadagnare dei dollari con la vendita soprattutto dell'olio che si trae dalle balene e che allora veniva utilizzato per l'illuminazione. Moby Dick si difende e nello scontro Achab perde una gamba. Da quel momento, come ha scritto Cesare Pavese nella prefazione al romanzo di Melville, “Moby Dick assomma in sé la quintessenza misteriosa dell'orrore e del male dell'universo”. Il furore vendicativo di Achab esprime molto bene il suo patologico egocentrismo, la sua patologica incapacità di immedesimarsi nella balena. Secondo lui Moby Dick si sarebbe dovuto far uccidere senza reagire. La morte di una balena, magari dopo atroci sofferenze, come viene più volte descritta nel romanzo, è un evento normale, desiderabile, utile. La perdita della gamba di un essere umano, come è accaduto a lui, è una tragedia di dimensioni metafisiche. E poi c'è sempre la solita considerazione fondamentale da fare: sono gli esseri umani che cacciano le balene, non sono le balene che cacciano gli esseri umani.



La sperimentazione psicologica sui macachi

Il secondo esempio che vorrei proporre è tratto dalla ricerca scientifica. Si tratta, a mio parere, di alcuni dei più terribili esperimenti effettuati nel campo della psicologia, con lo scopo di analizzare le conseguenze della separazione del piccolo dalla madre. Questo tipo di ricerca è stato condotto utilizzando come soggetti i macachi.
Comincio subito con una citazione da un articolo di Jensen e Tolman (1962):

Il separare le scimmie madri dai piccoli è un'operazione estremamente faticosa tanto per la madre e il piccolo quanto per gli assistenti, come per tutte le altre scimmie che si trovano entro il campo visivo o uditivo dell'esperimento in corso. La madre diventa feroce verso gli assistenti ed estremamente protettiva verso il proprio piccolo. Le urla del piccolo si possono sentire per tutto l'edificio. La madre lotta e attacca chi vuol effettuare la separazione. Il piccolo si aggrappa strettamente alla madre e a qualsiasi oggetto possa afferrare per evitare di essere preso o portato via dall'assistente. Quando il piccolo è stato portato via, la madre percorre di continuo la gabbia a grandi passi, ogni tanto le dà l'assalto, la morde e fa continui tentativi di fuga; ogni tanto emette anche dei suoni simili a muggiti. Il piccolo emette acute e altissime strida intermittenti per quasi tutto il periodo della separazione.

Le ricerche più importanti in questo campo sono state eseguite da Harlow e dai suoi collaboratori. È opportuno che io precisi che Harlow è considerato pressoché unanimemente uno dei maggiori psicologi americani della seconda metà del novecento. In queste ricerche la piccola scimmia era separata dalla madre poco dopo la nascita ed era quindi tenuta isolata per periodi a volte molto prolungati. Successivamente venivano analizzati i disturbi del comportamento che la piccola scimmia manifestava quando era inserita in un gruppo di suoi conspecifici. In particolare veniva studiato il comportamento materno delle femmine che da piccole erano state separate dalla madre ed erano poi cresciute in isolamento. Scrive Barnett (1970):

Si dimostrarono [...] incapaci, almeno con i primi figli, di comportarsi come madri normali. Esse si dimostravano o indifferenti o ostili nei confronti dei figli. I piccoli compivano sforzi patetici e disperati per avvicinare le loro madri, ma erano spesso percossi o buttati a terra.

Harlow e due suoi collaboratori, 1973, scrivono:

Ben presto scoprimmo che avevamo creato un nuovo animale, la scimmia madre senza madre. Queste scimmie madri che non avevano mai conosciuto alcun tipo di amore erano prive di amore per i loro piccoli [...]. La maggior parte delle scimmie madri senza madre ignorarono i loro piccoli, [...] ma altre madri senza madre maltrattarono i loro piccoli schiacciandogli la faccia sul pavimento, strappando coi denti i piedi e le dita delle mani dei piccoli e in un caso mettendosi in bocca la testa del piccolo e schiacciandola come un guscio d'uovo. Neppure nei nostri sogni più remoti avremmo potuto progettare una madre artificiale tanto cattiva quanto queste scimmie madri vere.

E per finire cito un brano, dal tono umoristico, tratto da un manuale di psicologia di cui Harlow è uno degli autori, 1971:

Uno studio sugli effetti dell'isolamento su venti bambini e venti bambine dalla nascita ai due anni fornirebbe dati interessanti ma bambini estremamente poco interessanti. Alcuni decenni fa uno scienziato bene intenzionato presentò effettivamente al National Institute of Health la proposta di una ricerca di questo tipo che fu, beninteso, respinta con decisione. Lo scienziato senza cuore divenne poi un medico ed ebbe grande successo. Ma non fu mai pediatra. Alcuni esperimenti compiuti in seguito su animali permettono ora di immaginare quali risultati avrebbe ottenuto un esperimento così inumano.

È significativo che, secondo gli autori del manuale, un esperimento del genere dovrebbe essere considerato inumano se fosse eseguito su esseri umani. Ma naturalmente non pensano che siano inumani tutti gli esperimenti di questo tipo che sono stati effettivamente eseguiti sui macachi, che sono animali superiori, con grande capacità di sofferenza psichica. Evidentemente il loro atteggiamento empatico nei riguardi dei macachi è piuttosto limitato. E viene spontaneo pensare agli esperimenti eseguiti dai medici nazisti sugli ebrei e sugli altri detenuti dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Anche in quel caso di empatia ce n'era poca. Decisamente quei medici non riuscivano a immedesimarsi negli ebrei e negli altri detenuti più di quanto gli psicologi di cui ho parlato siano stati capaci di immedesimarsi nei macachi.

Francesco Robustelli
(Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione Consiglio Nazionale delle Ricerche)


Note

  1. Brano tratto da: Herman Melville, Moby Dick o la balena, prefazione e traduzione di C. Pavese, Frassinelli, Milano, 1966. Pag. 225.
  2. Id. Pag. 258.
  3. Id. Pag. 444

Francesco Robustelli (Roma, 1930), libero docente in psicologia, ha scritto centinaia di saggi e alcuni libri. È rappresentante per l'Italia della rete internazionale di diffusione della “Dichiarazione di Siviglia sulla violenza”. Attualmente è impegnato in ricerche sugli atteggiamenti dei bambini e degli adolescenti nei riguardi della convivenza multietnica in Italia; atteggiamenti ostili nei riguardi degli omosessuali; crisi dell'attuale concetto di coscienza alla luce delle esperienze di pre-morte; il rapporto essere umano-animale come rapporto con il diverso. Per ulteriori informazioni sulle sue attività di ricerca e formazione, consultate il sito dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione da lui diretto www.istc.cnr.it oppure scrivetegli direttamente a francesco.robustelli@istc.cnr.it.