nuove vie 
                  La politica alla fine della politica 
                    di Giorgio Barberis 
                    
                  A fronte di un decadimento sempre 
                    più palese della politica, tradizionalmente intesa, 
                    emerge sempre più la necessità di trovare altre 
                    coordinate esplicative. 
                 
               | 
             
             
               
                    
                  Di fronte alle insostenibili 
                    cronache quotidiane di orrore e violenza di questo tragico 
                    inizio di millennio, ci chiediamo sempre più disorientati 
                    quale sia il senso di ciò che sta accadendo; ogni giorno 
                    violenza, morte, distruzione, ogni giorno nuove vittime innocenti 
                    e un crescente senso di impotenza e di rassegnato sgomento. 
                    Retoriche fasulle e improbabili crociate hanno ormai perduto 
                    ogni residua credibilità. Opposti fondamentalismi, 
                    del tutto incapaci di porre un limite alla loro ferocia, inscenano 
                    un assurdo scontro di civiltà che riduce sempre più 
                    gli spazi del dialogo e dell’incontro tra persone e 
                    culture diverse, mentre disordine e terrore diffusi in ogni 
                    luogo sbugiardano senza posa le rassicurazioni di un potere 
                    sempre più arrogante e sempre più fragile.  
                    Che fare dunque? A me sembra che sia proprio questo l’interrogativo 
                    più rilevante a fondamento dell’attuale riflessione 
                    politica, e che sia del tutto vano eludere la questione volgendo 
                    lo sguardo altrove o riparandosi entro i confini di un’ortodossia 
                    realista secondo la quale, preso atto dell’immutabilità 
                    della natura umana, la risposta non può che essere 
                    la stessa di sempre: impiego (più o meno) legittimo 
                    della forza, esercizio del male a fin di bene, e conseguente 
                    intervento militare per tutelare o ristabilire l’ordine 
                    perturbato (con annesse torture e brutalità varie). 
                    Quanto sia infondata, miope e anche pericolosa questa scelta 
                    lo mostrano con grande chiarezza il caos globale che caratterizza 
                    l’epoca contemporanea e lo scenario di guerra e terrore 
                    da cui nessuno può sentirsi escluso.  
                     
                    Capacità di controllo smarrita  
                  Il paradigma politico della modernità, fondato sul 
                    monopolio statale della forza e sull’uso legittimo della 
                    violenza per garantire e preservare l’ordine sociale, 
                    pare essere entrato in una crisi irreversibile. La politica 
                    ha smarrito la propria capacità di controllo e direzione, 
                    e sembra anzi moltiplicare disordine e incertezza diffusa. 
                    Le scelte irresponsabili di Governi il cui cinismo va di pari 
                    passo a una sconcertante miopia espongono tutti i cittadini 
                    a minacce sempre più grandi e imprevedibili. Ne sono 
                    esempi paradigmatici la brutale repressione in Cecenia voluta 
                    da Vladimir Putin, nuovo Zar di tutte le Russie, impassibile 
                    anche di fronte al rischio (poi tragicamente concretizzatosi) 
                    di sacrificare centinaia di vite innocenti alla ragion di 
                    Stato (1), o l’avventura irachena 
                    voluta dal governo repubblicano degli Stati Uniti e ritenuta 
                    illegittima da una parte nettamente maggioritaria dell’opinione 
                    pubblica mondiale, fondata su premesse palesemente pretestuose 
                    e destinata nei fatti ad un’amara conclusione che sacrifica 
                    a un interesse economico, peraltro incerto, la vita di migliaia 
                    di innocenti, la speranza di un incontro fraterno tra culture 
                    millenarie e la sicurezza di tutti, in nome della quale, sommo 
                    paradosso, quell’avventura è stata intrapresa. 
                     
                    Di fronte ad uno scenario tanto cupo il disorientamento e 
                    la sfiducia rischiano di prevalere, ma sempre più si 
                    sta diffondendo anche la consapevolezza che occorre reagire, 
                    fare qualcosa, mobilitarsi prima che sia troppo tardi e che 
                    la crisi diventi di fatto irreversibile.  
                    Da un lato, dunque, occorre resistere alle derive autoritarie 
                    e all’esasperazione ignorante e colpevole della logica 
                    amico-nemico, alle tentazioni omologanti e alla criminalizzazione 
                    del dissenso; agire nel proprio spazio quotidiano secondo 
                    logiche e pratiche antagoniste, solidali, connettive. In particolare, 
                    è necessario rompere gli schemi ereditati dal passato 
                    e assumere come presupposto di un agire consapevole una radicale 
                    opzione non violenta; la speranza da concretizzare è 
                    quella di un nuovo modello di vita pubblica, fondato su una 
                    rigorosa critica della potenza e su una rinuncia consapevole 
                    al mito della forza.  
                    La violenza, a qualunque livello, non può che riprodurre 
                    se stessa; opporsi a essa significa dunque rifiutarla in ogni 
                    sua forma.  
                    Dall’altro lato, però, è necessario anche 
                    riflettere, continuare a interrogarsi e moltiplicare le occasioni 
                    di confronto per comprendere compiutamente le dinamiche in 
                    atto e individuare nuovi percorsi che possano condurre ad 
                    un altrove di cui sempre più si avverte il bisogno. 
                     
                    Volendo dare un contributo a questa riflessione, mi propongo 
                    anzitutto di riflettere su alcune parole-chiave particolarmente 
                    utili per descrivere la contemporaneità, consapevole 
                    che il valore euristico di ogni categoria concettuale è 
                    sempre limitato e che una scelta soggettiva di questo genere 
                    è comunque discutibile, ma fiducioso anche nell’opportunità 
                    di moltiplicare quanto più possibile i contributi interpretativi 
                    di un’epoca estremamente complessa e molto difficile 
                    da definire e comprendere in modo esaustivo.  
                    
                     
                    Complessa ridefinizione 
                     
                  La prima parola che mi sembra avere una valenza descrittiva 
                    particolarmente ampia è «crisi», 
                    che coinvolge molteplici ambiti della società contemporanea, 
                    e che per certi aspetti prefigura una vera e propria fine, 
                    un salto di paradigma determinato dall’esaurimento di 
                    modelli per lungo tempo recepiti e condivisi acriticamente: 
                    lo spazio politico, il mondo del lavoro e della produzione 
                    industriale, la vita sociale e familiare, il sistema educativo 
                    e formativo stanno attraversando in questi anni una fase di 
                    complessa ridefinizione, che apre questioni di portata epocale 
                    e che soprattutto scompagina le tradizionali coordinate interpretative. 
                     
                    Un ambito in cui la crisi si mostra in tutta la sua evidenza 
                    è, come detto, quello della politica, che da un lato 
                    ha subito un processo di progressivo ridimensionamento di 
                    fronte al prevalere dell’ambito economico e finanziario 
                    (con la conseguente limitazione dell’effettiva sovranità 
                    statale), e dall’altro lato ha perso gran parte della 
                    propria legittimità, come attestano la vasta disaffezione 
                    nei confronti dei partiti e delle istituzioni, il crescente 
                    astensionismo elettorale (2) e la 
                    mediocrità della leadership politica globale, 
                    scarsamente innovativa e sostanzialmente incapace di dare 
                    risposte plausibili alle grandi sfide poste dalla società 
                    contemporanea e da un accelerato processo di globalizzazione, 
                    che ha liquidato di fatto il tradizionale ordine territoriale 
                    dello spazio politico (3).  
                    Ma vi sono forse ragioni ancor più profonde di questa 
                    crisi. Nel suo saggio dedicato alla politica perduta 
                    (4), Marco Revelli giunge a teorizzare 
                    esplicitamente la fine del paradigma politico della modernità 
                    e del nesso tra ordine e potere che ne è a fondamento. 
                    Nella sua convincente analisi, egli prende le mosse dalla 
                    descrizione di un’altra svolta epocale, soffermandosi 
                    opportunamente sulla radicale differenza tra antichi e moderni 
                    riguardo alla concezione del male e alla conseguente definizione 
                    dell’ambito del politico.  
                    Nel Libro di Giobbe, giustamente indicato come «il 
                    vero e proprio trattato originario sulla questione del male», 
                    il dolore dell’innocente, la sofferenza del giusto, 
                    non hanno alcuna giustificazione razionale, non hanno una 
                    misura e non sembrano avere alcun senso; il male è 
                    e rimane un mistero, che ha la sua sublimazione nella 
                    giustizia dell’ordine divino. La modernità, 
                    invece, non accetta il mistero, vuole calcolare le ragioni 
                    del male e giunge ad affermare che da esso, dal suo uso strumentale, 
                    può anzi derivare il bene.  
                    Parallelamente si è affermata la convinzione secondo 
                    cui l’ordine politico è una costruzione integralmente 
                    umana, e la distinzione fondamentale tra ciò che è 
                    giusto e ciò che è ingiusto non può essere 
                    dedotta da un ordine naturale ontologicamente fondato, ma 
                    solo prodotta da un potere artificiale essenzialmente 
                    umano. La teoria hobbesiana della sovranità, come noto, 
                    ha tra i suoi presupposti proprio l’uso razionale e 
                    salvifico del male (inteso quindi come strumento imprescindibile) 
                    per ottenere il bene auspicato (il risultato ottimale della 
                    convivenza pacifica e dell’ordine sociale), e l’idea 
                    secondo cui il Potere viene sempre prima della giustizia, 
                    che in esso trova il suo unico fondamento (5). 
                     
                    La svolta non potrebbe essere più radicale: la politica 
                    da arte del bene comune diviene, in maniera più o meno 
                    esplicita, tecnica di comando, giustificata dall’affermazione 
                    del nesso virtuoso tra il Potere e l’Ordine, che in 
                    effetti è storicamente verificabile, ma che oggi sembra 
                    aver esaurito la sua validità.  
                    L’uso (e a maggior ragione l’abuso) della forza 
                    non è più in grado di governare uno spazio globale 
                    ormai “fuori controllo”, unificato ma per nulla 
                    armonico, tecnicizzato ma non certo neutrale. Il 
                    modello securitario di matrice hobbesiana è travolto 
                    dalla globalizzazione del rischio e dall’avvento di 
                    un mondo unidimensionale e caotico al tempo stesso, sempre 
                    meno capace di dare risposte plausibili alle contraddizioni 
                    esasperate dal processo di mondializzazione in atto.  
                    
                     
                    Un nuovo paradigma 
                    produttivo  
                  La crisi, tuttavia, o se si preferisce il radicale 
                    processo di trasformazione che stiamo vivendo, non chiama 
                    in causa soltanto le forme tradizionali dell’agire politico, 
                    ma coinvolge, come detto, molti altri ambiti della vita sociale, 
                    a partire anzitutto dal mondo del lavoro, con la frantumazione 
                    dei suoi soggetti, la fine delle sue garanzie e l’aumento 
                    delle sue servitù. Il modello industriale novecentesco, 
                    fordista e taylorista, è stato sostanzialmente superato, 
                    e ha lasciato spazio a un nuovo paradigma produttivo.  
                    La profonda ristrutturazione ormai conclusa, basata essenzialmente 
                    sull’uso dell’informatica e dell’elettronica 
                    e sulla rivoluzione delle telecomunicazioni e dei trasporti, 
                    ha determinato l’esternalizzazione di una serie sempre 
                    più ampia di lavorazioni in precedenza fortemente integrate 
                    all’interno delle fabbriche e ha ridotto progressivamente 
                    il peso dell’occupazione nelle grandi unità produttive. 
                     
                    Con l’intensificarsi dei processi di automazione e con 
                    il netto prevalere dell’economia finanziaria sull’economia 
                    reale il mercato del lavoro si è vieppiù 
                    fluidificato, e alla molecolarità del postfordismo 
                    si sono accompagnate una crescente precarizzazione e la richiesta 
                    di una sempre maggiore flessibilità. La trasformazione 
                    del sistema produttivo e il conseguente massiccio esodo dalle 
                    fabbriche hanno aperto un ampio e vivace dibattito sulla fine 
                    del lavoro, di cui non posso dar conto in queste poche 
                    pagine. Quel che però mi preme sottolineare è 
                    come sia possibile dare valutazioni profondamente antitetiche 
                    dell’idea di una fine del lavoro tradizionalmente inteso. 
                    Alla semplice constatazione dei fatti, si possono affiancare 
                    tanto il rimpianto del mondo passato, quanto il timore e le 
                    inquietudini per gli scenari futuri, in cui la disoccupazione, 
                    secondo l’imperativo del crescere dimagrendo 
                    imposto dal nuovo paradigma produttivo, sembra avere un ruolo 
                    determinante.  
                    Ma si possono anche rilevare le potenzialità che il 
                    processo di trasformazione porta con sé, e cercare 
                    di individuare un modo plausibile per realizzarle concretamente. 
                    Una società del non-lavoro può portare al parossismo 
                    l’insostenibile disuguaglianza del mondo contemporaneo, 
                    un mondo, per usare le categorie di Zygmunt Bauman, con sempre 
                    meno parvenus e sempre più paria 
                    (6), o può invece riaprire, 
                    grazie all’adozione di logiche cooperative opposte alla 
                    massimizzazione del profitto, nuovi spazi per una società 
                    più giusta e solidale, finalmente liberata dal bisogno, 
                    dalla scarsità e dal conflitto (7). 
                     
                    Perché rimpiangere la fine del lavoro manuale, parcellizzato, 
                    ripetitivo? Perché confinare al solo ambito del lavoro 
                    salariato la costruzione di una soggettività rivoluzionaria, 
                    capace di superare le contraddizioni del capitalismo? Perché 
                    non pensare a forme alternative di coesistenza sociale e di 
                    sviluppo economico, che sostengano anzitutto la possibilità 
                    e l’opportunità di liberarsi non attraverso 
                    il lavoro (secondo l’ortodossia di un marxismo ormai 
                    piegato dalle dure repliche della storia), ma dal 
                    lavoro stesso (inteso ovviamente come lavoro salariato ed 
                    alienato) e dalle sue servitù? (8) 
                    Audre Geraldine Lorde, poetessa di grande valore ed esponente 
                    di spicco del femminismo afroamericano, ricordava: «Non 
                    possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi 
                    del padrone» (9).  
                    A me sembra evidente che l’emancipazione umana non possa 
                    scaturire, per una sorta di provvidenziale eterogenesi dei 
                    fini, dalle contraddizioni sempre più esasperate del 
                    lavoro alienato, né che si possa vincere la corruzione 
                    del potere ricercando ed esercitando un potere “diverso”; 
                    una soluzione, invece, potrebbe essere quella di porsi al 
                    di fuori delle logiche distorte che si vogliono contrastare, 
                    di dire unilateralmente basta e ricercare nuove vie, nuovi 
                    linguaggi, nuove pratiche lontane dalle contraddizioni di 
                    un sistema sociale che si tende sempre più a considerare 
                    naturale ed eterno, e che invece dovrebbe essere sottoposto, 
                    in ragione di tutte quelle negatività qui richiamate, 
                    ad una critica radicale (10).  
                    
                     
                    Ricerca ossessiva 
                    e insostenibile  
                  Del resto, pensare a un diverso modello di sviluppo non è 
                    soltanto una scelta etica, ma forse ancor prima una necessità 
                    ecologica. La ricerca ossessiva di una continua crescita 
                    (dei profitti, della produzione, dell’applicazione tecnologica) 
                    appare sempre più insostenibile, in primo luogo per 
                    le emergenze ambientali a essa direttamente connesse, e in 
                    secondo luogo per le profonde iniquità che necessariamente 
                    ne conseguono: il prezzo dello smodato consumo energetico 
                    delle società occidentali è del tutto incompatibile 
                    con un’equa distribuzione delle risorse, ed evidentemente 
                    non è soltanto un luogo comune prefigurare scenari 
                    apocalittici a fronte di un accelerato sviluppo di realtà 
                    geopolitiche finora marginali (11). 
                     
                    Occorrerebbe forse ridiscutere profondamente quell’iperideologia 
                    del progresso che pone una cieca fiducia nelle capacità 
                    intrinseche alla tecnica di superare le proprie contraddizioni, 
                    e che suole misurare il benessere collettivo di una nazione 
                    soltanto in base alla crescita del Prodotto Interno Lordo, 
                    incurante delle disparità nell’accesso alle risorse 
                    tra i diversi Stati e dell’abissale differenza di reddito 
                    e di opportunità all’interno di ogni singolo 
                    Stato.  
                    In effetti, il rischio concreto di un possibile esaurimento 
                    delle risorse si accompagna a una crescente ineguaglianza 
                    ad ogni livello, e il riconoscimento (formale) dei diritti 
                    di tutti sconfina spesso nell’indifferenza per il destino 
                    di centinaia di milioni di uomini e donne, vinti dalla miseria, 
                    deprivati della loro identità e dignità e costretti 
                    a vivere in situazioni di intollerabile degrado.  
                    Nel contempo, le società del benessere diffuso sono 
                    giunte ad uno stadio avanzato di disgregazione: il legame 
                    sociale si allenta e si estingue, e prende forma una massa 
                    di individui isolati, uno sciame, per citare nuovamente 
                    Zygmunt Bauman, in cui ogni singola unità fa la stessa 
                    cosa, ma nulla viene fatto in comune (12). 
                     
                    Nella modernità liquida, caratterizzata da 
                    un incessante movimento e dall’assenza di riferimenti 
                    stabili, l’amore per il prossimo e la fiducia reciproca 
                    sembrano non avere più spazio, rimpiazzati da un’endemica 
                    incertezza, dalla fragilità dei legami e dalla perpetua 
                    volubilità delle regole (13): 
                    «Un’inedita fluidità, un’intrinseca 
                    transitorietà (la famosa “flessibilità”) 
                    caratterizza tutti i tipi di legame sociale che solo fino 
                    a poche decine di anni fa si coagulavano in una duratura, 
                    affidabile cornice entro la quale era possibile tessere con 
                    sicurezza una rete di interazioni umane». Questo vale 
                    sia per i rapporti di tipo lavorativo e professionale, sia 
                    per le relazioni affettive. La «compulsione a sperimentare» 
                    ogni cosa si accompagna alla crescente fragilità delle 
                    interazioni umane, e la velocità con cui si vivono 
                    esperienze e si intrecciano (e si sciolgono) rapporti coesiste 
                    con una fastidiosa incertezza e una confusione opprimente, 
                    alla base di un diffuso senso di impotenza e di spaesamento. 
                   
                    
                    Identità individuali 
                    e collettive  
                  La crisi delle forme tradizionali del lavoro, della famiglia, 
                    del legame comunitario apre poi la questione sempre più 
                    problematica della definizione o ridefinizione delle identità 
                    individuali e collettive. Di fronte alla complessità 
                    globale si contrappongono le tendenze antitetiche ad una crescente 
                    omologazione culturale e ad una condivisione forzata (e per 
                    certi aspetti ridicola) di stili di vita e di consumo, da 
                    un lato, e a un improbabile radicamento al luogo, 
                    a un’identità locale spesso costruita su misura 
                    (basti pensare al rozzo folklore delle camicie verdi padane), 
                    il più delle volte con atteggiamenti di chiusura e 
                    di diffidenza per tutto ciò che è altro, 
                    diverso, nuovo (14).  
                    E il fatto che la crisi coinvolga anche i sistemi formativi, 
                    sempre più orientati a fornire strumenti concreti per 
                    un migliore inserimento nel mondo del lavoro, e a trascurare 
                    inevitabilmente l’importanza decisiva di una solida 
                    cultura generale, contribuisce di sicuro ad aumentare il senso 
                    di incertezza di fronte a quella crescente complessità 
                    del mondo globalizzato richiamata in precedenza.  
                    La specializzazione tecnica (peraltro spesso approssimativa 
                    e incompleta) non può prescindere dallo sviluppo di 
                    un pensiero autonomo e di uno spirito critico, necessari sia 
                    per adattarsi progressivamente al cambiamento (in caso contrario, 
                    la competenza specifica è destinata a diventare rapidamente 
                    obsoleta), sia per continuare a mettere in discussione le 
                    contraddizioni e le iniquità del presente.  
                    Su questo aspetto fondamentale, tuttavia, ci si imbatte in 
                    un ulteriore, decisivo elemento di crisi, ossia nel sostanziale 
                    esaurimento di una credibile alternativa sociale e politica. 
                    Le filosofie della storia e i grandi progetti di trasformazione 
                    sociale sembrano essersi arresi alla boria del liberalcapitalismo 
                    e alle derive nichiliste che travolgono ogni ricerca di senso; 
                    il fatto che vi sia una Ragione a governare il mondo secondo 
                    un ordine provvidenziale orientato a un telos, a 
                    una fine necessaria e appagante, ormai sono davvero 
                    in pochi a crederlo.  
                    Con la caduta del comunismo storico, e prima ancora con il 
                    palesarsi dei limiti intrinseci al suo funzionamento, la critica 
                    del sistema capitalista ha perso il riferimento a un modello 
                    sociale capace di rappresentare un’alternativa concreta 
                    (15). Contestualmente, la fiducia 
                    nel corso progressivo della sto ria è stata profondamente 
                    messa in discussione, come anche l’idea stessa di futuro. 
                     
                    Le retoriche della post-histoire descrivono un eterno 
                    presente di consumatori felici in un mondo libero 
                    e democratico, dimenticando le oscene disuguaglianze e le 
                    contraddizioni intrinseche alle stesse liberaldemocrazie occidentali 
                    (16).  
                    Il postmoderno nega ogni senso al processo storico, «additato 
                    ormai o come un turbinio caotico di fatti sconnessi, un pulviscolo 
                    che offusca lo sguardo, o come un romanzo, la cui trama può 
                    essere scritta a piacere», e sentenzia «la fine 
                    delle illusioni emancipatorie e della spinta propulsiva della 
                    modernità» (17).  
                    Anche in questo caso, evidentemente, la perdita di certezze 
                    e di punti di riferimento capaci di dare un senso profondo 
                    alla quotidianità e una direzione sicura all’agire, 
                    contribuisce in modo significativo ad aumentare un disorientamento 
                    diffuso.  
                    Tutti gli ambiti su cui ci siamo rapidamente soffermati, dunque, 
                    sono attraversati da questioni di portata epocale, delle quali 
                    questi nostri pochi cenni non possono certamente rendere ragione 
                    in modo esaustivo, ma che dovranno necessariamente essere 
                    al centro della riflessione filosofica e politica dei prossimi 
                    anni, e che comunque tracciano nel loro insieme un quadro 
                    complessivo pienamente interpretabile a partire dalla categoria 
                    concettuale della crisi o, se si preferisce, dalla 
                    constatazione della fine di un’epoca, in cui 
                    l’estrema fragilità ontologica dell’umanità, 
                    mostratasi in tutta la sua evidenza, lascia già intravedere 
                    le premesse del suo superamento.  
                    
                     
                    Molteplici 
                    contraddizioni  
                  Una seconda parola-chiave che mi sembra descrivere bene la 
                    realtà che stiamo vivendo, e che a quella fragilità 
                    appena chiamata in causa si connette direttamente, è 
                    «contraddizione». L’epoca contemporanea, 
                    infatti, portando con sé tutte le ambivalenze del Novecento, 
                    il secolo del riconoscimento dei diritti umani ma anche del 
                    dilagare dei regimi totalitari, dell’opulenza e del 
                    benessere diffuso ma anche della crescente disuguaglianza 
                    e della fame nel mondo, è percorsa da molteplici contraddizioni, 
                    sempre più preoccupanti e sempre meno risolvibili (18). 
                     
                    Quelle ambivalenze non sono affatto superate: le istituzioni 
                    democratiche e i partiti politici attraversano una profonda 
                    crisi di partecipazione e legittimità, in particolare 
                    se si pensa al contesto geopolitico globale; di fronte all’offensiva 
                    delle multinazionali e di arroganti tecnocrazie non elettive 
                    l’universalismo dei diritti è sempre più 
                    indifeso e il principio della sovranità popolare sempre 
                    più fragile; il fondamentalismo si è imposto 
                    in maniera prepotente, e politica e religione sono 
                    sempre più spesso fuse in maniera impropria e pericolosa; 
                    la disuguaglianza planetaria nella distribuzione e nell’accesso 
                    alle risorse raggiunge livelli spaventosi e sembra non avere 
                    alcun argine, ed è ormai accettata come «normatività 
                    naturale», come un dato di fatto sostanzialmente immodificabile. 
                     
                    Lo sviluppo tecnologico porta ancora con sé la minaccia 
                    almeno potenziale rappresentata dalla distruttività 
                    delle sue applicazioni. L’uso della forza e le retoriche 
                    della sicurezza e dell’ordine globale, in una sorta 
                    di perversa eterogenesi dei fini, moltiplicano la violenza 
                    e riproducono su scala globale caos e disordine, mentre a 
                    ogni affermazione della saldezza del Potere corrisponde un 
                    atto di rivolta più o meno distruttivo.  
                    Lo spazio globale unificato risultante dal compimento del 
                    processo di mondializzazione porta con sé altre evidenti 
                    contraddizioni: la libertà di movimento di merci e 
                    capitali, sostanzialmente illimitata, si accompagna a una 
                    restrizione sempre più forte della libertà di 
                    movimento delle persone; un sistema redistributivo delle risorse 
                    iniquo e irrazionale, che lascia spazio ad abissali divari 
                    di reddito e di opportunità, è vissuto come 
                    una condizione naturale, oggettiva, immodificabile (19); 
                    il mondo è unidimensionale e caotico al tempo stesso, 
                    per molti aspetti unitario ma per altri del tutto fuori 
                    controllo. L’insieme di queste ambivalenze rafforza 
                    la consapevolezza che la strada intrapresa porta a un vicolo 
                    cieco, e che il modello neoliberista perseguito con tenace 
                    ostinazione dall’élite economica planetaria, 
                    con l’avvallo più o meno rassegnato di una politica 
                    fortemente marginalizzata, non è in grado di dare risposte 
                    eque e praticabili per un nuovo modello di sviluppo più 
                    giusto e più sostenibile.  
                    
                     
                    Cercare 
                    vie nuove  
                  Spesso la retorica pubblica afferma che lo stato di cose 
                    attuale, con tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie, è 
                    l’unico possibile, e che ogni approccio controfattuale 
                    è di per sé utopico (20); 
                    ed è proprio qui che emerge in tutta la sua evidenza 
                    l’alternativa radicale tra il concetto di «necessità» 
                    e quello di «possibilità», che 
                    propongo come terza ed ultima parola-chiave, strettamente 
                    correlata alle precedenti ma ancor più decisiva per 
                    descrivere nella sua compiutezza l’epoca contemporanea. 
                     
                    A me sembra che la mera constatazione del perdurare indefinito 
                    di una situazione così carica di negatività 
                    non significhi affatto che essa sia immodificabile, necessaria, 
                    e che ogni impulso rivoluzionario non possa che introdurre 
                    ulteriori peggioramenti.  
                    Penso al contrario che, proprio mentre la politica va in frantumi 
                    e la pura forza non fa altro che alimentare e riprodurre se 
                    stessa, occorra rompere gli schemi tradizionali e cercare 
                    vie nuove con coraggio e passione, destinando risorse e intelligenze 
                    a pensare un altro mondo possibile (21), 
                    finalmente liberato da ogni forma di coercizione e violenza 
                    e in grado di consentire, coerentemente con l’idea marxiana 
                    di un regno post-storico della libertà, il pieno dispiegarsi 
                    di tutte le facoltà umane.  
                    Nella Critica al programma di Gotha, Marx afferma 
                    che la società della compiuta emancipazione avrà 
                    scritto sulle proprie bandiere: «Da ciascuno secondo 
                    le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni»; 
                    e questa, nella sua brevità, è sicuramente una 
                    delle rappresentazioni più efficaci di un modello di 
                    società giusta e solidale, che riconosce e valorizza 
                    il contributo di tutti, contrapponendo l’idea di una 
                    cooperazione armoniosa e pacifica alla logica economicista 
                    della massimizzazione del profitto e alla logica politica 
                    della lotta per l’egemonia e del governo dell’uomo 
                    sull’uomo.  
                    Si delinea qui l’utopia concreta di un comunismo libertario, 
                    capace di coniugare il pieno riconoscimento dell’individualità 
                    e della singolarità con il bisogno di interconnessione 
                    e di ricostruzione di un saldo legame sociale (senza alcuna 
                    delimitazione spazio-temporale) (22), 
                    e secondo il quale il fine del processo storico (forse anche 
                    la sua fine) non può che essere realizzato da un modello 
                    sociale in cui ciascuno sia finalmente libero di fare ciò 
                    che vuole in qualunque momento.  
                    Una società non anomica, ma autenticamente anarchica, 
                    che annulla lo spazio di un agire arbitrario ed egoistico, 
                    ma che allo stesso tempo rifiuta radicalmente ogni forma di 
                    potere, in quanto espressione di coercizione e delimitazione 
                    impropria delle potenzialità di ciascuno, e che vincendo 
                    finalmente pregiudizi barbari e privilegi iniqui, rimuove 
                    le preoccupazioni contingenti (23) 
                    e consente di dedicare tempo e risorse alla ricerca di risposte 
                    adeguate alle domande di senso, che connotano la condizione 
                    umana nella sua forma più compiuta.  
                    Certo, questa può sembrare un’idea del tutto 
                    fuori luogo, radicalmente inattuale e utopica, ma ad una valutazione 
                    più approfondita e scevra da chiusure pregiudiziali, 
                    essa potrebbe anche prefigurare l’unico modo possibile 
                    e auspicabile per ridare un futuro e una speranza a un mondo 
                    senza cuore di nuda vita che riproduce semplicemente se stessa, 
                    soggiogata al dominio di un sistema economico che si autorappresenta 
                    come assoluto ed eterno e di un sistema politico sempre più 
                    fragile, instabile e delegittimato.  
                    La convinzione di fondo è che la crisi in atto in tutti 
                    i diversi ambiti sopra richiamati prepari un vero e proprio 
                    salto di paradigma, una chiusura ingloriosa della modernità 
                    e l’apertura di una fase politico-sociale ancora tutta 
                    da costruire e da comprendere.  
                    In tal senso, queste poche pagine devono intendersi come una 
                    prima traccia per un successivo approfondimento dedicato specificamente 
                    alla ricerca di una via di uscita plausibile, capace di andare 
                    oltre agli orrori smisurati del secolo scorso e dell’inizio 
                    del nuovo millennio.  
                    Anzitutto, dopo aver preso atto della perdita dell’efficacia 
                    e del significato stesso della politica tradizionalmente intesa, 
                    occorre da subito porsi il problema di ricostruire, di impegnarsi 
                    nella ricerca di una politica del futuro, caratterizzata principalmente 
                    dal necessario ridimensionamento dell’enfasi sui mezzi 
                    di potenza e sui rapporti di potere, o meglio, per citare 
                    ancora le parole di Revelli, da una «critica esplicita 
                    alla categoria stessa della Potenza (fonte dei mali più 
                    che strumento delle soluzioni), a favore invece di logiche 
                    “altre”: cooperative, connettive, relazionali» 
                    (24).  
                    L’eccesso di male e le troppe teodicee spezzate del 
                    Novecento hanno mutato radicalmente la prospettiva: oggi la 
                    questione centrale non è più quella di governare 
                    su qualcuno, di far riconoscere un’autorità, 
                    di esercitare un potere, quanto piuttosto quella di istituire 
                    relazioni, condividere esperienze e responsabilità, 
                    ricercare e praticare nuove vie, rispettose dell’individualità 
                    di ciascuno ma al tempo stesso reticolari, compartecipate 
                    e solidali.  
                    Si pensi ad esempio alla subpolitics teorizzata da Ulrich 
                    Beck (25), l’idea di una forma 
                    politica della seconda modernità, orientata alla costruzione 
                    dal basso di una cittadinanza globale, fondata sulle categorie 
                    della relazionalità e dell’orizzontalità, 
                    e su logiche autorganizzative e libertarie, di cui si inizia 
                    a cogliere l’incidenza attraverso una crescente consapevolezza 
                    e una significativa mobilitazione, largamente pacifista, contro 
                    le ingiustizie globali e contro l’arroganza bellicista 
                    sostenuta dalle retoriche del terrore.  
                    
                     
                    Nuova 
                    soggettività polifonica  
                  La sfida consiste nel riuscire a costruire una nuova soggettività 
                    polifonica, in grado di «coniugare le diversità 
                    – anziché aggregare le omogeneità (ideologiche, 
                    sociali, culturali) come avveniva nella old politics 
                    –, connettendo interessi materiali, sensibilità 
                    culturali, identità politiche diverse» (26), 
                    e di passare finalmente, per richiamare la mirabile «antropologia 
                    prescrittiva» di padre Ernesto Balducci, dal mondo delle 
                    tribù, cioè dalla logica ristretta dell’appartenenza 
                    esclusiva e del potenziale antagonismo con qualunque forma 
                    di diversità, alla città planetaria, 
                    totalmente immune da ogni volontà di potenza e nella 
                    quale ciascuno ha imparato a guardare se stesso con gli occhi 
                    dell’Altro, a educarsi alla reciprocità e a rifiutare 
                    guerre e violenza, senza se e senza ma (27). 
                     
                    Si tratta evidentemente di un passaggio complicato, incerto, 
                    che la politica tradizionale, «nella chiusura gelosa 
                    entro i propri confini e nella sua feroce autoreferenzialità», 
                    non può accettare né comprendere. Le potenzialità 
                    di questo salto antropologico sono del tutto imprevedibili; 
                    ma occorre anche domandarsi se esista una qualche alternativa 
                    plausibile.  
                    In che modo, verificata compiutamente la radicale distruttività 
                    dei suoi mezzi tradizionali, la politica può sopravvivere 
                    a se stessa, se non recuperando il suo significato originario 
                    di arte dell’interconnessione e della relazione e rinunciando 
                    alla logica verticale della potenza? Non si tratta di un semplice 
                    ideale regolativo: «Decine, forse centinaia di migliaia 
                    di donne e di uomini sono al lavoro, negli interstizi del 
                    disordine globale, per riannodare i nodi, ricucire le lacerazioni, 
                    elaborare il male» (28).  
                    A costoro, a chi rifiuta di rinchiudersi entro confini e barriere, 
                    a chi non crede più nell’onnipotenza della tecnica 
                    e ha deciso di opporsi in qualche modo allo spettacolo osceno 
                    dell’ingiustizia globale, a quanti levano quotidianamente 
                    il loro grido di angoscia e si adoperano per cambiare 
                    il mondo senza prendere il potere, per richiamare il 
                    titolo del bellissimo volume di John Holloway (29), 
                    a tutti costoro è affidata la speranza di costruire 
                    un mondo diverso, che sia al contempo più libero, più 
                    giusto, più vero.  
                    In questa fase storica, di fronte alle radicali trasformazioni 
                    in atto, non basta più limitarsi a guardare ciò 
                    che esiste; occorre anche dedicare tempo e risorse a immaginare 
                    ciò che potrebbe esistere. Il pensiero di un altro 
                    mondo possibile sembra ormai essere l’unica vera 
                    possibilità.  
                    
                    Giorgio Barberis 
                  
                    
                      Alessandriacolori 
                           
                        Le 
                          riflessioni proposte da Barberis sono state discusse 
                          e condivise in un primo momento all’interno del 
                          Collettivo Alessandriacolori, di cui l’autore 
                          è stato uno dei promotori alla fine degli Anni 
                          Novanta.  
                          Nato come gruppo di studio, il Collettivo si è 
                          impegnato da subito in modo serrato contro le politiche 
                          razziste della giunta leghista della città piemontese, 
                          e negli anni successivi ha proposto diverse occasioni 
                          di incontro in favore della cultura dell’accoglienza 
                          e della difesa delle libertà individuali e collettive. 
                          Tra le ultime iniziative un incontro informativo sui 
                          diritti (negati) delle unioni di fatto e la proposta 
                          di intitolare a Fabrizio De André, il poeta degli 
                          ultimi, una piazza o una via cittadina, come primo atto 
                          simbolico di una rinnovata attenzione nei confronti 
                          di tutti gli esclusi. Per chi volesse saperne di più, 
                          rimandiamo al sito www.alessandriacolori.it. 
                           
 | 
                     
                   
                   Note 
                  
				    - Sul caso ceceno, che rappresenta certamente una delle 
                      questioni più complesse dell’attuale quadro 
                      geopolitico, e che per molti aspetti è davvero paradigmatico 
                      di quella crisi della politica di cui stiamo trattando, 
                      rimandiamo al volume collettaneo Cecenia. Nella morsa 
                      dell’impero, Guerini e Associati, Milano 2003 
                      e al saggio di Anna Politkovskaia, Cecenia, il disonore 
                      russo, Fandango, Roma 2003. 
                    
 - Certamente, le elezioni presidenziali statunitensi che 
                      hanno sancito (questa volta senza il bisogno di brogli) 
                      la rielezione di George W. Bush pongono alla Scienza politica 
                      una serie di elementi innovativi su cui riflettere, tra 
                      cui un sensibile incremento dei votanti (che contrariamente 
                      alle previsioni non ha premiato il candidato progressista, 
                      ma il sostenitore della cosiddetta moral majority). 
                      Rimane il fatto che anche in clima di eccezionale mobilitazione 
                      (con l’aperto schieramento delle personalità 
                      più varie, anche del tutto eccentriche rispetto alle 
                      dinamiche politiche, quali ad esempio gli artisti esibitisi 
                      a sostegno di John Kerry), hanno partecipato al voto poco 
                      più della metà degli aventi diritto, e si 
                      è assistito nel corso della campagna elettorale a 
                      una fortissima personalizzazione dello scontro, secondo 
                      logiche che non mi sembrano essere particolarmente congruenti 
                      con una democrazia compiuta (qualunque valutazione si dia 
                      di questo specifico regime politico). 
                    
 - In riferimento a quest’aspetto decisivo un noto 
                      studioso francese, Bernard Badie, ha parlato esplicitamente 
                      di fin des territoires [Fayard, Paris 1995]. Di 
                      fatto, la classica formula schmittiana dell’Ortung 
                      und Ordnung non può più essere valida 
                      di fronte alla crescente deteritorializzazione di un campo 
                      sempre più ampio di relazioni umane e alla sostanziale 
                      impossibilità dei singoli Stati nazionali di gestire 
                      e governare gli incontenibili flussi di capitali, di informazioni 
                      e di persone che caratterizzano l’epoca della globalizzazione 
                      compiuta. 
                    
 - M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino 
                      2003. 
                    
 - Nel Leviathan la tesi è netta: laddove 
                      non vi sia uno Stato non ci può essere neppure nulla 
                      di ingiusto; il concetto stesso di ingiustizia richiede 
                      necessariamente un’autorità legittima che lo 
                      riconosca. Ben diversa la teoria degli antichi, mirabilmente 
                      sintetizzata da una nota citazione tratta dal quarto libro 
                      del De civitate Dei di Agostino di Ippona: «Remota 
                      itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?»; 
                      in che cosa gli Stati e i loro governanti si differenzierebbero 
                      da una banda di ladroni se non vi fosse l’idea, essenzialmente 
                      pre-politica, della giustizia? 
                    
 - Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, 
                      Bruno Mondatori, Milano 2002 (2000). 
                    
 - Questa declinazione specifica, e largamente utopica, della 
                      fine del lavoro deve essere ancora pensata nel complesso 
                      delle sue implicazioni e delle sue potenzialità, 
                      in particolare in connessione con una radicale ridefinizione 
                      delle categorie del politico, ma se ne possono già 
                      individuare alcune significative premesse. Fondamentali 
                      in tal senso le opere di André Gorz, in particolare 
                      Adieux au prolétariat. Au-delà du socialisme, 
                      Galilée, Paris 1980, trad. it., Addio al proletariato. 
                      Oltre il socialismo, e Métamorphoses du 
                      travail. Quête de sens, Galilée, Paris 
                      1991, trad. it., Metamorfosi del lavoro. Critica della 
                      ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 
                    
 - «Di non lavoro non ce n’è troppo, ma 
                      troppo poco». Questa convinzione, come ci ricorda 
                      Paolo Virno, si diffonde già alla fine degli anni 
                      Settanta, pur rimanendo sostanzialmente marginale. In particolare, 
                      riflettendo sulle lotte «dell’anno di grazia 
                      1977», Virno sottolinea come quel movimento composito 
                      e variegato abbia per primo segnalato «il carattere 
                      socialmente parassitario del lavoro sotto padrone» 
                      e abbia rappresentato «l’unica rivendicazione 
                      di una via alternativa nel gestire la fine del “pieno 
                      impiego”»; P. Virno, Il futuro alle spalle, 
                      in AA.VV, Millonovecento Settanta Sette, manifestolibri, 
                      Roma 1997. Per molti aspetti il movimento del ’77, 
                      pur con le sue contraddizioni e le sue ambiguità 
                      (o forse proprio grazie ad esse), rappresenta uno straordinario 
                      laboratorio di idee e sembra aver anticipato di trent’anni 
                      la dimensione esistenziale dell’epoca contemporanea, 
                      che esaspera la precarietà ma che nello stesso tempo 
                      pone il problema della ricerca di nuove vie di fuga. 
                    
 - La citazione è posta ad esergo del volume curato 
                      da Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo, Donne disarmanti. 
                      Nonviolenza e femminismo, Intra Moenia, Napoli 2003. 
                    
 - Raoul Vaneigem, nel suo saggio dedicato all’incondizionata 
                      difesa della libertà di espressione, Rien n’est 
                      sacré, tout peut se dire [La Découverte, 
                      Paris 2003, trad. it., Niente è sacro, tutto 
                      si può dire, Ponte alle Grazie, Milano 2004], 
                      scrive: «Il modo per chiudere con un mondo che si 
                      distrugge da sé non è quello di condannarlo 
                      ma di sgomberarne le macerie e di costruire una nuova civiltà» 
                      (p. 32). Si badi, non che qui si invochi un astratto costruttivismo 
                      in base al quale un qualche sapiente (o un qualche valido 
                      tecnocrate) indichi la via da seguire o il 
                      progetto da realizzare; si tratta semmai, come meglio 
                      vedremo nei paragrafi conclusivi, di moltiplicare le relazione, 
                      di coniugare le diversità e ricercare insieme, 
                      ammettendo e confrontando tutti i diversi punti di vista, 
                      senza mai dare nulla per scontato e definitivamente acquisito. 
                    
 - Il caso solitamente citato è la stupefacente crescita 
                    dell’economia cinese, che pone rilevanti questioni, 
                    non solo sulla brusca modificazione degli equilibri del commercio 
                    internazionale, ma anche, e forse soprattutto, riguardo alla 
                    tenuta ecologica del pianeta. Che il tema sia di prioritaria 
                    importanza lo attestano poi le discussioni (e divisioni), 
                    talora piuttosto approssimative, sulla ratifica da parte degli 
                    Stati nazionali del protocollo di Kyoto per la riduzione delle 
                    emissioni di gas a effetto serra nell’atmosfera, o l’ampio 
                    confronto sull’utilizzo di fonti energetiche alternative, 
                    sulla gestione delle risorse idriche e sull’applicazione, 
                    più o meno illimitata, delle biotecnologie. 
                    
 - Z. Bauman, Liquid love. On the frailty of Human Bonds, 
                      Polity Press, Cambridge, e Blackwell, Oxford 2003, trad. 
                      it., Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2004. 
                    
 - Molto opportunamente il sociologo polacco osserva: «Il 
                      crescente divario tra ciò di cui siamo resi (indirettamente) 
                      coscienti – grazie all’offerta sovrabbondante 
                      di informazioni che scandisce la nostra quotidianità 
                      – e ciò che possiamo (direttamente) influenzare 
                      porta l’incertezza che accompagna tutte le scelte 
                      morali a vette senza precedenti alle quali il nostro bagaglio 
                      etico non è abituato a operare e forse non è 
                      neanche in grado di farlo», Z. Bauman, Amore liquido, 
                      cit., p. 134. 
                    
 - Tra i numerosi studi che nell’ultimo decennio hanno 
                      approfondito la questione dell’identità e della 
                      sua crisi vorremmo ricordare in particolare il bel saggio 
                      di Francesco Remotti, Contro l’identità, 
                      Laterza, Roma-Bari 1996. L’antropologo torinese osserva 
                      opportunamente che ogni affermazione identitaria è 
                      di per sé una finzione, un artificio che 
                      porta sempre con sé «il sospetto della sua 
                      arbitrarietà»; ma «si può vivere 
                      anche al di fuori della cappa dell’identità, 
                      riducendo semmai gli espedienti di identità a poca 
                      cosa, a strutture filiformi (…) che permettano di 
                      imbarcare senza troppi problemi una buona dose di flusso 
                      e di mutamento. È un vivere più libero (…) 
                      che è anche un con-vivere con gli altri» [p. 
                      98 e 103]. 
                    
 - Conserva, ovviamente, tutta la sua validità la 
                    radicale alternativa sociale e politica rappresentata dal 
                    pensiero anarchico e libertario, le cui potenzialità, 
                    tuttavia, non si sono ancora concretizzate in modo compiuto 
                    e diffuso. 
                    
 - Come noto, Francis Fukuyama, in un articolo pubblicato 
                      in «The National Interest» nell’estate 
                      del 1989, The End of History?, avanzava l’ipotesi 
                      che con la fine del comunismo, il trionfo della liberaldemocrazia 
                      e la globalizzazione dei mercati la Storia si fosse conclusa. 
                      Tre anni dopo, lo studioso nippo-americano ha sviluppato 
                      la propria tesi in un libro che ha avuto molta fortuna, 
                      The End of History and the last Man, The Free Press, 
                      New York 1992, trad. it., La fine della storia e l’ultimo 
                      uomo, Rizzoli, Milano 1996. Il testo, discusso e discutibile 
                      (soprattutto nel suo riferimento improprio al pensiero di 
                      Alexandre Kojève), ha dato vita ad un ampio e vivace 
                      dibattito,che si è sviluppato soprattutto in Francia 
                      e in Germania. Una ricostruzione efficace del concetto di 
                      fine della storia si trova in P. Anderson, A Zone of 
                      Engagement, Verso, London – New York 1992, The 
                      Ends of History, pp.279-375, e in L. Niethammer, Posthistoire. 
                      Ist die Geschichte zu Ende?, Rowohlts Enzyklopädie, 
                      Reinbek bei Hamburg 1989. Per ciò che riguarda il 
                      riferimento alla felicità del consumatore, 
                      non è certamente improprio un accostamento a quella 
                      felicità cinese di cui parla Friedrich Nietzsche 
                      in La gaia scienza: il cittadino soddisfatto dalla 
                      sua sicurezza e dal suo benessere, non disposto più 
                      a mutare la propria condizione di vita, è in realtà 
                      completamente abbrutito. 
                    
 - Remo Bodei, Se la storia ha un senso, Moretti 
                      & Vitali, Bergamo 1997, p.17 e p.76. 
                    
 - Un’analisi acuta e rigorosa di quelle contraddizioni 
                      si ritrova nelle pagine del precedente saggio di Revelli, 
                      Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie 
                      del lavoro [Einaudi, Torino 2001], nel quale, partendo 
                      da un bilancio fallimentare che accomuna la parabola del 
                      comunismo, travolto dalla sua ambivalenza e dal rovesciamento 
                      della volontà prometeica dell’homo faber 
                      in un mondo reificato e asservito ad una logica rigidamente 
                      produttivistica, e il modello industrialista sbriciolatosi 
                      nella molecolarità del postfordismo, già si 
                      affaccia con forza l’idea di un salto di paradigma, 
                      di una chiusura ingloriosa della modernità e dell’apertura 
                      di una fase politico-sociale ancor tutta da costruire e 
                      da comprendere. Riflettendo in particolare sulla concreta 
                      evoluzione storica del comunismo novecentesco, Revelli scrive: 
                      «È ormai evidente che tutto ciò contro 
                      cui quel movimento aveva identificato se stesso fino a fare 
                      della sua abolizione parte costitutiva del proprio fine 
                      – l’oppressione, la costrizione, il dominio 
                      poliziesco, l’uso incondizionato della forza, del 
                      carcere, della delazione, … – è divenuto, 
                      sostitutivamente, mezzo normale della sua realtà 
                      storica. È stato assunto come pratica legittima, 
                      strumentalmente giustificata, storicamente necessitata. 
                      E, per questa via, lentamente ma inesorabilmente, ne ha 
                      divorato il fine. Ne ha annientato ragioni e fondamenti; 
                      soprattutto ne ha inconsapevolmente ma irrimediabilmente 
                      consumato ogni credibilità. Caso esemplare di “eterogenesi 
                      dei fini”, in cui, appunto, l’intollerabilità 
                      dei mezzi, ritenuti razionalmente adeguati alla grandezza 
                      del risultato voluto e dunque storicamente inevitabili (per 
                      la realizzazione del “bene assoluto” ogni prezzo 
                      da pagare poteva apparire adeguato), ha finito per retroagire 
                      e per devastare, cancellare e distruggere la nobiltà 
                      degli obiettivi stessi. 
                    
 - Riferendosi a questo aspetto specifico, che ho già 
                      avuto occasione di richiamare, Revelli parla opportunamente 
                      di una nuova ontologia «che fa del disordine 
                      economico del mondo il modello insuperabile di una nuova, 
                      bizzarra idea dell’ordine sociale, come in un nuovo 
                      Medioevo, in cui la volontà imperscrutabile dei mercati 
                      prende il posto dell’antica imperscrutabile volontà 
                      divina. E l’ingiustizia sancita dall’iperpotenza 
                      dei flussi finanziari assume il ruolo dell’antica 
                      idea di Giustizia radicata nell’ordine cosmico»; 
                      M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 93. 
                    
 - «Da un lato – ha giustamente osservato Giorgio 
                      Cremaschi in un interessante dialogo sulle contraddizione 
                      del neoliberismo imperante – cresce la consapevolezza 
                      che così non si può andare avanti, ma dall’altro 
                      c’è la consolidata convinzione che non si può 
                      andare avanti che così»; G. Cremaschi – 
                      M. Revelli, Liberismo o libertà. Dialogo su capitalismo 
                      globale e crisi sociale, Editori Riuniti, Roma 1998, 
                      p. 17. 
                    
 - Scriveva Jean-Jacques Rousseau che «i limiti del 
                      possibile, nelle cose morali, sono meno ristretti di quanto 
                      pensiamo: sono le nostre debolezze, i nostri vizi, i nostri 
                      pregiudizi che li restringono» [Du contrat social, 
                      livre III, chapitre XII]. 
                    
 - L’idea di una società giusta, armonica e 
                    solidale, fondata sul riconoscimento universale della dignità 
                    di ciascuno e sul soddisfacimento di tutti i bisogni non può 
                    per definizione ammettere alcun confine, ma deve nel contempo 
                    sapersi assumere le proprie responsabilità nei confronti 
                    delle generazioni future.
                    
 - Tenendo conto di quest’aspetto decisivo, assume 
                      un significato politico centrale la rivendicazione di un 
                      reddito minimo di cittadinanza, ossia del riconoscimento 
                      indistinto di un adeguato contributo economico corrisposto 
                      a ciascun cittadino, in grado di assicurare almeno un livello 
                      minimo di sussistenza, e garantire quindi a tutti una certa 
                      libertà di compiere le proprie scelte autonomamente. 
                      L’introduzione del reddito minimo di cittadinanza, 
                      incondizionato e cumulabile, è una delle proposte 
                      incluse nell’Appello alla discussione sulle vie 
                      di uscita dalla crisi e dalla disoccupazione, firmato 
                      da trentacinque intellettuali francesi e pubblicato con 
                      grande clamore sulle pagine di «Le Monde» nel 
                      giugno del 1995. Le altre due proposte sono la riduzione 
                      del tempo di lavoro, ripartito in modo più equo [e 
                      su questo aspetto un riferimento obbligato è il saggio 
                      di Guy Aznar, Travailler moins pour travailler tous, 
                      Syros, Paris 1993, trad. it., Lavorare meno per lavorare 
                      tutti, Bollati Boringhieri, Torino 1994], e l’ampliamento 
                      degli spazi dell’economia plurale e solidale. 
                    
 - M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 121. 
                    
 - U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere 
                      Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, trad. it., 
                      La società del rischio. Verso una seconda modernità, 
                      Carocci, Roma 2000. 
                    
 - M. Revelli, La politica perduta, cit., p. 124. 
                    
 - Si veda in particolare E. Balducci, L’uomo planetario, 
                      Camunia, Milano 1985. Quando nel suo saggio intitolato La 
                      morale dell’uomo planetario [scritto nel 1986 
                      e ripubblicato nel numero monografico di «Testimonianze» 
                      del gennaio-aprile 2002, XLV, nn. 421-22, curato da Maurizio 
                      Bassetti e Severino Saccaridi], Padre Balducci afferma che 
                      occorre frantumare il panottico intende appunto 
                      sostenere la necessità di superare l’idea che 
                      vi sia un unico modo, esclusivo, totalizzante, egocentrico, 
                      di leggere e interpretare la realtà, e che occorra 
                      invece riabilitare e valorizzare tutti i punti di vista, 
                      internalizzando lo sguardo dell’altro e rifiutando 
                      la logica autoreferenziale di una politica che sottolinea 
                      maggiormente ciò che divide rispetto a ciò 
                      che unisce (secondo la contrapposizione schmittiana di amico-nemico) 
                      e che intende imporre il proprio punto di vista egemonico. 
                    
 - M. Revelli, La politica perduta, cit., p.136. 
                    
 - J. Holloway, Cambiar el mundo sin tomar el poder. 
                      El significado de la revolución hoy, Puebla 
                      2002, trad. it., Cambiare il mondo senza prendere il 
                      potere. Il significato della rivoluzione oggi, Intra 
                      Moenia, Napoli 2004. 
                  
  
 
                 | 
             
           
         
             
        
            
        
   
        |