rivista anarchica
anno 31 n. 274
estate 2001


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Orfeo ed Euridice ai seggi elettorali

 

Orfeo, figliuolo di Apollo e di Clio – quando Clio non era ancora un'automobile – suonava così bene la lira che gli alberi e i sassi gli correvano dietro, i fiumi sospendevano il corso loro e le bestie feroci gli si univano intorno per ascoltarlo.
Figuriamoci quindi se non l'ascoltò Euridice, che, rapita dalla maestria musicale di Orfeo, si incantò all'ascolto fin tanto che fu amore - reciproco. Il giorno delle nozze non passò inosservato, specialmente ad un fratellastro del nostro, tal Aristeo, che della medesima Euridice s'era invaghito e che approfittò della prima occasione per zomparle addosso. Fuggì la poverina e, non badando a dove metteva i piedini leggiadri, le toccò in sorte il morso di una serpe che, per lo strazio disperato di Orfeo, la mandò, in quattro e quattrotto, all'inferno.
Orfeo non si fece troppe domande sul perché la sua amata fosse finita all'inferno e, lira alla mano, ivi discese per addolcire gli animi di Plutone, di Proserpina e di tutte le altre deità infernali. La dolcezza del suo canto fece miracoli e i diavoli decisero di restituirgli Euridice ad una condizione a dir poco esigua: nel risalire verso la nostra valle di lacrime, Orfeo non avrebbe mai dovuto guardare la sua Euridice. Nemmeno di sottecchi – pena, il riperderla definitivamente.
Nessuno fece il minimo cenno alla proibizione di parlarsi. E così mi immagino che, nella lenta risalita da quei postacci scuri e maleodoranti, i due innamorati si siano detti finalmente un mucchio di cose. Parole d'amore, certo, ma anche ammissioni dell'angoscia provata, gli sgomenti di una solitudine improvvisa e apparentemente senza fine, il sollievo insperato, qualche promessa di ciò che, di lì a poco, li avrebbe attesi. Ad un certo punto, tuttavia, Euridice deve aver detto qualcosa che avrebbe fatto meglio a tacere, perché Orfeo si girò su se stesso e, guardandola dritta negli occhi, visibilmente alterato, le disse: "Ma tu non penserai mica davvero di votare per il Polo ?".

Nei giorni precedenti le elezioni politiche, i giornali hanno dato fondo alle proprie risorse in fatto di dire e non dire, di stare un po' di qui e un po' di là, di esser pronti al nuovo padrone chiunque fosse. L'equità – che qui è solo e soltanto quell'equità verso i potenti che, più si perfeziona, più va a danno di chi potente non è –, l'equità, dicevo, ha voluto, fra l'altro, che, nel darci dentro con il tema del colpo al cerchio e del colpo alla botte, ci si buttasse sul ghiotto paragrafo delle coppie divise. Il tal padrone del vapore che ha sposato la nota editrice vota Polo, mentre lei vota Ulivo; il noto cantante "anarcoindividualista" magari non vota, ma la signora, da dirigente di Forza Italia com'è, non potrà esimersi dal voto al Polo; il post-comunista con la modella dal nobile cognome vota Ulivo e lei Polo; la star televisiva e il marito regista, lei all'Ulivo e lui al Polo; e così via fino alla coppia paradigmatica che si presta, in quanto tale, a ricondurre nell'alveo della banalità ogni sospetto di grave incongruenza.
Tocca ai due ristoratori che, isolati nel solito paesino dimenticato da Dio dagli uomini ma non dalla Guida Michelin, interpretano la loro parte con solerzia e buona volontà non propriamente disinteressata. Lui si presenta in sala rosso fin di capelli, con falce e martello ridotti ad orecchino, il povero Che Guevara stampato sul pettorale del grembiule e si fa fotografare mentre brandisce una versione mignon del busto di Lenin. Lei è nera, affigge gigantografie di Mussolini e stappa in tavola bottiglie sulla cui etichetta il duce campeggia nelle pose più plastiche e perentoriamente fiduciose di sé.
Sono tutti esempi di matrimoni perfettamente riusciti.
Ciò dovrebbe dirci qualcosa sull'abisso buio e profondo nel quale ci troviamo. I ristoratori diventano la metafora della politica ridotta a gusto. Un'operazione di cui è palese la loro innocenza le cui responsabilità, invece, andrebbero ascritte a chi si è pasciuto di lunghi e snervanti anni di consociativismo, di "paci sociali" e di "governabilità", di riforme a favore di chi non ne aveva bisogno, di una fitta trama di corruzione associata, di crimini antipopolari, di mediocrità calcolate e di un colpo di stato che, in nome del sistema elettorale maggioritario, ha, di fatto, blindato una classe dirigente inetta e pericolosa per le dodici generazioni a venire. Se delle scelte politiche si può parlare oggi come di baruffe burlesche, lo si deve anche a costoro.
Tutto ciò che in differenti idee politiche può configurarsi come altrettanti progetti di vita – come giudizi sul miglior modo di comportarsi al mondo, come investimento odierno di ciascuno affinché chi lo seguirà stia meglio di lui, come spinta morale ad una più sensata distribuzione di dignità e risorse sul pianeta che abitiamo, o come semplici istruzioni per uscire di casa e tornarci senza doversi attaccare al bocchettone del gas –, tutto ciò, integralmente, è cancellato dal repertorio degli impegni civili.
E se la vita associata dei molti viene rappresentata ormai allo sbando, da meno non è la vita associata della coppia. Nessuno degli irresponsabili testimoni di questa sottilmente venefica propaganda potrà mai dire con Thomas Mann che "già da studente, con un presàgo compiacimento" ebbe "a lungo" la sua futura moglie "davanti agli occhi" (T. Mann, Sul matrimonio, SE, Milano 1988). A meno di non ammettere che, "già da studente", avesse architettato un progetto di vita in cui l'amore fosse uno dei compartimenti stagni fra i tanti e avesse anche pensato alla vita di coppia come alla soluzione consociativa ideale per garantirsi il conto in banca.

Felice Accame

P.S.: La quantità di "anarcoindividualisti" in circolazione nel periodo pre e immediatamente postelettorale dovrebbe indurre a ulteriori, penose, riflessioni. C'è inflazione – come se l'anarcoindividualismo fosse diventato una sorta di camera di decompressione nel passaggio dall'Ulivo al Polo.