rivista anarchica
anno 34 n. 296
febbraio 2004


ecosistemi

 

riflessioni


Governi, comunità, mutamenti climatici

La riunione COP 9 sul clima tenutasi a Milano nei primi giorni di dicembre si è conclusa. Le aspettative in particolare afferivano alla possibilità di incrementare le modeste politiche ambientali nel campo della riduzione delle emissioni anche attraverso la ratifica da parte di altri paesi della convenzione di Kyoto, la convenzione ad adesione volontaria che autolimita le emissioni dei singoli paesi in un programma a medio e lungo termine.
L’esito, come noto, è stato incerto. Da un lato la politica dell’attuale governo degli Stati Uniti d’America, tendente alla cancellazione della convenzione e all’annullamento delle attività in corso, è stata contenuta, dall’altro la già annunciata non ratifica della Russia ed il comportamento minimalista di alcuni altri paesi hanno sicuramente rallentato un processo di per sé non troppo vivace.
I livelli di alterazione del pianeta sono conosciuti: la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (causa principale dell’effetto serra da cui dipende l’innalzamento delle temperature) ha superato le 360 parti per milione in volume (270 prima della rivoluzione industriale); ogni anno 46 milioni di persone è vittima di inondazioni; un quarto della superficie del pianeta è oggetto di desertificazione; negli ultimi dieci anni sono stati tagliati o bruciati 94 milioni di ettari di foreste; i terreni fertili (coltivabili) sono in riduzione; il consumo di petrolio dal 1950 è cresciuto di 8 volte (il 16% della popolazione, ovvero quella dei paesi industrializzati, consuma il 62% del petrolio, pari a 2,36 tonnellate l’anno a persona); i ghiacciai perenni sono in scioglimento (il Kilimangiaro è ridotto dell’80%, negli Stati Uniti d’America nel territorio del Glacer National Park, il Parco nazionale dei ghiacciai, non vi sono più ghiacciai né ve ne saranno per i prossimi cento anni); con l’aumento delle temperature il volume dei mari si espande e di conseguenza il livello sale.
Nel continuo incremento negativo di questi fenomeni, che avviene costantemente e indipendentemente dalle dichiarazioni di principio e dalle innovazioni tecnologiche, si rilegge la difficoltà dei governi a delineare un percorso concreto e incisivo per ridurre in tempi brevi le emissioni ed avviare una politica che tuteli i principali interessi della popolazione del pianeta, primo tra tutti la salute e la qualità della vita.
Il Protocollo di Kyoto, ed in genere il percorso tracciato dalla Conferenza di Rio, prospettava un futuro in cui gli stati governavano in maniera coordinata i problemi ambientali al fine di migliorare le condizioni complessive del pianeta. Nella strutturazione dei documenti e degli obiettivi si intravedeva la possibilità che le politiche nazionali si potessero orientare verso la regolamentazione delle attività produttive e verso l’indirizzo dei processi nel senso di una maggiore efficienza ecologica. Per quanto riguarda il settore della produzione energetica questo implicava in maniera dichiarata l’abbandono o la riduzione dell’impiego dei combustibili fossili e l’avvio dell’uso in larga scala di sistemi di produzione da fonti rinnovabili.
Ma Rio e poi Kyoto ipotizzavano anche di più. Ipotizzavano che si potesse invertire l’aumento dei consumi, che le foreste sopravvivessero ai tagli e agli incendi, che le comunità locali, attraverso l’Agenda 21, partecipassero alla definizione del loro futuro, che si bloccasse il consumo di biodiversità in atto e tante e tante altre cose che non è possibile non condividere.
L’ipotesi perseguita era che le informazioni sulla profonda alterazione del pianeta e sulle deprecabili condizioni della sua popolazione, unite agli scenari, che presentavano un futuro planetario di dubbia qualità sociale e ambientale, ed agli enormi rischi diffusi costituissero quei fattori di modificazione delle politiche e degli interessi degli stati e dei produttori.
La Conferenza di Rio e i successivi atti sono stati l’esito di una pressione popolare basata sulla diffusione di consapevolezza ambientale mossa dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta-settanta e confermata dai tragici incidenti nucleari e chimici che sconvolsero l’opinione pubblica.
Questa pressione si è principalmente orientata ad esercitare un indirizzo nelle politiche delle amministrazioni pubbliche sembrando, allora, che esse avessero la capacità di modificarsi e gestire il processo di trasformazione che doveva interessare l’intero sistema produttivo.
La sensibilizzazione sui temi ambientali di tecnici ed amministratori fece in modo che le politiche avviate rispondessero anche alle ragioni del miglioramento delle condizioni ambientali. Le stesse ragioni pervasero i rapporti con le aziende che si risolsero in una continua richiesta di miglioramenti di efficienza dei processi.
I nuovi modelli apparivano praticabili in termini di costi economici e politici, e aziende e amministrazioni pubbliche si mostravano nel loro insieme generalmente disponibili.
Gli Stati Uniti d’America erano ad un passo dalla firma e gli altri paesi promossero subito delle modificazioni alle politiche energetiche. Per anni sembrò possibile che quanto avviato potesse finalmente affrontare i problemi che interessavano l’umanità: i consumi ebbero una flessione (quasi tutta derivante dalla flessione di produzione dei paesi dell’est), la politica dei paesi massimi consumatori di energia e controllori della quasi totalità delle risorse del pianeta (e in primo luogo quella degli Stati Uniti d’America) era incerta lasciando speranze a percorsi alternativi.
Ma questo scenario si è rapidamente modificato. A dieci anni di distanza dalla Conferenza di Rio, dopo una breve pausa, i consumi sono aumentati in tutto il mondo anche nei paesi che in precedenza hanno sostenuto il Protocollo di Kyoto e per esso si erano impegnati. Le emissioni inquinanti degli USA sono aumentate del 13-14%, la posizione assunta dal governo di questo paese è di aperto boicottaggio al Protocollo; la Russia non ha ancora aderito ed anche la politica di paesi come l’Italia, tradizionale sostenitore del percorso avviato, è oggi più ambivalente e comunque inadeguata agli obiettivi di riduzione proposte. In Italia le emissioni sono aumentate del 7,3% (invece che ridursi come previsto del 20%), non solo, ma i finanziamenti pubblici si concentrano in opere stradali (69% contro il 31% delle ferrovie, di cui la quasi totalità in linee ad alta velocità), ed è prevista la costruzione di centrali elettriche a combustibili fossili che aumenteranno del 16% la potenza installata e quindi le emissioni).
Che cosa è successo. La base attiva e la capacità di relazionarsi con la società dei movimenti ambientalisti si è ridotta; se la consapevolezza delle problematiche ambientali risulta nei paesi occidentali maggiormente diffusa essa ha assunto caratteri di maggiore superficialità e alla generica crescita di sensibilità non ha corrisposto una altrettanto significativa azione di indirizzo e controllo da parte della popolazione.
Contemporaneamente è aumentata la pressione dei produttori sui governi.
Un grande cambiamento è avvenuto negli ultimi venti anni.
I fondamenti di questo cambiamento sono stati la consacrazione della centralità del mercato all’interno della società come unico modello per il raggiungimento del benessere, la penetrazione delle merci nella vita degli individui, la commercializzazione dell’intero sistema planetario, naturale e antropico.
I gruppi imprenditoriali, dotati di un sempre maggiore potere derivante dalla concentrazione della produzione e dai grandi monopoli merceologici, nella ricerca di continui profitti hanno messo in atto azioni molto aggressive, fino a pervenire a livelli di voracità nello sfruttamento delle persone e delle risorse non più mistificabili.
Il ruolo di mediazione tra interessi privati e interessi comuni svolto dalle amministrazioni si è molto ridotto ed i governi hanno riassunto palesemente quel ruolo di formalizzatori degli interessi privati che già in passato avevano ricoperto .
La marginalizzazione del ruolo del potere pubblico, teorizzato ed applicato diffusamente nell’ultimo decennio, ha invalidato il progetto politico dell’ambientalismo che lo vedeva come partner principale della modificazione delle attività e dei comportamenti al fine di ridurre le emissioni e riqualificare l’ambiente.
Paradossalmente lo “stallo” del Protocollo di Kyoto e quindi gli esisti della COP 9 sono da considerarsi un successo non tanto per essere riusciti a mantenere in vita un ambito di azione comune ai governi ma proprio per avere dimostrata l’incapacità di questi a risolvere in tempi rapidi i problemi che interessano l’intera popolazione planetaria.
Visti gli esiti della COP 9, la lentezza e la scarsa incisività delle azioni avviate, il continuo peggioramento delle condizioni ambientali del pianeta, si può con tranquillità sostenere, dopo più di dieci anni dal formale avvio dell’azione ambientale degli stati (Conferenza di Rio), che:
• I governi sono più sensibili agli interessi delle compagnie che gestiscono la produzione energetica mondiale piuttosto che agli interessi dei miliardi di persone che subiscono le modificazioni climatiche.
• I governi hanno scarsa capacità nel risolvere i problemi planetari.
• I governi pongono molta attenzione alla demagogia dell’informazione e appare questa l’unica plausibile motivazione dell’avvio del programma di finanziamenti per ridurre gli effetti negativi nei paesi poveri, ridicolo per entità, colpevole per ideazione (non si lavora sulle cause connesse alle grandi compagnie imprenditoriali, ma sugli effetti maggiormente localizzati in territori poveri).
• I governi perseguono una impostazione commerciale (si interviene nell’ambiente quando questo è un affare) che riduce l’incidenza di altri parametri e non permette di modificare significativamente l’organizzazione produttiva.
• I governi usano strumentalmente ogni occasione per sostenere l’interesse di alcune grandi compagnie statunitensi, come provato dalla promozione in sede di COP9 dell’uso dei rimboschimenti geneticamente modificati che sono assolutamente marginali alla soluzione del problema.
In sintesi la COP9 ha dimostrato al mondo che è errato ipotizzare un ruolo sostanziale degli stati nel garantire gli interessi comuni in quanto sottomessi agli interessi dei pochi soggetti privati in cui si concentra gran parte dello sfruttamento delle risorse e delle popolazioni del pianeta.
Questa constatazione, che dovrebbe essere alla portata di tutti, potrebbe portare alla modificazione delle politiche dei movimenti ambientalisti ridimensionando le aspettative nei confronti dei governi nazionali e dei soggetti internazionali che sono di loro emanazione, a fronte di un contemporaneo incremento delle attività volte alla promozione autonoma di comunità e di individui che perseguano comportamenti ambientalmente sostenibili.
Ciò non implicherebbe l’eliminazione della pressione sui governi ma l’acquisizione di una criticità che sostituisca quella ingenua fiducia riposta in organismi, quali quelli governativi, che non hanno mai mostrato una capacità di essere conflittuali con gli apparati da cui sono sostenuti.
Se così fosse le comunità e gli individui avranno comunque un futuro segnato dai problemi ambientali perché l’inettitudine e il disinteresse palesati in questi anni dai governi ha già preparato le tragedie e i danni che vivremo nei prossimi anni.
Ma se così fosse le comunità e gli individui individuerebbero un percorso indipendente dalla demagogia e dagli interessi dei governi, risparmierebbero un mucchio di tempo di ingiustificate speranze e di conseguenti delusioni e riacquisterebbero il piacere dell’azione diretta.

testimonianze


Ambiente e modelli sociali

Partiamo dalla fine. Nel dicembre 1835 novecento guerrieri maori sbarcarono sulle isole Chatham e massacrarono circa 2.000 Moriori che le abitavano.
In questo ci fu lo zampino degli uomini occidentali: una barca di australiani cacciatori di foche informò i Maori dell’esistenza delle isole Chatham a loro ignote e della pacifica e praticamente disarmata popolazione che le abitava.
Siamo in Polinesia. I Maori discendono da un gruppo di agricoltori polinesiani che hanno occupato la Nuova Zelanda intorno al 1000 d.C. Avevano trovato in essa le condizioni ottimali per le proprie coltivazioni; crebbero fino ad arrivare a 100.000 unità solo nell’isola del Nord; divisero il territorio in parti densamente popolate e costantemente impegnate tra esse in guerre; sovrapproducevano alimenti e ciò permetteva loro di mantenere gruppi improduttivi (burocrati, militari); il costante aumento di produzione alimentare era necessario per mantenere gli improduttivi e la crescita demografica era necessaria agli eserciti e alle guerre utilizzate come sistemi per l’appropriazione di terreni agricoli di altri gruppi. Tutto ciò produsse uno “sviluppo” tecnologico e sociale..
I Moriori discendevano da un gruppo di agricoltori polinesiani che avevano occupato la Nuova Zelanda intorno al 100 d.C. e che da lì si spostarono subito dopo nelle isole Chatham dove furono cacciatori-raccoglitori; non produssero eccedenze alimentari; non mantennero eserciti e burocrati; non praticarono la guerra; erano dotati delle tecnologie sufficienti a prelevare ciò che era necessario per la loro esistenza.
I due sistemi sociali erano totalmente diversi: i Maori avevano una organizzazione verticistica, specializzata, iper-produttiva e quindi aggressiva, militarizzata,
I Moriori praticavano una organizzazione non specializzata, non volta alla produzione, pacifica.
I Maori avevano un rapporto con la natura del tutto produttiva, essa serviva a dare da mangiare alla popolazione e non avevano alcuna consapevolezza dei limiti del sistema in cui erano insediati sfruttandolo al di la della sua capacità, in primo luogo attraverso una serrata riproduzione (aumento della popolazione che spingeva alla ricerca di nuove terre).
I Moriori avevano un rapporto equilibrato con il sistema in cui erano insediati: utilizzavano le risorse senza danneggiarle e nel far questo cercavano un equilibrio interno, in primo luogo limitando il numero degli individui in ragione delle disponibilità delle risorse (alcuni maschi venivano castrati).
L’esito dei due modelli nell’ambiente fu notevolmente diverso: l’Isola del Nord era fortemente sfruttata e non garantiva in termini di risorse il mantenimento del modello sociale praticato; le isole Chatman furono descritte dai cacciatori dei foche ai Maori come un paradiso: “c’è abbondanza di pesci e molluschi, nei laghi nuotano miriadi di anguille e sulla terra il Karake dà le sue bacche mature…”.
I Moriori erano riusciti a conservare la ricchezza di individui e la diversità delle specie naturali, condizione necessaria per rendere facile il prelievo della risorsa, facilità di prelievo che era posto alla base della loro organizzazione sociale.
Le informazioni sono prese dal recente e interessante libro di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie, edito da Einaudi (Torino, 1998). L’autore considera la Polinesia un buon laboratorio per la verifica delle relazioni tra ambiente e tipo di società insediata in ragione della grande diversità degli ambienti e delle organizzazioni sociali. Egli, proprio utilizzando l’esempio dei Moriori, arriva alla conclusione che proprio le condizioni delle isole Chatman impedì l’impianto delle specie tradizionalmente coltivate e impose una trasformazione alle popolazioni lì pervenute.
Ma in Polinesia si passa dalle società di cacciatori-raccoglitori delle Chatman, con densità di 5 abitanti per kmq, fino ad arrivare ad Anuta, un’isola di 40 ettari e 160 abitanti, con una densità pari a 400 ab/kmq; si passa quindi da sistemi sociali verticistici a società non autoritarie e questo spesso in condizioni ambientali simili.
Il caratteri principale e comune appare l’isolamento dei diversi territori che ha comunque comportato la necessità di rendere le popolazioni insediate autonome e tendenzialmente equilibrate con le risorse.
Si sono così definiti dei sistemi chiusi in cui la definizione del modello produttivo e sociale dipendeva sicuramente dal contesto ambientale ma non era esente dall’interpretazione che a quel contesto ambientale veniva data dalla cultura delle comunità.

 

osservazioni sulla contemporaneità


Storie di grattacieli 1:
la demagogia del progresso

A Taipei in Taiwan è stata inaugurata il mese scorso una prima parte del grattacielo più alto del mondo.
Taipei 101, con i suoi 508 metri di altezza, 101 piani, ha superato le Torri Petronas, 452 metri, situate in Kuala Lampur (Indonesia), precedenti detentrici del record di altezza.
Le sue forme ricordano quelle della Torre Jinmao di Shanghai (il più alto grattacielo della Cina, 421 metri).
La costruzione di grattacieli è molto diffusa anche in quei paesi del sud-est asiatico, vittime-carnefici dell’economia globale e dei nuovi mercati, ed è una componente essenziale del modello insediativo imperante.
I grattacieli comportano degli impatti molto elevati sia in termini ambientali (aumento dei consumi energetici nella fase di costruzione, di manutenzione e di funzionamento) ed anche sociali (mancanza di relazioni tra l’edificio e la città, l’edificio svolge al suo interno tutte le funzioni) ed in sintesi non risponde ad alcuna domanda da parte della popolazione (non si capisce a quale benessere abitativo diffuso vuole rispondere).
Ma attraverso di essi si riescono ad ottenere enormi profitti (aumento della densità su di una ridotta area, quantità di metri quadrati vendibili per area edificabile) proprio nei luoghi delle città dove è maggiore la domanda di uffici e residenze di lusso, che ben si confondono con la demagogia del monumento. Tanto da lasciar dire al presidente di Taiwan, paese con problemi ambientali e sociali elevatissimi e con città invivibili, a proposito di Taipei 101, “è il nuovo punto di riferimento della capitale, creerà opportunità di mercato, di prosperità e di progresso e collocherà Taiwan nella scena mondiale”.

Storie di grattacieli 2:
la clonazione del bisnonno

Come noto il giorno 11 settembre a New York (Stati Uniti d’America) sono crollati, in seguito ad un attentato, due grattacieli.
Forse meno noto è che il comune ha rapidamente bandito un concorso per un progetto di larga massima di sistemazione delle aree.
I progetti presentati sono stati 5200. La quasi totalità dei progetti, e comunque nessuno dei primi 10, ha ipotizzato altro che costruire di nuovo dei grattacieli; come se si dovesse negare l’esistenza di un fatto quale l’abbattimento delle torri gemelle, come se si dovesse per forza sostituire quello che non c’è con la stessa cosa, come se fosse necessario che il nuovo fosse più grande del vecchio come se ad una persona gli morisse il bisnonno e lo rimpiazzasse con uno, qualunque, ma più alto.

Kuala Lumpur (Malesia), Le torri Petronas

Storie di grattacieli 3:
gestione del sentimento

Il progetto vincitore del concorso per la sistemazione dell’area delle due Torri di New York pone le sue basi in quella miscellanea di sensazioni definite dalla campagna governativa dove si mischiano un superficiale senso del dolore, il disinteresse alla comprensione, il senso patriottico, il martirio per la civiltà, la grandezza e la superiorità del popolo, tutto strumentalmente volto al sostegno delle politiche internazionali e nazionali del governo.
L’edificio più alto raggiunge i 1.776, piedi la stessa data della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, e così diviene il grattacielo più alto del mondo; esso ricorda il profilo della statua della libertà come essa si presentò al progettista, giovane immigrato, quando arrivò a New York; la disposizione degli edifici è tale che un giardino denominato “Parco degli eroi” si illumini completamente di luce solare solo in corrispondenza dell’ora e del giorno dell’attentato; a venti metri di profondità viene conservato un muro di contenimento del fiume Hudson quale “simbolo eloquente della ferma resistenza della democrazia al terrorismo”; gli ultimi piani del grattacielo maggiore sono occupati da vegetazione che vuole richiamare il senso della vita della rinascita. L’elenco potrebbe continuare in questo che più che un progetto è un insieme di luoghi comuni afferenti al tema presi da culture diverse e unite come in un catalogo del compassionevole dove però non si dimentica il commercio, così da fare comparire la “zona zero” come un misto tra demagogia della memoria e mercato, un cimitero e un supermercato dove si prega e si compra garantendo così i fondamenti di quella alienazione propria dell’infelice modello globale senza tentennamenti sostenuto dal governo statunitense.
Ma il progetto ha vinto anche perché l’ideatore è egli stesso un progetto.
L’architetto D. Libeskind è un immigrato, polacco, figlio di sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, progettista del museo ebraico di Berlino. Egli si è proposto come il rappresentate di un dolore che si voleva richiamare per rendere ancora più tragico il già di per sé tragico evento.
Ma il progetto della figura dell’architetto non è stato casuale: D. Libskind si è presentato ai media con spilla raffigurante bandiera americana sulla giacca, presentandosi sempre come statunitense immigrato, ammiratore del paese e sostenitore dei principi governativi ed ha sempre tentato di muovere quella melassa di sentimenti su cui aveva fondato la sua attività progettuale sottolineando la sacralità del progetto, anche perché svolto da una persona “segnata” dalla tragedia e quindi tanto pura da poter essere sacerdote di quella sacralità che è la ricostruzione degli edifici.

Storie di grattacieli 4:
gestione dell’interesse economico


Una volta comunicati con grande risonanza i contenuti del progetto vincitore per la sistemazione dell’area già occupata dalle torri gemelle in New York, il processo progettuale ha subito un brusco cambiamento di direzione.
I proprietari dei suoli, che non erano il soggetto che ha bandito il concorso, recependo le indicazioni del progetto vincitore, hanno affidato la progettazione esecutiva ad una società, denominata OMS, di propria fiducia.
La società ha avviato una profonda rivisitazione degli edifici tesa a ridurre i costi ed aumentare la quantità di superficie coperta vendibile. Le principali modificazioni hanno riguardato l’eliminazione del giardino posto nella parte alta del grattacielo più alto, sostituito da uffici, e dalla riduzione della profondità della parte interrata; ma tutto il progetto vincitore è in trasformazione.
La progettazione esecutiva dei parcheggi, anch’essi considerevolmente aumentati, è stata affidata ad un architetto spagnolo.
Completata la strumentalizzazione demagogica, costituita l’immagine, entra in gioco l’interesse economico che modifica e adatta ai propri obiettivi indipendentemente dai valori espressi e comunicati.
Il libero mercato può fare anche questo: affliggere con contenuti lacrimosi e squallidi e tessere interessi con essi conflittuali, abboffare i media di memoria, tragedia, vendetta, simbologia e concludere all’ombra di questo i propri affari.

Adriano Paolella
antiglo@mclink.it

La prima puntata di questa rubrica, dedicata a “Energia e comunità”, è stata pubblicata sul n. 295 di “A”. La prossima apparirà sul n. 298.