rivista anarchica
anno 31 n. 274
estate 2001


lettere

 

Ancora su Leda

Il dibattito che si è svolto sugli ultimi numeri della rivista è stato di certo acceso ed interessante. Innanzi tutto, per l'appassionata competenza dei due primi partecipanti e sicuramente per le successive testimonianze riportate. Stupisce e allieta che un personaggio come la Rafanelli, per lungo tempo erroneamente considerata di secondo piano nel panorama dell'anarchismo italiano, possa provocare un tale interesse. Il rischio che è stato evidenziato, per altro, è che una discussione che la riguardi non vada oltre il confronto superficiale su temi secondari. Vi è la necessità di storicizzare quella figura di donna "singolare e affascinante", "coerente" e controversa, per trarre dalla sua biografia, dalle vicende della sua vita, l'utilità che una tale analisi può apportare in termini di comprensione dell'anarchismo italiano. Non è questa, ovviamente, la sede per condurre una simile operazione poiché la vita della Rafanelli, come è stato giustamente osservato, fu lunga e complessa. Vale la pena, comunque, di riprendere e sviluppare alcuni degli spunti emersi dalla discussione.
È evidente che la fase di maggiore attività e centralità della Rafanelli nel movimento fu a cavallo della Grande guerra quando, già matura politicamente e prima del suo progressivo allontanamento dalla militanza, svolse un ruolo di primo piano nell'ambito dell'anarchismo individualista milanese. Come ho scritto altrove (riprenderò anche testualmente considerando che le idee non si consumino se ripetute) solamente chi ha studiato e voluto comprendere lei e il suo pensiero, e personaggi come G. Monanni e soprattutto C. Molaschi, cui più di tutti ella fu legata da profonda e complice amicizia, ha potuto dare una lettura veritiera di questo periodo. E poiché non sempre – o quasi mai – gli "scrupoli … metodologici" e quelli "ideologici" si accordano, per comporre il quadro della realtà milanese del periodo si è dovuto elaborare un impianto teorico che marginalizzasse definitivamente le ricostruzioni basate su un punto di vista non obiettivo che aveva distorto questi avvenimenti, non permettendo di coglierne i reali significati. Non si è potuto, infatti, che definire, eufemisticamente, "discutibil[i] valutazion[i] storiografic[he]", quelle analisi che hanno ridotto e definito l'individualismo come una "provocazione … negativa e degenerante", che aveva costituito una "torbida pagina dell'anarchismo italiano", addirittura un "fungo malefico" frutto delle "cialtronerie degli individualisti". Queste posizioni, peraltro, erano basate su evidenti fraintendimenti metodologici, innanzitutto perché partivano considerando gli individualisti come dei "giovani borghesi assetati di nuovo, del tutto staccati dalle lotte proletarie … piccolo borghesi scontenti alla ricerca di ideali verniciati d'eroismo", quando una semplice analisi delle biografie dei protagonisti di questa parte avrebbe impedito questa malcomprensione; secondariamente perché ravvisando in Libero Tancredi il "massimo rappresentante di questo gruppo d'uomini" si giungeva perfino ad escludere gli individualisti dal movimento anarchico.
Elevando il Rocca a "Pontefice massimo" dell'individualismo, quindi, si ometteva che egli era stato eletto dai suoi presunti compagni a rappresentante di un individualismo "da sifilocomio" (dal Monanni) e a "scimpanzé dell'anarchismo italiano" (dal Molaschi).
In effetti non vi era, come è ormai evidente, un individualismo bensì degli individualismi. A questa categoria erano riconducibili ma distinte fra loro, oltre a varie individualità – fra cui il Rocca – anche quella corrente, definita anarcoindividualista, sorta colla rivista "Vir" di Firenze, sviluppatasi al contatto col fecondo terreno milanese, e mai considerata da alcuno come esterna al resto del movimento o da esso esclusa.
Con il grosso dell'anarchismo, infatti, gli esponenti di tale corrente, cioè un vasto numero della leva di militanti formatasi nel primo ventennio del secolo, condivideva i principi generali, la matrice ideologica, l'impostazione etica e, in linea di massima, le lotte. I maggiori esponenti di questa corrente, poi, con in testa Leda Rafanelli e Carlo Molaschi, due fra le figure più influenti nella Milano di quegli anni, erano generalmente apprezzati e stimati dal resto del movimento che ben si guardava dal definirli un "fungo malefico".
E questo nonostante la loro formazione culturale, solitamente di autodidatti eppure profonda, fosse stata ovviamente eterodossa, e condotta, oltre che sui classici, sui testi del Nietzsche (di cui Molaschi era buon conoscitore), di Stirner, ma anche di Ibsen e sugli scritti di culture e religioni diverse.
Dovrebbe essere superfluo ricordare, peraltro, che quelli erano anni di grande fermento culturale e anche il movimento anarchico – le giovani leve –, evidentemente era influenzato e interessato alle "novità" (basti pensare, a titolo d'esempio, agli iniziali contatti con i futuristi…).
"Noi eravamo giovani irrequieti intellettualmente e politicamente ma desiderosi di smuovere l'atmosfera plumbea imperante", scrisse più tardi Ugo Fedeli ricostruendo l'atmosfera di quel periodo di guerra, dopoguerra, delusioni e speranze di rinnovamento e rivoluzione culturale e sociale.
In questo quadro generale la Rafanelli si muoveva da protagonista e in questo periodo ella intrattenne la sua relazione con il trentenne socialista rivoluzionario direttore dell'Avanti!, uomo politico di primo piano, idolo delle folle dei lavoratori, ovviamente ambizioso, certamente affascinante – perché no? – anche agli occhi di una giovane rivoluzionaria. È peraltro più utile per valutare criticamente questa vicenda e i documenti ad essa attinenti, non riferirsi ai giudizi espressi in uno studio incentrato sull'archivio segreto del capo del fascismo – e quindi per forza di cose marginali e non sostanziati da un apparato bibliografico o documentale – bensì analizzare gli studi e i documenti riguardanti la vita di lei.
La discussione si è sviluppata, poi, soprattutto sulla religiosità della Rafanelli, sulle sue abitudini e comportamenti, per alcuni folcloristici, per altri affascinanti, e sulle contraddizioni e l'incoerenza che da questi sarebbero derivate.
Sul suo essere o meno un "modello di pensiero anarchico".
Mi sia permesso di immaginare Leda seduta sui cuscini della sua stanza in Viale Monza, tra caffè, incensi e velluti; per nulla interessata ad essere un modello di pensiero, soddisfatta com'era di essere, liberamente, anarchica.

Mattia Granata
(Milano)

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