rivista anarchica
anno 35 n. 312
novembre 2005


sfruttamento

La nuova schiavitù
di Edoardo Puglielli

Con il passare dei secoli, lo schiavismo non è mai scomparso ma ha trovato sempre nuove realtà su cui far attecchire le sue radici.


Il primo Stato a sopprimere, seppur solo formalmente, la tratta degli schiavi fu il Regno Unito, le cui Camere approvarono nel 1807 l’Abolition of the Slave Trade Act, seguito nel 1883 dallo Slavery Abolition Act. In precedenza, nel 1794, solo la Francia illuminista aveva alzato la voce contro il millenario fenomeno, considerandolo disumano ed anacronistico, seguita poi dalla Danimarca nel 1796, dall'Olanda nel 1814 e dalla Svezia nel 1815. Nel 1815 per la prima volta la schiavitù è condannata in Europa con la Dichiarazione relativa all’abolizione universale della tratta degli schiavi.
Nei primi anni dell’Ottocento il «The Hartford Courant», uno dei più antichi quotidiani statunitensi, pubblicava annunci sulla compravendita degli schiavi, così come venivano pubblicati per qualsiasi altro bene. Alla metà dell’Ottocento la compagnia assicurativa Aetna emetteva ancora polizze sugli schiavi, sebbene l’abolizione del commercio degli stessi negli USA risaliva al 1808.
L’ultimo Stato del continente americano a liberare gli schiavi fu il Brasile, nel 1888.
Nel 1926 la Società delle Nazioni elaborava per la prima volta la definizione giuridica internazionale della schiavitù.
Nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea generale dell'ONU, affermava, nell’articolo 4: “nessuno deve essere tenuto in schiavitù o servitù; la schiavitù e il traffico degli schiavi devono essere proibiti in tutte le loro forme”.
Gli ultimi stati a dichiarare illegale il commercio degli schiavi sono stati nel 1962 l'Arabia Saudita e nel 1981 la Mauritania.

Vecchie e nuove schiavitù

Schiavitù ha sempre significato perdita del libero arbitrio e della libera scelta, con l’aggiunta di violenze esercitate dal padrone o dai membri dell’apparato di potere. Con il passare dei secoli, lo schiavismo non è mai scomparso ma ha trovato sempre nuove realtà su cui far attecchire le sue radici, riuscendo a porre le basi su un fenomeno di una vastità e di una gravità senza precedenti. Nella storia dell’umanità si sono registrati infiniti casi di sfruttamento pieno e totale dell’uomo da parte dell’uomo. Nella Grecia e a Roma gli schiavi potevano essere educatori, artisti e scrittori.
Giuridicamente erano schiavi, ma godevano di un certo rispetto della popolazione a causa delle loro abilità.
Fino all’età Moderna lo schiavismo si fondava sulla proprietà dello schiavo da parte del padrone. Questi deteneva dei contratti di proprietà, che gli conferivano i diritti di vita, alienazione, trasmissione ereditaria e morte sullo schiavo e sulla sua famiglia. Tuttavia, il padrone conosceva dei limiti alla sua brutalità, impostigli non dalle leggi o dalla coscienza ma dal costo dello schiavo.
Questo, infatti, veniva comprato nel corso di aste al rialzo e il suo prezzo era generalmente elevato: lo schiavo rappresentava dunque un investimento. Inoltre, acquistando lo schiavo, il padrone doveva sobbarcarsene il mantenimento ed il rapporto che si veniva a creare tra i due era di lungo periodo.
Lo schiavo passava in proprietà all’erede del padrone, quando questi fosse morto. Il padrone ed i suoi eredi, pur potendolo vendere o regalare, dovevano occuparsi di lui anche in vecchiaia e fino alla sua morte.
Questo voleva dire che, a fronte dell’alto investimento necessario per l’acquisto dello schiavo, il padrone doveva detrarre dai profitti derivanti dal lavoro schiavistico le spese necessarie al controllo, al vitto, all’alloggio, alle cure mediche dello schiavo nei suoi anni migliori; al vitto e all’alloggio in vecchiaia. Oltre tutto, superato il picco di produttività garantito da uno schiavo giovane, il lucro per il padrone tendeva a diminuire, mentre i costi di mantenimento si incrementavano.
Un ultimo aspetto della schiavitù tradizionale era rappresentato dell’elemento etnico. Lo schiavista tradizionale era un razzista che non avrebbe mai obbligato in schiavitù una persona della sua etnia; lo schiavo apparteneva a un’etnia considerata inferiore.
Dopo l’approvazione dello Slavery Abolition Act le cose cambiarono; in peggio per gli schiavi liberati.
Coloro che fino a quel momento avevano prosperato grazie al commercio e allo sfruttamento degli schiavi, e cioè i detentori del capitale e delle terre, capirono molto facilmente che solo chi è libero e può lavorare per guadagnarsi da vivere rappresenta una vera fonte di produzione di ricchezza. E quindi, in definitiva, sarebbe stato più remunerativo per il sistema affrancare gli schiavi, riconoscendo loro il diritto a un lavoro pagato a salario e a un’esistenza libera.
A conti fatti costava molto meno pagare un salario ad un lavoratore libero che comprarlo, garantire a lui e alla sua famiglia vitto, alloggio e indumenti, curarlo in caso di malattia, sostentarlo in vecchiaia e gestire la macchina del terrore necessaria a evitarne la fuga.
Da allora ad oggi la schiavitù si è trasformata e ha svestito le sue sembianze tradizionali. Sono cambiati i soggetti, sono mutate le modalità della riduzione in schiavitù, sono cresciute a dismisura le cifre che ruotano attorno a questo fenomeno, si sono evolute le forme di violenza, di costrizione, di trasporto, di ricatto, di acquisto, sfruttamento e vendita delle vittime. Le modalità relative alla riduzione in schiavitù, alla durata, alla durezza dello sfruttamento degli schiavi nel mondo contemporaneo cambiano a seconda di paese in paese. A livello globale tuttavia si sta assistendo ad una standardizzazione del fenomeno, sempre più caratterizzato dal possesso e dal controllo piuttosto che dalla proprietà diretta della vittime, sfruttate finché sono in grado di garantire adeguati profitti, per poi essere lasciate al proprio destino con la prospettiva, nella migliore delle ipotesi, di vivere i restanti anni della loro vita in condizioni di profonda indigenza, malattia e vergogna.
In Alabama, nel 1850, uno schiavo agricolo costava 1.500 dollari (circa 30.000 dollari in valuta corrente). Oggi un lavoratore equivalente lo si può avere per circa 100 dollari. Le vittime di questa nuova tragedia sono in larga parte donne e bambini appartenenti agli strati più indigenti della popolazione e, a differenza dello schiavismo in auge fino alla seconda metà dell’Ottocento, le componenti etniche, culturali e religiose cedono il posto all’appartenenza di classe e alle domande del mercato.
L’attuale commercio, trasporto illecito e pagamento di esseri umani, con lo scopo di trarre guadagno economico da questi traffici, ci obbliga, per poter configurare il fenomeno, a dover riutilizzare la parola «tratta».
La conseguente perdita del libero arbitrio e della libera scelta, dello sfruttamento pieno e totale con l’aggiunta di violenze fisiche e psicologiche, ci impone, per parlare di queste pratiche, di usare il termine schiavitù e non sfruttamento.

Senza protezione

Ad esempio, molti dei migranti provenienti dai paesi del sud del mondo si impegnano a pagare un somma ai trafficanti che, d’accordo con altri gruppi attivi nel paese di destinazione, attendono l’arrivo della merce umana. Le vittime, per disobbligarsi dai debiti contratti per pagare il viaggio dovranno accettare, a rischio di subire altre violenze, di entrare nel circuito del lavoro nero o della prostituzione. Naturalmente lo sfruttato non salderà il debito finché non sarà lo sfruttatore a deciderlo, il che accadrà solo quando il valore aggiunto garantito dallo schiavo non sarà più tale da giustificarne il possesso e i rischi connessi.
Il lavoratore migrante è privato della protezione e dell’affetto della famiglia, ed è esposto a gravi rischi, di natura non solo psicologica. La criminalità organizzata aspetta al varco persone che non conoscono la lingua e la cultura del paese in cui emigrano e che spesso non hanno un posto in cui stare o denaro con cui potersi garantire la sopravvivenza. Ancor più a rischio sono i migranti irregolari, privi di un visto d’ingresso e di un permesso di soggiorno e, di conseguenza, della protezione legale dei paesi di accoglienza e di provenienza.
Nella maggior parte dei casi i migranti irregolari lasciano le loro case per cercare fortuna altrove senza avere un contatto sicuro o una speranza di lavoro nel luogo di destinazione. Spesso non sono in grado di emigrare autonomamente ma devono affidarsi a gruppi organizzati che forniscono loro assistenza in cambio di denaro. Non di rado, dietro il viaggio si nasconde un inganno, una promessa di lavoro fatta dai reclutatori di professione, individui e gruppi che hanno trasformato il reclutamento ed il trasporto illegale di esseri umani in un gigantesco giro d’affari.
Altre volte i reclutatori non chiedono in cambio soldi in contanti alle vittime, con la prospettiva di essere pagati dai gruppi criminali nel luogo di destinazione dei migranti. In altri casi, infine, i reclutatori intascheranno sia il pagamento per il passaggio da parte del migrante che quanto pattuito da parte dell’acquisto di schiavi all’atto della consegna.
Non è raro che il lavoratore migrante entri in questo circolo dopo aver contratto debiti con il reclutatore. Il debito può essere rappresentato dalla somma pattuita per il viaggio. Oppure può essere peggiore, a causa di precedenti prestiti. Il debito inoltre può passare di mano in mano, da creditore a creditore, lievitando ad ogni passaggio e diventando ben presto impossibile da saldare. Questi debiti strangoleranno sempre di più il lavoratore che, oltre alla somma iniziale, dovrà restituire interessi altissimi..
In questo giro il guadagno del mercante di schiavi è particolarmente remunerativo e i rischi minimi, soprattutto quando la legge non punisce o fa finta di ignorare i traffici di esseri umani nei paesi di partenza e quando le agenzie di controllo nel paese d’arrivo hanno come obbiettivo gli immigranti clandestini e non le organizzazioni criminali. A livello globale il “mercato” di esseri umani destinati al lavoro schiavo coinvolge centinaia di gruppi mafiosi e frutta miliardi di dollari, i quali vengono subito “lavati” da istituti bancari e immessi in circolazione sui mercati finanziari mondiali.
La promessa di un lavoro, di una vita migliore, è dunque la principale esca che gli schiavisti usano per adescare le vittime.
Un’altra via molto praticata è quella del debito.
È facile che famiglie povere si indebitino con usurai implicati nel commercio degli schiavi, i quali, chiedendo la restituzione del proprio credito (di solito aggravato da tassi d’interesse elevatissimi) possono in alternativa decidere di considerare annullato il debito in cambio di una contropartita umana: un bambino da avviare al lavoro nelle fabbriche o nelle piantagioni vita natural durante; una bambina da utilizzare come domestica e da avviare allo sfruttamento sessuale per poi rivenderla ad altri padroni.
La cessione di un figlio da parte della famiglia può avere lo scopo di rendere un debito a un creditore oppure, semplicemente, di guadagnare denaro entrando così direttamente nel giro perverso dello sfruttamento schiavistico.
In altri casi invece vengono offerte alle famiglie somme di denaro come anticipo di guadagni di un ipotetico lavoro che, si dice, si troverà al bambino o alla bambina; sulla base di tale debito inizierà lo sfruttamento.
Bambini costretti a fabbricare oggetti o capi di abbigliamento nelle fabbriche o a tagliare, trasformare e inscatolare frutta, caffè, cocco nelle piantagioni; giovani ragazze costrette a prostituirsi dietro la minaccia di ritorsioni fisiche, costrette a vendersi sette giorni alla settimana per pagare un debito che non potranno azzerare mai, stuprate dagli stessi padroni per cancellare in loro qualsiasi spirito di ribellione e idea di fuga; persone private della propria umanità, trattate alla stregua di un oggetto, comprato o venduto come fosse una cosa di proprietà di un altro essere umano che si è eletto a suo padrone.
Nel mondo sono milioni le persone cadute nelle spirale del lavoro obbligato. I più colpiti sono i bambini perché garantiscono molti vantaggi a chi ne sfrutta il lavoro: sono più permeabili rispetto agli adulti alle minacce di ritorsioni fisiche e alla violenza psicologica, si accontentano di una paga bassa, mangiano meno degli adulti, non sapranno mai rivendicare miglioramenti della loro condizione.
Secondo alcune statistiche un bambino su quattro nei paesi in via di sviluppo lavora anche più di nove ore al giorno per sei giorni la settimana. Si tratta purtroppo di stime ottimistiche che non tengono conto delle piccole schiave domestiche, che lavorano tutto il giorno per sette giorni alla settimana nelle case giapponesi e nordamericane e di milioni di bambini che, nelle piantagioni malesi di caucciù come nelle imprese manifatturiere clandestine italiane, tedesche, pakistane o nepalesi e nelle fabbriche di articoli sportivi indonesiani e cinesi, spesso non sanno neanche che cosa sia un giorno di riposo alla settimana. Pochi, forse nessuno di loro da adulto saprà leggere e scrivere e potrà godere di una salute fisica e mentale stabile.
Sono stati addirittura scoperti villaggi in cui l’intera popolazione è vincolata da un debito ereditario. Forse era tutto iniziato al tempo dei loro nonni o dei loro bisnonni – pochi sono in grado di ricordarlo – fatto sta che ad un certo momento del loro passato le famiglie avevano iniziato a lavorare gratuitamente per rifondere un prestito in denaro. Il debito era passato di generazione in generazione.
Milioni di bambini sono altresì sfruttati sul mercato della prostituzione e della pornografia. Secondo “Human Right Watch” bambini sempre più piccoli subiscono abusi emotivi, vengono stuprati, picchiati, torturati e perfino uccisi. Questi bambini spesso vengono rapiti in tenera età, oppure acquistati dalle famiglie di provenienza o raccolti dalla strada, e sono forzati con violenza e minacce ad entrare nel mercato del sesso.
L’industria sessuale infantile tocca i massimi picchi nel sud est asiatico, in particolare in Thailandia, nelle Filippine, nello Sri Lanka e a Taiwan, e, in maniera più nascosta, va diffondendosi sempre di più in Occidente.
La cosa drammatica è che i governi nazionali spesso tendono a favorire, o a non sanzionare, lo sfruttamento sessuale di bambini, poiché la vendita del corpo dei minori rappresenta un’insostituibile fonte di ingresso di valuta estera pregiata. Povertà e sfruttamento sessuale camminano di pari passo e non conoscono confini geografici: Albania, Brasile, Cambogia, Indonesia, Malesia, Singapore, Ucraina, Romania, Israele, Jugoslavia, Stati Uniti, Messico, Russia e decine di altri paesi sono ormai fiorenti e affermati mercati del sesso illecito, rubato con violenza ed inganno ai bambini.

Le donne e i bambini

Le donne sono, con i bambini, le persone più vulnerabili e soggette alle violenze fisiche e psicologiche di individui più forti di loro o di gruppi criminali locali e transnazionali. Nei casi più estremi, oltre ad essere gravemente esposte al lavoro schiavistico, le donne sono i soggetti maggiormente indifesi rispetto alle piaghe dell’abuso fisico e della schiavitù sessuale. Molte giovani donne, in particolare nei paesi poveri, sono entrate, ancora bambine, nel mondo della prostituzione a causa del circolo perverso nel quale sono state precipitate da genitori o parenti che ne hanno abusato sessualmente in tenera età. In altri casi, sono la povertà e la mancanza di scolarizzazione a spingerle nella rete dei loro aguzzini.
La gran parte delle giovani donne straniere costrette a prostituirsi nei paesi in cui sono emigrate, prima di essere immesse nel “giro” hanno subito un più o meno lungo periodo di assoggettamento allo sfruttatore, che ha utilizzato metodi violenti per vincerne la repulsione. L’unico modo quindi per restare vive e sfuggire alle bastonate e agli stupri è assecondare il padrone.
Le vittime spesso appartengono a gruppi di rifugiati, composti di solito da donne, anziani e bambini, in fuga dalle guerre fratricide del Ruanda, Afghanistan, ex-Jugoslavia, Kosovo, Sierra Leone, Liberia, Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Cecenia, ecc. Questi gruppi diventano le prede preferite dei trafficanti di uomini e sono proprio le giovani donne i bersagli più a rischio, che vengono comprate, ingannate con la speranza di un futuro migliore o addirittura rapite. Di pari passo è andato sviluppandosi un mercato di “servizi”, per facilitare la migrazione irregolare: fornitura di documenti di viaggio contraffatti, trasporto, attraversamento clandestino delle frontiere, sistemazioni temporanee, ecc. ecc., insomma, tutto l’indispensabile per ampliare attività e profitti.
Chiunque cerchi scampo da una situazione di grave disagio sociale può diventare vittima della tratta. Se è facile che gli uomini possano essere oggetto di traffici illeciti di esseri umani con lo scopo di acquisire mano d’opera a bassissimo prezzo, per le donne il destino è finire a fare le serve in case private oppure in strada. Lo stupro da parte dei trafficanti è divenuto una costante, seguito poi da molti altri, che toglieranno ogni resistenza ed il rispetto per sé stessa ad ogni ragazza, facendola diventare ottimo strumento di ricchezza che lo sfruttatore potrà da subito gettare sulla strada.
Il discorso fatto per le donne è attinente anche ai bambini. Sono la povertà, la fame, la mancanza di scolarizzazione, l’assenza di una famiglia che badi a lui o a lei, la violenza, l’arroganza, il turismo sessuale a sfruttare l’esistenza dei bambini, a tradirne l’infanzia.
Non sono mai i bambini a cominciare; c’è sempre qualcuno che lo ha “iniziato”, facendogli capire che quello è l’unico modo che ha per guadagnarsi di che sopravvivere. Quel qualcuno, turista o locale, ha approfittato della fame, della povertà, della giovanissima età, della naturale e ovvia ingenuità di un bambino analfabeta e privo di genitori che sappiano, vogliano e possano badare a lui.
Quel qualcuno, tradendo una volta l’infanzia di un bambino innocente ne ha violato per sempre l’animo e ne ha minato la possibilità di crescere normalmente e di diventare serenamente adulto.
Ma, soprattutto, quell’acquirente di sesso ha innescato un meccanismo perverso che ha gettato per sempre il bambino tra le spire del mostro chiamato sfruttamento sessuale minorile
Nelle stesse società in cui i bambini e le donne vengono ridotti a schiavi del sesso, un’altra triste realtà è quella che queste piccole vittime si trovano a vivere nel mondo del lavoro. Questo accade quando il lavoro minorile si sposa con realtà drammatiche (come la restituzione di un debito contratto dalla famiglia di appartenenza), in un mondo che sa comprare, vendere e regalare armi ma non medicinali, tecnologia, cibo; che pensa a produrre milioni di capi di vestiario a bassissimo costo per aumentare il profitto disinteressandosi delle piccole mani che tagliano, cuciono, modellano le stoffe; in cui è sempre più difficile essere bambini, e al gioco si sostituiscono paura e odio. È da questo mondo che i mercanti di uomini traggono gli oggetti dei loro traffici: piccoli schiavi, baby soldati, domestici, estrattori di caucciù, piccoli minatori in grado di arrivare ovunque nelle viscere della terra. Sono milioni e indifesi. Sono produttori di ricchezze di cui non beneficeranno mai. Soprattutto, sono schiavi.
Nell’Ottocento dunque era la scarsità a rendere gli schiavi preziosi. Oggi, abbattuto il muro della differenza etnica come elemento rilevante nelle riduzione in schiavitù, non ha più importanza che lo schiavo sia “diverso” dal trafficante o dal padrone. L’etnia dei due è spesso la stessa. La differenza la fa la posizione sociale.
Gli effetti della globalizzazione e il nuovo colonialismo spietato e disumano portano con essi lo sradicamento, l’aumento della povertà e la devastazione ambientale, provocando quotidianamente la dilatazione dell’offerta di schiavi sul mercato.
Che senso avrebbe, dunque, acquistare degli schiavi a vita, quando con una spesa molto minore e con meno rischio è possibile, attraverso la morsa del debito, costringere milioni di persone a prostituirsi e lavorare gratuitamente? Questo è il principale elemento che distingue lo “schiavismo tradizionale” da quello contemporaneo. Lo schiavista, oggi, rifugge la proprietà e preferisce il possesso.
Ciò vuol dire che minimizzerà le spese, che potrà rubare gli anni migliori della vita del suo schiavo massimizzando il profitto, e poi potrà gettare via la sua vittima ormai malata e sfruttata, reclutare nuovi essere umani e ripetere lo stesso meccanismo.
Ecco allora il senso dei cosiddetti “schiavi usa e getta”: persone che hanno un bassissimo costo d’acquisto, che rendono agli schiavisti elevati profitti nel corso di rapporti di dipendenza brevi o brevissimi. Questo nuovo schiavismo evita risolutamente la proprietà dello schiavo, si disinteressa delle differenze etniche come dei trattati internazionali e può pescare le sue vittime in un enorme serbatoio di potenziali schiavi, grande come tutto il mondo.
I nuovi schiavi sanno benissimo che la loro schiavitù è illegale. La forza, la violenza e la coercizione psicologica li hanno spinti ad accettarla. Quando gli schiavi iniziano ad accettare il ruolo e a identificarsi con il padrone, non è più necessario un costante vincolo fisso. Arrivano a percepire la propria situazione non come il frutto di un’azione deliberata volta a colpirli individualmente, ma come parte di uno stato di cose normale. La psicologia dello schiavo è altresì riflessa in quella dello schiavista: è un insidiosa mutua dipendenza difficile da rompere per lo schiavista non meno che per lo schiavo.
Nonostante la violenza e le condizioni di vita e di lavoro, le persone in schiavitù hanno una loro integrità mentale e i loro meccanismi per la sopravvivenza. Alcune possono apprezzare davvero certi aspetti della loro vita, magari la sicurezza che viene dal capire esattamente come vanno le cose. Quando si turba questo ordine, improvvisamente tutto diventa confuso. Alcune donne liberate hanno tentato addirittura il suicidio. Sarebbe facile pensare che ciò sia avvenuto per gli abusi attraverso i quali sono passate. Ma per alcune di queste donne la schiavitù aveva costituito il principale punto fermo della loro vita. Quando questo riferimento viene meno, il senso della loro vita diventa come carta straccia.

Cifre in crescita

Per sua stessa natura il fenomeno è già difficile da individuare. Nel dicembre del 2000, l’ONU dichiarava che nel mondo almeno 200 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù; 100 milioni di queste sono bambini.
Dagli anni sessanta ad oggi la sola compravendita di donne e bambini destinate all’asservimento sessuale in Asia è stimata ammontare di circa 30 milioni di individui.
Ogni anno almeno 100.000 donne immigrate negli USA sono costrette a prostituirsi; nel solo Giappone se ne contano 50.000. Stiamo parlando di due dei paesi più ricchi del globo, in cui una donna asiatica viene venduta per 20 dollari. In Germania i protettori di prostitute russe hanno un giro di affari enorme: ogni ragazza, in media, guadagna 7.500 dollari al mese. Di questi, circa 7.000 vengono incassati dagli sfruttatori della ragazza; il resto rimane alla giovane per sopravvivere.
Nessun angolo del mondo è immune dal dramma della schiavitù sessuale; oggigiorno, circa 2 milioni di donne, in tutto il mondo sono oggetto di traffici illegali.
Di queste tra le 200.000 e le 500.000 lavorano illegalmente come prostitute nella sola Unione Europea.
In Italia, nel 1996, si calcolava che ci fossero tra le 19.000 e le 25.000 prostitute straniere, 2.000 delle quali erano state oggetto di traffico di esseri umani.
All’inizio del 2001 le prostitute straniere in Italia erano circa 35.000, 3.500 della quali considerabili schiave.
Nel novembre del 1998 la sezione taiwanese dell’Ecpat (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking) avvertiva che a Taiwan, tra il gennaio e il novembre 1998, erano stati arrestati 762 clienti che avevano avuto rapporti sessuali con bambini e 468 sfruttatori e trafficanti che gestivano fette del mercato nazionale della prostituzione minorile.
Contestualmente la libertà era stata restituita a 1.110 bambini.
Sempre a Taiwan, nello stesso periodo, la polizia aveva sgominato una banda di trafficanti di minori che avevano già venduto oltre 100 bambini cinesi per tramite di una clinica di Taipei. I piccoli venivano collocati in casse dopo essere stati storditi con sonniferi e trasportati di nascosto a Taiwan a bordo di pescherecci. Una volta sull’isola, i piccoli venivano portati alla clinica di Taipei, dove si provvedeva a redigere falsi certificati di nascita. Comprati in Cina per 1.000 dollari statunitensi, i piccoli venivano rivenduti a Taiwan per quasi 9.000 dollari.
L’Italia non è immune dal dramma dello sfruttamento sessuale dei minori. Secondo Telefono Azzurro ogni giorno due minori sono oggetto di violenze sessuali; il Censis segnala un caso di abuso sessuale su ogni 400 bambini, un caso ogni 4 scuole, uno ogni 500 famiglie. Nel 1998 i procedimenti per violenza sui minori sono aumentati del 17%. Circa 8.200 bambini chiamano ogni giorno Telefono Azzurro. Gli operatori riescono a rispondere a circa 1.800 chiamate per un totale di circa 55.000 casi mensili. Di questi circa il 4% riguarda abusi sessuali.
Secondo “Human Right Watch”, il 10% dei 900.000 bambini nepalesi che lavorano nell’industria dei tappeti sono stati sequestrati, un altro 50% (450.000 bambini) è stato invece direttamente venduto dai genitori. Alcuni lavorano nelle fabbriche di giorno e nel mercato del sesso la notte.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il denaro proveniente dalle attività di organizzazioni criminali, tra le quali spiccano il commercio di droga, la vendita di armi e la tratta degli esseri umani e la loro riduzione in schiavitù, si aggira ogni anno intorno ai 600 miliardi di dollari, tra il 2 e il 5 per cento del prodotto interno lordo di tutto il mondo messo insieme. Questo denaro viene “ripulito” attraverso istituti di credito e reimmesso nel circuito internazionale, dove è reinvestito dalla criminalità organizzata in attività lecite.
Il 5 maggio 1998 il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America rende pubblico un dossier realizzato dalla CIA intitolato Global Trafficking in Women and Children (traffico mondiale del donne e bambini). Secondo tali stime a tutto il 1998 erano globalmente 700.000 le persone oggetto del traffico di schiavi del sesso. Di queste, 40 o 45 mila erano destinate al “mercato” statunitense. L’Asia sud-orientale (Cina, Filippine e Thailandia) è la regione che fornisce ogni anno il maggior numero di esseri umani al traffico del sesso, più di 200.000 donne e bambini.
Il 60% di questi finisce nel “giro” delle città della stessa Asia sud-orientale. Il rimanente 40% è trasportato in Nord-America, Medio Oriente, Europa Occidentale, Giappone e Australia; 30.000 finiscono annualmente negli Stati Uniti.
Dai trafficanti dell’ex-Unione Sovietica vengono trasportate circa 100.000 persone l’anno. Nel 1997, 3.000 schiave del sesso sono state trasportate in Nord-America e altrettante in Asia meridionale e in Giappone; 65.000 donne e bambini sono finiti nell’Europa Occidentale; 15.000 in quella orientale; 10.000 in Medio Oriente; 1.000 in Africa, che a sua volta vede partire almeno 60.000 donne e bambine, destinati al mercato del sesso. Dal 1997, in ogni caso, il numero della giovani donne e dei bambini trafficati dalle ex repubbliche dell’Unione Sovietica è ulteriormente cresciuto, e per il 1998 la CIA avvalorava l’ipotesi che le vittime potessero essere diventate 175.000 l’anno.
Dall’Europa orientale invece, nel 1998 sono partite circa 75.000 schiave. Duemila sono finite negli Stati Uniti, 56.000 in Europa Occidentale, 5.000 in Medio Oriente e 1.000 in Asia.
Sempre stando ai dati del 1998, 150.000 donne e bambini sono ogni anno rapiti o comprati in Asia Meridionale e vengono dirottati sui mercati del sesso nordamericani, medio orientali, europei occidentali, giapponesi e del sud est asiatico, mentre 100.000 schiavi centro e latino americani finiscono in nord America, Asia ed Europa Occidentale.
Queste cifre oggi sono in crescita.
Nella migliore delle ipotesi, ciò a cui vanno incontro le vittime del traffico è lo stupro. Così comincia un viaggio che porterà queste persone a essere comprate, sfruttate e vendute più volte prima di essere gettate via come un oggetto inservibile. È sempre più pratica comune, infatti, che le donne e i bambini malati siano venduti a giri di criminalità minori; chi non aveva contratto malattie prima ha la certezza di ammalarsi. In ogni caso, poche di queste donne, probabilmente nessuno di questi bambini, riescono a riscattare la libertà.
Secondo Kevin Bales, sociologo inglese (che ha iniziato a studiare il fenomeno della schiavitù nei primi anni Novanta), il numero degli schiavi è inferiore alla cifra denunciata dall’ONU (più di 200 milioni di individui). Escludendo i casi in cui i soggetti vengono sfruttati 12 ore al giorno, o giorno e notte, ricevono un miserabile salario, e tornano a dormire nelle proprie case, Bales indica che circa 27 milioni di individui in tutto il mondo sono schiavi a tutti gli effetti.
Solo in India se ne stimano tra i 18 e i 22 milioni; nel Pakistan tra i 2.500 e i 3.500 milioni; negli Stati Uniti tra i 100 e i 150 mila; in Giappone tra i 5 e i 10 mila.
In Italia ce ne sono tra i 30 e i 40 mila: il numero più elevato tra i paesi dell’Europa Occidentale.
Seguono: Francia 10.000-20.000; Spagna 10.000-15.000; Germania 5.000-9.000; Belgio 5.000-7.000; Portogallo 5.000-6.000; Regno Unito 4.000-5.000; Paesi Bassi 3.000-5.000; Austria 1.000-2.000; Danimarca 1.000-2.000; Svizzera 1.000-1.500.

Edoardo Puglielli

La documentazione e i dati sull’argomento utilizzati in questa sede sono raccolti in La schiavitù del XXI secolo, autoproduzione a cura dell’Organizzazione Anarco Comunista Napoletana – Federazione Anarchica Italiana, 23 settembre 2003; contiene articoli apparsi in «Le Scienze», n. 405, maggio 2002 ed il saggio di L. Leone, Infanzia negata.