rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004


produzione & riproduzione

La riproduzione al centro
di Marvi Maggio

 

Il movimento delle donne in Italia e all’estero ha evidenziato l’importanza della lotta politica relativa agli ambiti del “personale” e della riproduzione.

Changes in forms of work and of community and domestic life must be understood and planned in relation to each other» [(«I cambiamenti nelle forme di lavoro e di comunità e di vita domestica devono essere interpretati e pianificati in relazione fra di loro») International Network for Urban Research and Action, Principi dell’INURA, 1991].

«… Dobbiamo restituire alla città le sue funzioni materne e vitali, le attività autonome e le associazioni simbiotiche che per lungo tempo sono state trascurate o soffocate. Essa, infatti, dovrebbe essere un organo d’amore, e la migliore economia urbana è la cura e la cultura degli uomini» [(Lewis Munford, La città nella storia. Dalla corte alla città invisibile, III volume, Bompiani, Milano, 1977, pag. 711 (ed. originale 1961)].

«…The best that I can offer is an invitation to a conversation about the hard work of tangible social transformation that has as its objective the construction of a far more egalitarian, openly democratic and creatively transformative society than that is evident today, coupled with the analytic recognition that this cannot be achieved within the existing social framework of production, consumption and urbanisation…» [(«…Il meglio che posso offrire è un invito ad una discussione sul duro lavoro di una trasformazione sociale concreta che ha come suo obiettivo la costruzione di una società ben più egualitaria, apertamente democratica e creativamente trasformatrice, di quanto sia oggi, insieme al riconoscimento analitico che questo non può essere ottenuto all’interno della struttura sociale esistente di produzione, consumo ed urbanizzazione…») Harvey, 1999:270].

Lo scopo dei movimenti di emancipazione “is to rearrange relations of power and to bring a society into being that lives at peace with itself and its environment, in which subalternity has been eradicated, and which is striving for always greater justice, care and community. In the movement toward such society, there must be a joining of feminist and planning epistemologies and practice” [(«è di riorganizzare le relazioni di potere e di creare una società che viva in pace con sé stessa e il suo ambiente, in cui la subalternità sia sradicata, e che si sforzi di ottenere una sempre maggiore giustizia, cura e comunità. Nel muoversi verso questa società, ci deve essere un’unione fra le epistemologie e le pratiche femministe e della pianificazione») Friedmann,1992:43].
«… Stiamo costruendo alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle. Stiamo costruendo un’ampia alleanza a partire dalle nostre lotte e dalla resistenza a un sistema che è fondato sul patriarcato, il razzismo e la violenza, che privilegia gli interessi del capitale sui bisogni e le aspirazioni dei popoli…» (2° punto delle Carta di Porto Alegre 2002).

Questo contributo si pone nell’ambito della discussione interna ai movimenti sociali e di quella relativa alla proposta di Carta dei nuovi municipi elaborata dal Laboratorio per la progettazione ecologica degli insediamenti coordinato da Alberto Magnaghi e del Cantiere dei nuovi municipi.

Produrre e riprodurre

Oggi, nell’ambito delle pratiche e delle teorie per il «nuovo mondo in costruzione», il problema di cosa, come, quanto, dove, per chi e per che cosa produrre è una questione cruciale, patrimonio di tanti movimenti che hanno smesso di pensare che il lavoro salariato possa limitarsi a una posizione puramente rivendicativa, estranea ai fini della produzione. Tuttavia questa posizione assume un reale valore per la trasformazione societaria solo se viene messa in relazione con la riproduzione individuale e sociale: intendendo con questo termine la produzione e il mantenimento della vita in tutte le sue espressioni: individuali, sociali, culturali, artistiche e la cura delle persone.
Una delle forme che la riproduzione ha assunto nelle nostre società, è il lavoro domestico svolto nel privato, cioè l’attività di mantenimento quotidiano della casa e cura dei componenti il nucleo familiare, tradizionalmente delegata alle donne e non retribuita. La riproduzione coinvolge un insieme di funzioni che sono cruciali per il nostro benessere e che nelle nostre società sono spesso ancora considerate acriticamente un compito femminile, come la cura dei bambini, degli anziani e dei disabili, il sostegno psicologico ed emotivo, la preparazione di pasti, la pulizia e la gestione dell’abitazione, l’assolvimento di compiti amministrativi e burocratici legati alla casa. L’organizzazione ed i ritmi del lavoro retribuito sono strutturati come se ogni lavoratore avesse una moglie a casa, sebbene il lavoro femminile sia in crescita, creando contraddizioni sociali che per il momento pesano in gran parte sulle donne.
Malgrado le attività riproduttive siano essenziali per ogni società, la teoria economica, ma anche l’analisi politica, le ha per lungo tempo lasciate in ombra. Privilegiare nelle analisi e nelle proposte la produzione rispetto alla riproduzione, ha significato non affrontare lo sfruttamento e le discriminazioni alle quali sono soggette le donne: una condizione già presente nelle società pre-industriali, che il capitalismo nelle sue diverse fasi, compresa quella post-fordista e globalizzata, ha utilizzato e rifunzionalizzato per il proprio profitto. Tuttavia spesso anche chi si è occupato di riproduzione ha escluso in modo ideologico il lavoro domestico dalle sue analisi: la teoria urbana ricostruita negli anni settanta attorno al concetto di consumo collettivo, ha incluso i servizi offerti dallo stato sociale in alcuni contesti, come la casa, il trasporto e i servizi sanitari che sostengono la riproduzione sociale degli individui, e non quei beni e servizi offerti nell’abitazione attraverso il lavoro domestico, in modo tale da escludere il ruolo economico e sociale della famiglia e del patriarcato.
Per molti aspetti l’attività riproduttiva è tuttora invisibile, interpretata come un ruolo naturale femminile, e non compare nei calcoli economici, se non come sottrazione di tempo per il lavoro «produttivo» retribuito o come monetizzazione del tutto teorica, che non mette in discussione la gratuità e l’imposizione dei ruoli di genere.
Mentre gestazione e parto, in altri termini la produzione della vita, sono indubitabilmente una competenza femminile, l’attribuzione alle donne del lavoro domestico è un prodotto di relazioni sociali patriarcali che in parte permangono ancora nella nostra società, seppure in modo differenziato in base a classe e cultura di appartenenza. Questo sfruttamento delle donne, che ha comportato un notevole risparmio economico per l’intera società, è stato messo profondamente in discussione dalle trasformazioni sociali generate dai movimenti femministi negli ultimi 30 anni.
Il lavoro domestico ha acquistato visibilità grazie al lavoro teorico ed alle rivendicazioni dei movimenti delle donne, che hanno messo in discussione la sua attribuzione per obbligo al genere femminile, la sua gratuità e la svalutazione di cui è stato oggetto. Il femminismo non ha solo criticato i ruoli di genere eterodiretti ed imposti: ha anche sottolineato la centralità sociale delle «attività di produzione e mantenimento della vita» e ha osservato come la loro invisibilità e sottovalutazione corrispondesse alla subordinazione delle donne nelle nostre società. È stato il movimento femminista ad analizzare lo stretto intreccio fra produzione e riproduzione, fra ruolo delle donne e sistema economico-sociale, a smascherare i rapporti di potere propri della famiglia tradizionale e a denunciare i residui immondi dell’uso e del controllo patriarcale della capacità riproduttiva femminile, sancito dalle religioni, con il corpo delle donne ridotto a contenitore e oggetto.

I cambiamenti nei ruoli di genere e le città

Il movimento delle donne in Italia e all’estero ha evidenziato l’importanza della lotta politica relativa agli ambiti del “personale” e della riproduzione. Si tratta di modificare le relazioni sociali e contemporaneamente le strutture spazio-temporali esistenti.
Gli spazi urbani europeo ed americano, seppure presentino tipologie edilizie ed organizzazioni spaziali differenti, sono strutturati principalmente in relazione alla famiglia nucleare, caratterizzata da ruoli di genere dicotomici, e in particolare dall’assegnazione alle donne del lavoro riproduttivo non retribuito, svalorizzato e non considerato una vera occupazione quanto piuttosto un’attività «naturale» da svolgersi “per amore”: le strutture spazio-temporali e l’economia fanno ancora affidamento in gran parte sul lavoro riproduttivo non retribuito.
Altre culture ed idee di società, caratterizzate da ipotesi di una diversa organizzazione della vita quotidiana, si scontrano con strutture urbane spazio temporali rigide, costruite in base all’ipotesi ideologica che i rapporti sociali propri della famiglia nucleare, fossero gli unici possibili, perché “naturali”, e quindi immodificabili. Al contrario attualmente stanno avvenendo profondi cambiamenti nei ruoli di genere, che influiscono sul processo di urbanizzazione e si esprimono in una domanda di servizi alla persona che, in una situazione di riduzione dello stato sociale, talvolta provocano l’ingresso del mercato capitalistico nella loro offerta, con effetti di esclusione.
Stanno emergendo altri rapporti sociali, rispetto a quelli propri della famiglia nucleare, che domandano altre strutture e stanno già trasformando le città quando sono espressi da soggetti che per il loro reddito richiamano l’attenzione del mercato. Basti pensare ai residence o ai condomini di lusso per singoli o coppie, con spazi comuni e con servizi di pulizia inclusi; ai servizi di cura di bambini ed anziani a pagamento; al lavoro di pulizia a pagamento svolto in gran parte da donne (spesso immigrate); al sostegno emotivo ricercato negli studi di psicologi e psicoanalisti; a club privati e palestre; oppure al mix funzionale che supera la separazione fra quartiere residenziale e luogo di lavoro, corrispondente ai ruoli dicotomici di maschio percettore di reddito e donna casalinga, per consentire percorsi casa-lavoro-servizi più ingarbugliati e disordinati di quelli prevedibili con la separazione dei compiti.
Le attività riproduttive sono sempre più assolte attraverso un intricato intreccio fra il diventare merci o servizi prodotti dal mercato capitalistico e rimanere un compito svolto per “amore” o solidarietà. Esiste una contraddizione fra l’ingiustizia di un lavoro non retribuito assegnato dai ruoli di genere dicotomici come un dovere, e il valore, per alcuni dei compiti riproduttivi, di essere tenuti fuori dalla razionalità del sistema di produzione capitalistico. Alcune delle attività riproduttive coinvolgono relazioni sociali ed attività che per essere pienamente assolte devono rimanere esterne ai meccanismi del profitto. Contemporaneamente il cambiamento è frenato dalla consistente riduzione delle politiche dello stato sociale e dalle politiche volte a “preservare la famiglia”, che molto spesso producono una riaffermazione delle relazioni patriarcali di potere e dei ruoli di genere.
I movimenti delle donne hanno elaborato numerose proposte di soluzione e di superamento dei ruoli di genere propri del lavoro domestico e di cura delle persone, fra cui la riduzione dell’orario di lavoro, con la liberazione di tempo da utilizzare per la riproduzione, sia per gli uomini che per le donne, oppure una condivisione del lavoro riproduttivo già sperimentato in vario modo nelle case collettive, oppure la rivendicazione di un insieme di servizi sociali che possono essere diffusi nella città e non situati solo nel raggio del quartiere.
Tuttavia il superamento della discriminazione contro le donne e dei ruoli di genere stereotipi richiede una ristrutturazione urbana (spazio-temporale) complessiva che consenta lo sviluppo di un nuovo tipo di relazioni sociali.
La centralità della riproduzione nel definire progetti di trasformazione sociale ed urbana risiede nella convinzione che la produzione ed il mantenimento della vita prevalga per importanza, nel determinare la qualità dell’ambiente costruito, sulla produzione ed il consumo di beni e servizi. Il lavoro produttivo dovrebbe essere concettualizzato come sostegno e complemento al lavoro per il mantenimento della vita piuttosto del contrario (Sandercock, 1990).
Le attività “riproduttive” sociali, che stanno a cavallo fra il pubblico e il privato e sono capaci di generare qualità cruciali per la riqualificazione urbana e territoriale, vanno riorganizzate in relazione alle modifiche strutturali subite dalla famiglia nucleare e dai ruoli di genere. Tali attività sono costrette, in relazione ai mutamenti in corso, a cercare espletamento oltre lo spazio privato e a ridefinire le proprie modalità di svolgimento. La contraddizione fra il voler far emergere alcune di queste attività dallo sfruttamento del lavoro non retribuito ed il valore sociale consentito dall’estraneità al mercato capitalistico, può essere risolta attraverso la creazione di una economia non capitalista. L’offerta di mercato capitalistica non è all’altezza del compito perché oltre ad essere alienante e spersonalizzata, è selettiva e discriminante e, privilegiando soprattutto l’obiettivo del profitto, esclude i soggetti non solvibili. A seconda delle specificità di ognuna delle attività, si può ipotizzare che l’assolvimento di alcune di esse sia condiviso da tutti i soggetti nel privato, altre è auspicabile siano autogestite collettivamente, mentre altre è opportuno siano offerte come servizi erogati dalla società nel suo complesso.
Il tipo di domanda sociale che emerge oggi, indica la necessità di costruire reti e strutture spaziotemporali per la socializzazione e riproduzione che travalichino lo spazio residenziale. I problemi della riproduzione e della vita quotidiana non possono essere risolti nel ristretto e limitato spazio abitativo e residenziale: possiamo immaginare abitazioni per forme di convivenza differenti dalla famiglia nucleare stereotipa, di cui esistono esempi, tuttavia è l’intera città (e il sistema economico) a doversi trasformare per accogliere, in modo proprio e collettivo, funzioni che avvenivano e ancora avvengono nel privato dell’alloggio e flussi di persone che sono sempre meno strutturati dalla dicotomia dei ruoli di genere. Dobbiamo aprire le nostre aree urbane alla razionalità delle relazioni sociali che tendono ad avere una scala più vasta che copre l’intera area metropolitana e talvolta è vasta come il globo.

Pianificazione territoriale e istanze femministe

Secondo Leonie Sandercock (1990) il lavoro teorico sulla pianificazione deve fondarsi sul bisogno per la produzione ed il mantenimento della vita piuttosto che sulla produzione e consumo di beni e servizi (Sandercock,1990:85). Il lavoro che sostiene la vita svolto dalle donne è intensivo e non retribuito economicamente; esiste in potenza la possibilità di sviluppare teorie di pianificazione e di buona forma urbana, dove il lavoro tradizionale delle donne di mantenimento della vita assuma un ruolo centrale (Sandercock, 1990:85). Il lavoro produttivo può essere considerato di supporto e di complemento del lavoro riproduttivo, più che essere sostenuto da esso. La rivendicazione dell’importanza di questo tipo di attività non è in alcun modo legato ad una proposta di mantenimento del compito da parte delle donne, al contrario esso dovrebbe essere condiviso dai due generi.
John Friedmann nel delineare gli elementi di una pratica di pianificazione radicale o di opposizione sostiene che deve iniziare dal ricentrare la politica della comunità sull’economia dei nuclei abitativi (household). Questo permetterebbe ai pianificatori di fare i conti con l’intera economia, che comprende relazioni sia di mercato che non di mercato, e con la divisione sessuale del lavoro, spostando l’attenzione dal consumo collettivo alla produzione della vita. Questa prospettiva enfatizza il bisogno di liberare tempo disponibile dal dominio del privato alla sfera pubblica. Friedmann rispetto alla economia dei nuclei abitativi specifica tre compiti della pratica radicale (Friedmann,1987): decolonizzazione come abbandono del consumismo; democratizzazione che significa diritti eguali fra adulti nelle decisioni del nucleo; auto-appropriazione di potere (empowerment) collettiva che significa che è solo attraverso l’interazione con altri nuclei, specialmente ma non solo a livello di quartiere, che l’appropriazione di potere (empowerment) da parte dei nuclei è possibile. Friedmann sostiene che il pianificatore radicale non può lavorare con individui isolati ma deve lavorare con famiglie e nuclei abitativi in una comunità politica organizzata. Friedmann in questa proposta è a giudizio di Sandercock (1990:74) molto in sintonia con le teorie femministe.
John Friedmann (1992) sottolinea come la dimensione del potere sia una preoccupazione cruciale della pratica femminista: i processi emancipatori richiedono un’appropriazione di potere psicologico e politico da parte delle donne situate nelle loro specifiche situazioni; l’emancipazione necessita di essere guidata da una visione alternativa della “buona società” dalla quale il potere di dominare gli altri sia assente, e in cui differenze ed eguaglianza possano coesistere; perché l’emancipazione abbia successo le abitudini di potere maschili devono infrangersi, conducendo verso nuovi tipi di nucleo abitativo, verso un superamento della divisione del lavoro per genere, verso un’organizzazione sociale che riconosca sia alle donne che agli uomini una vita autonoma, senza, al tempo stesso sacrificare quello che condividono fra loro: la vita in famiglia, in comunità e nello stato (Friedmann,1992:40).
Gilligan (1982;1988) rivendica una conoscenza morale che si fondi sulla relazione di cura. Questa teorica intende contrastare con un’etica di cura, l’etica della giustizia, dove duri giudizi sono statuiti nei riguardi del giusto ed ingiusto. Secondo Gilligan, le cui conclusioni sono fondate su una ricerca empirica estensiva, l’etica di cura che privilegia i modi contestuali di conoscere e contiene una preferenza implicita per la solidarietà sulla individualità, è più tipica delle donne che degli uomini. Questo non implica l’essenzialismo o gli stereotipi perché le differenze evidenziate sono radicate in una costruzione sociale specifica di un tempo e di uno spazio. Friedmann è convinto che Gilligan e le sue collaboratrici contribuiscano alla tradizione della pianificazione radicale dando voce ai contorni morali di una “buona società” in cui un’etica della cura e della solidarietà con le sofferenze degli altri, attutisca gli impulsi avidi di guadagno dell’economia individualistica e competitiva (Ruddick,1989; Friedmann, 1992). Secondo Friedmann quei contorni morali sono parte di una visione utopica verso la quale dirigere i nostri sforzi (Friedmann:1992:42).
Friedmann (1987; 1992) sottolinea che la tradizione radicale di pianificazione in tutti i suoi diversi filoni si occupa di progetti di emancipazione e che è pianificare nella e per la società civile specialmente in riferimento a quei settori che sono stati silenziosi e sommersi. Le donne non sono il solo gruppo cui è stato sottratto il potere: ci sono i lavoratori, le persone di colore, gli esiliati etnici, i contadini di sussistenza e tutti loro premono, sebbene non sempre in modo militante, per la loro liberazione dalla subalternità. Le lotte che coinvolgono la resistenza di gruppi subalterni deve essere sostenuta da loro stessi. Lo scopo dei movimenti di emancipazione “is to rearrange relations of power and to bring a society into being that lives at peace with itself and its environment, in which subalternity has been eradicated, and which is striving for always greater justice, care and community. In the movement toward such society, there must be a joining of feminist and planning epistemologies and practice” («è di riorganizzare le relazioni di potere e di creare una società che viva in pace con sé stessa e il suo ambiente, in cui la subalternità sia sradicata, e che si sforzi di ottenere una sempre maggiore giustizia, cura e comunità. Nel muoversi verso questa società, ci deve essere una unione fra le epistemologie e le pratiche femministe e della pianificazione») (Friedmann,1992:43).

Cosa produrre e per chi?

Tutto questo ci induce a pensare che il problema di cosa produrre se messo in relazione con le attività riproduttive apra delle contraddizioni centrali e offra indicazioni per un cambiamento sostanziale.
A ben guardare la dicotomia fra produzione e riproduzione ammette che la produzione non riguardi la risposta ai bisogni e la qualità della vita di tutti, ma sia piuttosto guidata da altre logiche. Le lotte degli anni settanta per ottenere la casa, i servizi sociali (alcuni dei quali andavano nella direzione di socializzare alcuni compiti del lavoro domestico), i trasporti, per «riprendersi la città», indicavano come tutto ciò che non produce profitto, perché risponde a bisogni di soggetti e gruppi sociali non solvibili o con scarsa capacità di spesa, è strutturalmente escluso dalla produzione capitalistica di beni e servizi: valica il confine della produzione e diventa «riproduzione della forza lavoro» di cui si deve occupare qualcun altro. L’ideale per il sistema è che il «servizio» sia offerto gratuitamente come per tanto tempo è avvenuto per il lavoro domestico assolto dalle donne. Per questo la riproduzione è stata nel migliore dei casi un compito dello stato sociale, almeno per quegli aspetti che sono stati inclusi nell’offerta dei servizi pubblici in risposta alle rivendicazioni dei movimenti sociali. Va osservato che in questo modo lo stato si limita a consentire che la produzione capitalistica si perpetui malgrado la sua razionalità antisociale e distruttiva e così facendo non tocca e non governa la produzione, ma crea le condizioni perché possa avvenire malgrado essa non risolva i bisogni sociali fondamentali. Vista da un’altra angolatura si tratta di una minima ridistribuzione di quanto è stato socialmente prodotto. Tuttavia oggi perfino le politiche dello stato sociale sono messe in discussione attraverso le privatizzazioni di servizi, risorse e beni pubblici, mentre il sistema capitalistico e l’organizzazione delle aziende, malgrado i loro evidenti limiti, vengono assunti come modello dagli enti pubblici. Acqua ed energia diventano le rinnovate fonti del profitto. La fiducia nel neo-liberismo è tale che vengono addirittura privatizzati settori di governo della cosa pubblica.
Eppure i limiti del sistema di produzione capitalistico sono evidenti. Le dinamiche fra domanda ed offerta sono sottoposte alla condizione di creare profitto, che impedisce strutturalmente una risposta ai bisogni di tutti. Come spiegare gli enormi costi sopportati dai produttori di beni e servizi per la pubblicità, che ci ruba tempo quando guardiamo la televisione o ascoltiamo la radio e occlude la nostra vista con cartelloni e insegne, se non con il fatto che non si sta rispondendo ai bisogni di tutti ma si sta producendo solo per il profitto, al di là e prima dei nostri bisogni e della nostra creatività? Basti pensare al ruolo centrale oggi delle produzioni di lusso. Di fatto troviamo beni e servizi sul mercato che rispondono ai nostri bisogni, solo a condizione che l’impresa produttrice ne tragga profitto. Le nicchie di mercato sfruttano perfino invenzioni dalla creatività sociale autogestita per intercettare sempre nuovi bisogni, basta che paghino. Meglio ancora se la merce si consuma in fretta come un viaggio, uno spettacolo, un evento.
Se poi pensiamo chi e come ha prodotto quello che usiamo smascheriamo la grettezza della produzione capitalista: iper-sfruttamento della manodopera, distruzione delle risorse di tutti per il profitto di pochi. I meccanismi della domanda e dell’offerta sono inficiati dalla relazione con la capacità di spesa che non ha nessuna relazione con l’effettivo bisogno. E che dire delle scarse capacità creative del mercato, della sua inefficienza, dello spreco e dissipazione di risorse, di capacità e di creatività che genera sistematicamente? Invece di andare dritto a quello che dovrebbe essere lo scopo di una economia, rispondere ai molteplici bisogni sociali in modo universalistico, il sistema capitalistico dissipa enormi quantità di risorse collettive e di capacità umane per lasciare la maggioranza dell’umanità nella miseria.
Il nostro problema non è la produzione di ricchezza, la valorizzazione economica, la crescita e lo sviluppo limitato solo dalla riproducibilità ambientale, quanto piuttosto creare una economia non capitalista in grado di offrire beni e servizi che garantiscano qualità sociale ed ambientale per tutti, insieme alle condizioni per il libero sviluppo delle identità di ognuno. E per farlo non si tratta di produrre dosi di merci e servizi crescenti, dai quali la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta sono strutturalmente esclusi, ma di creare le condizioni perché a tutti sia garantito quello che gli serve per vivere: risorse naturali: acqua, aria, suolo (non inquinati); beni mobili e immobili, di uso privato e/o collettivo; infrastrutture e servizi a rete; istruzione, socialità, cura e solidarietà; le condizioni per sviluppare la creatività sociale ed individuale di ognuno. Quanto di quello che ci occorre saranno «servizi» o «reti di relazione, cura e solidarietà», che non lasciano segni tangibili se non il nostro benessere individuale e collettivo e la nostra felicità, e quanto beni mobili o immobili, dipenderà dai bisogni, quelli uguali e quelli differenti, di ognuno, messi in relazione con le condizioni e i limiti di riproducibilità del territorio e dell’ambiente. La qualità ambientale e la riproducibilità del territorio non sono opposte ai bisogni umani ma sono uno dei bisogni umani rivendicato da tanti movimenti e comitati: lottare contro un inceneritore, contro l’inquinamento elettromagnetico, contro gli organismi geneticamente modificati, contro la distruzione e l’inquinamento ambientale, lottare per un altro mondo possibile con una altro modo di produrre e riprodurre, significa avere la consapevolezza che il rispetto dell’ambiente è anche il rispetto per la nostra salute, solo chi lucra sullo sperpero di queste risorse la vede come una limitazione. Non si può supplire a errori strutturali del sistema di produzione capitalista, legati al primato del profitto su tutto il resto, come l’inquinamento, l’effetto serra, la produzione di residui e di imballaggi non smaltibili, l’impronta ecologica smisurata, la mancata chiusura dei cicli delle acque e dei rifiuti, generando ulteriori inquinamenti e «protesi tecnologiche», come le definisce Magnaghi.

Produrre per riprodurre

Si tratta di ricentrare le attività umane sulla qualità della vita e sul libero sviluppo delle potenzialità di ognuno.
Nella «nuova società in costruzione» il lavoro riproduttivo deve essere socializzato e diventare un lavoro assunto da tutta la collettività e contemporaneamente va riconosciuta la sua centralità. Occorre infatti operare un ribaltamento: la riproduzione non deve più essere la mera condizione per permettere la produzione di beni e servizi come avviene nel sistema capitalistico, in cui, semplificando, il lavoratore/la lavoratrice deve riprodursi cioè mangiare, dormire, ottenere sostegno affettivo, svagarsi solo nella misura in cui gli/le serve per poter lavorare il giorno dopo e le donne devono produrre nuova forza lavoro e spesso occuparsi della riproduzione del lavoratore. Al contrario il lavoro riproduttivo, in altre parole la «produzione e il mantenimento della vita» in tutte le sue espressioni (individuali, sociali, culturali, artistiche) ed il benessere e la cura delle persone (fra cui anziani e bambini) dovrebbero assumere un ruolo centrale, mentre la produzione di beni e servizi dovrebbe assolvere il compito di sostenere e completare le attività riproduttive. La produzione di beni e servizi non dovrebbe più essere guidata dalla possibilità di produrre profitto (che richiede di rispondere solo ai bisogni di chi è in grado di pagare, e per esempio privilegia le produzioni di lusso rispetto ad altre più basilari ma rivolte a chi non è solvibile), quanto piuttosto realizzare quei beni e servizi necessari alla vita di tutti.
La riproduzione individuale e sociale è un settore fondamentale per ogni società. Solo operando questo ribaltamento, produrre per riprodurre invece di riprodurre per produrre, si può pensare di costruire una società che ponga al centro le persone e non le merci. È questo il settore che andrebbe sensibilmente ampliato in una nuova società.
Contemporaneamente mentre si sottolinea la centralità di questo settore è necessario affermare che le attività di cura devono essere assunte da tutti, socialmente, e non più assegnate in gran parte per obbligo alle donne. I ruoli di genere legati al lavoro domestico non hanno nulla a che fare con la differenza di genere. Affrontare il nodo del lavoro domestico e riproduttivo, svalutato malgrado la sua rilevanza sociale e non retribuito, ma svolto «per amore», è un modo per affrontare concretamente le discriminazioni di genere.
Al centro del nuovo mondo non ci deve essere solo la cura del territorio, ma soprattutto la cura delle persone.

Marvi Maggio
International Network for Urban Research and Action (www.inura.org)

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