rivista anarchica
anno 29 n.252
marzo 1999


La grande paura del 1999
di Maria Matteo

C’è un giro un’aria pesante, che l’ipertrofia informativa contribuisce ad esasperare. Eppure i dati ci dicono che...

Questo 1999 si è aperto all’insegna della paura. Una paura maligna, di cui non si comprende esattamente l’origine e che è quindi molto difficile da spiegare. Talora ho la sensazione di trovarmi di fronte ad una sorta di malattia contagiosa, una malattia che si espande per semplice contatto ed è veicolata da dicerie che si propagano a macchia d’olio senza che se ne possa individuare la fonte.
Il buon senso, la verifica razionale dei fatti possono ben poco di fronte ad un sentimento così diffuso e radicato che oltretutto, grazie alla potenza dei media, si espande con straordinaria rapidità sino a trasformarsi in un comune sentire. Sebbene sia propensa ritenere che le statistiche da cui veniamo più o meno seriamente inondati ogni giorno, non abbiano spesso maggior attendibilità dei vari sistemi inventati per agguantare i numeri giusti al lotto, tuttavia resta il fatto che i vari sondaggi recentemente fatti circolare sono concordi nel segnalare una crescita socialmente diffusa del senso di insicurezza e, quindi, della paura. Paura ad uscire la sera, paura a frequentare certi quartieri, a passeggiare nei giardini pubblici. Eppure altre statistiche, alle quali ovviamente non conferiremo certo un maggior crisma di verità, dicono che la criminalità è in diminuzione, specie per quel che concerne i reati più gravi. La correlazione che si potrebbe facilmente stabilire tra aumento della criminalità e crescita della paura, pare non avere un solido fondamento. Eppure, anche prescindendo dalle statistiche, e, ancor più, dalle campagne giornalistiche che mirano spesso ad amplificare ogni avvenimento, resta la paura. E’ sufficiente fare un giro in tram o al supermercato per coglierla nei frammenti di conversazione di chi ci sta accanto, per sentirne l’alito pesante, per coglierne il necessario corollario di pregiudizio, per intuire la ferocia che può generare.
All’inizio di quest’anno, quando a Milano in nove giorni vennero ammazzate nove persone, una al giorno - un ritmo paragonabile solo a quello dei paesi più poveri o ai bassifondi del più ricco, gli Stati Uniti - la paura è divenuta protagonista delle cronache, che l’hanno amplificata, le hanno dato un senso e una forma compiuti, identificando in modo chiaro il nemico da combattere, l’immigrato povero, meglio se clandestino.
L’identificazione tra immigrato clandestino è delinquente è ormai un luogo comune acquisito, difficilmente smontabile, foriero di provvedimenti liberticidi nei confronti non solo degli immigrati ma di tutti i cittadini.
Esemplare, per il modo in cui è stata trattata dai media, la tragica vicenda del giovane barista milanese vittima di due rapinatori. Nonostante sin dai primi momenti le cronache del fatto riportassero in maniera chiara che i rapinatori assassini fossero sicuramente italiani, nei giorni successivi i telegiornali ed i rotocalchi televisivi hanno ossessivamente riproposto piccole folle irose scagliarsi contro gli immigrati specie se albanesi.
Il processo di costruzione dell’immagine del nemico, un processo lungo che si sta ormai sviluppando da alcuni anni, è giunto, temo, a compimento. L’ipertrofia informativa anziché mostrare la realtà finisce con l’occultarla, distorcerla, porla al servizio di politiche repressive e di strategie di controllo sociale già decise da tempo sia sul piano nazionale che europeo. Da vent’anni a questa parte gli stati europei hanno prodotto un numero crescente di leggi, decreti e regolamenti su scala nazionale, cui si sono venuti affiancando diversi trattati internazionali. Nessuno di tali strumenti legislativi ha fermato l’immigrazione ma, in compenso ha contribuito a creare un gran numero di clandestini, che, è ovvio, hanno costituito una facile area di reclutamento per il lavoro nero ed altre attività extralegali.
Quel che risulta evidente a chiunque non voglia guardare la realtà sociale che lo circonda con il paraocchi è che i veri criminali non sono i clandestini ma gli stati che hanno inventato e reso possibile la clandestinità. Eppure sarebbe sufficiente osservare quel che persino la televisione ci mostra quasi quotidianamente per vedere uomini, donne e bambini tentare con ogni mezzo di fuggire la guerra, le persecuzioni, la fame e trovare sulla loro strada solo mafiosi e poliziotti di tutte le nazionalità. L’unica vera politica sull’immigrazione che lo stato italiano pratica consiste nell’affidare ai famigerati scafisti la regolazione dei flussi migratori. Chi è giovane, sano, e in grado di pagarsi il "passaggio" può entrare in Italia; gli anziani, i deboli, i bambini, rischiano di essere gettati a mare, di affogare nell’Adriatico. Per quelli che hanno la "fortuna" di arrivare ci sono poliziotti, carabinieri e guardia di finanza a costituire il comitato di accoglienza che sceglie tra quelli da respingere subito e quelli da smistare tra centri di accoglienza e luoghi di detenzione temporanea.
D’altra parte è sufficiente dare un’occhiata ai dati per rendersi conto che lo scopo dei nostri governanti non è certo quello di impedire l’immigrazione ma bensì quello di mantenerla sotto il costante ricatto della precarietà. Chi è costretto ad arrampicarsi sugli specchi per ottenere e mantenere un permesso di soggiorno, per riuscire a congiungersi con i propri familiari, è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, in qualunque condizione e certo non ha molte possibilità di organizzarsi e lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro. In questo contesto gli immigrati sono definiti, a seconda dei casi e dell’utilità propagandistica del momento, come "preziosa risorsa" (leggi: manodopera disciplinata e a buon mercato) o "criminali" (leggi: nemici da additare come responsabili del malessere sociale diffuso).
Intanto la paura cresce e con essa l’odio, la xenofobia, il razzismo. Le destre organizzano manifestazioni e le sinistre di governo promettono nuove assunzioni tra le forze dell’ordine e maggiori poteri alla polizia.

 

La fortezza Europa

Di questo passo ogni cittadino avrà il "suo" poliziotto, specie se si tiene conto del dato odierno che vede il nostro paese al primo posto in Europa per numero di poliziotti in rapporto agli abitanti (uno ogni 175). La paura rende possibile rafforzare la struttura disciplinare dello stato e non solo sul piano interno, poiché la trasformazione dell’esercito in una struttura professionale, numericamente meno consistente ma ben più efficiente da ogni punto di vista è ormai una prospettiva imminente. D’altro canto la difesa del lato sud della "fortezza Europa", assegnata all’Italia dal trattato di Schengen, non si limita certo al controllo delle "nostre" coste ma, come si è già visto e, con ogni probabilità, si continuerà a vedere, comporta l’intervento di truppe anche al di fuori dei confini. Lo status di informale "protettorato" italiano dell’Albania è ormai un dato acquisito. Missioni "umanitarie" o di "pace" saranno l’ombrello sotto cui continuerà a riproporsi la politica estera del nostro belpaese.
Da quando, a metà degli anni ’80 ed in maniera sempre più marcata nel decennio successivo, la questione migratoria ha sostituito il terrorismo ed il commercio di stupefacenti in cima alle preoccupazioni degli organismi europei deputati al coordinamento delle attività poliziesche dei vari paesi (il più importante è probabilmente il gruppo TREVI) il ruolo dell’Italia nello scacchiere europeo è divenuto vieppiù nevralgico. E la partita su questo terreno è appena iniziata.
L’immagine di fortezza assediata o, meglio, di nave abbordata da orde di pirati famelici e feroci è funzionale al rafforzamento di esercito e polizia, così come l’allarmismo sulla criminalità e l’equazione tra immigrato clandestino e delinquente.
Accade così che si moltiplichino in Europa i campi di concentramento, mentre la richiesta di legge ed ordine è vieppiù pressante.
Le cronache dell’ultimo periodo riportano la notizia dell’impressionante aumento delle morti "bianche", dei morti sul lavoro, segno inequivocabile di un peggioramento delle condizioni di lavoro e di riduzione dei margini di sicurezza; si torna a parlare di debolezza strutturale del "sistema Italia" e quindi, conseguentemente, di ritocchi ulteriori alle pensioni ed in generale di riduzione degli oneri sociali; il diritto di sciopero, specie nei servizi è sottoposto ad una "regolamentazione" paralizzante (basti pensare alle ultime, pesanti restrizioni imposte ai ferrovieri); la disoccupazione, sottoccupazione, il lavoro precario sono ormai ingredienti fissi dell’Italia sotto il segno dell’Ulivo (e della Quercia). Questi non sono che alcuni degli elementi che contribuiscono a tratteggiare un panorama sociale il cui segno distintivo è l’insicurezza, la crescente eteronomia, la difficoltà di rompere la pace sociale che Prodi e D’Alema hanno saputo garantire. Ecco quindi come tutte le energie, le tensioni finiscano con lo scaricarsi in una grande, incontrollata paura, che è facile scaricare sui più deboli, sugli immigrati, sui "famigerati" clandestini.
La paura genera mostri. E’ un vento impetuoso che soffia e spazza via ogni cosa sul suo cammino, frantuma i legami sociali, trasforma altri esseri umani in nemici da imprigionare, cacciare, combattere.

Maria Matteo

A proposito di immigrazione e criminalità

Gli immigrati coinvolti in questioni penali sono poche decine di migliaia di persone su circa un milione e mezzo di stranieri (e forse più), regolari e non, che si pensa risiedano in Italia.
I dati sugli stranieri incappati nella "giustizia" italiana mettono in luce una realtà sociale molto complicata. Per esempio, i reati commessi dagli stranieri vedono al primo posto vari tipi di falso e le contravvenzioni (per ambulantato abusivo e simili), il che mostra una situazione legata ai bisogni della sopravvivenza.
La presenza di stranieri nelle carceri è assai alta (passata dal 15% del totale del 1990 al 20% del 1996) ma va raffrontata alle statistiche che mostrano come uno straniero abbia molta più probabilità di essere condannato e di essere incarcerato di un italiano: in carcere finiscono due stranieri su tre denunciati mentre per gli italiani la media è di uno a sette. Gli stranieri si trovano in una condizione di evidente inferiorità: non conoscono o conoscono poco la lingua italiana, non conoscono i loro diritti, non possono contare su avvocati di fiducia ma solo su distratti avvocati di ufficio, non beneficiano di pene alternative, ecc.

La commissione dell’ONU per i diritti umani, nel marzo del 1998 ha segnalato che le forze dell’ordine dello stato italiano sono colpevoli di "gravi percosse contro immigrati e zingari" mentre nel rapporto annuale di Amnesty International, pubblicato nel giugno 1998, l’Italia è accusata di usare "maniere forti e brutalità gratuite soprattutto contro cittadini non europei".
Il dipartimento di sociologia dell’Università di Roma ha segnalato che nel 1996 gli stranieri vittime di aggressioni razziste sono stati 111, ossia uno ogni tre giorni. Sono dati impressionanti, specie se si tiene conto che ricerche precise ed affidabili su scala nazionale non esistono, che le denunce dei soprusi sono rare, poiché, come segnalava uno studio dell’Osservatorio sul razzismo del Comune di Bologna in un suo rapporto del 1997 il 37% dei casi di discriminazione avvenuti in città erano opera delle "forze dell’ordine" e andavano dagli abusi nel corso di perquisizioni nei centri di accoglienza, ai maltrattamenti fino allo stupro.