Rivista Anarchica Online
Intervista a Luce Fabbri
a cura di Giampiero Landi
Sono passati 53 anni da quando Luce Fabbri, ventenne, appena laureata con una tesi (inedita)
sull'opera geografica di Eliseo Reclus, abbandonò definitivamente l'Italia per raggiungere i suoi
genitori in Francia. Suo padre, Luigi, era stato infatti costretto ad espatriare qualche anno prima,
per sfuggire alle aggressioni e alle persecuzioni fasciste. In Francia, però, i Fabbri rimasero
ancora per poco, perché nel '29 l'espulsione di Luigi dalla Francia li costrinse, dopo una breve
sosta in Belgio, ad emigrare oltreoceano a Montevideo, in Uruguay. Qui Luce fissò la sua dimora
e qui ancora risiede. Dopo la morte del padre (1935), Luce continuò la sua attività proseguendo
fino al '46 la
pubblicazione della rivista Studi Sociali, da lei in massima parte compilata, sostituita poi da una
collana di opuscoli. Ha pubblicato inoltre: Gli anarchici e la rivoluzione spagnola, C. Frigerio,
Ginevra 1938 (insieme con Diego Abad De Santillan); La libertà nelle crisi rivoluzionarie,
Studi
Sociali, Montevideo 1947; L'anticomunismo, l'antiimperialismo e la pace, Studi Sociali,
Montevideo 1949; La strada, Studi Sociali, Montevideo 1952; Sotto la minaccia
totalitaria, RL,
Napoli 1955; Problemi d'oggi, RL, Napoli 1958. Ha pubblicato inoltre in lingua spagnola:
Camisas Negras, Nervio, Buenos 1934; El totalitarismo entre las dos guerras, Buenos
Aires; La
libertad entre la historia y la utopia, Rosario De Santa Fe. Luce Fabbri ha collaborato per anni
intensamente alla pubblicistica anarchica, in particolare a quelle uruguayana e argentina durante
la guerra civile spagnola e a quella italiana (in particolare alla rivista Volontà). Durante la
seconda guerra mondiale compilò in italiano Rivoluzione libertaria (5 numeri di un giornale
da
mandare clandestinamente in Italia) e, subito dopo, la pagina italiana di Socialismo y libertad, un
periodico trilingue edito a Montevideo su posizioni socialiste antiautoritarie. Per molti anni ha insegnato storia
alle secondarie uruguayane e letteratura all'Università.
D'argomento letterario ha pubblicato La poesia di Leopardi, Montevideo 1972, nonché vari
studi
più brevi su Dante, Machiavelli e Foscolo, e numerosi articoli di critica letteraria e sui problemi
dell'insegnamento. Da quel lontano 1928, Luce Fabbri è rientrata in Italia solo due volte, per brevi
periodi. La prima
fu nel '54, la seconda la scorsa estate: nel corso di questa sua recente visita (si è trattenuta in
Italia un mese e mezzo) abbiamo avuto modo di incontrarla. Con questa anziana (73 anni) e
lucidissima compagna abbiamo a lungo parlato della sua vita, delle sue esperienze e soprattutto
del suo pensiero, formatosi alla scuola attenta e rigorosa di suo padre. Ciò che più ci ha colpito in
lei è la feconda convivenza di un'eccezionale cultura storica e letteraria e di una massima
apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro. Certo la situazione politica
uruguayana, soprattutto nell'ultimo decennio, ne ha accentuato l'isolamento, non solo rispetto alla
situazione italiana e alle vicende del nostro movimento. Ma Luce Fabbri ha continuato la sua
opera di studio, di rimeditazione delle vicende storiche e di analisi della realtà contemporanea,
attingendo alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero "critico". L'intervista che pubblichiamo in
queste pagine - realizzata, come la biografia di Luigi Fabbri, dal
compagno Giampiero Landi - conferma, a nostro avviso, l'importanza del contributo che Luce
Fabbri ha dato e ancor oggi continua a dare all'anarchismo. Basti ricordare che è stata lei una dei
primi a sviluppare in campo anarchico una teoria organica della tecnoburocrazia, a partire
dall'analisi comparata del fascismo e del leninismo/stalinismo: ne fa fede anche la citazione
datata 1937 che abbiamo tratto da un suo scritto su Studi Sociali (le altre sono tratte
invece dal
volumetto Sotto la minaccia totalitaria del '55). Il dato che maggiormente ci preme di sottolineare,
in questa intervista, è la profonda tensione
morale che l'attraversa e che sottende all'intera concezione anarchica di Luce Fabbri. Le
considerazioni di suo padre e sue sulla violenza rivoluzionaria, per esempio, si collocano nel
solco profondo e preciso dell'etica anarchica, che nulla deve concedere al violentismo di maniera,
al ribellismo esasperato, alla mitizzazione della violenza. Il suo esplicito "desiderio" di arrivare
ad una concezione non violenta e le obiezioni che continuamente si fa sono i due termini di una
concezione equilibrata della violenza, tutta dentro alla problematica affrontata da Malatesta (ed
in particolare dal Malatesta degli ultimi anni). La tensione che deriva da questo contrasto, lungi
dal paralizzare l'efficacia dell'anarchismo, ne determina quella tensione etica che ne costituisce la
prima ragion d'essere. Da queste pagine Luce Fabbri lancia dunque un messaggio di grande
valore umano, sociale, anarchico. Questo nostro apprezzamento di fondo per la concezione e l'opera anarchica
di Luce Fabbri non
può significare ovviamente incondizionata adesione al suo pensiero. Vi sono passi dell'intervista
che non ci trovano d'accordo. La sua critica del ministerialismo spagnolo del '36, per esempio,
fiacca: numerosi studiosi (Vernon Richards e Carlos Semprun Maura, per citarne solo due) hanno
dimostrato che la questione era ben più profonda e complessa che quella di una scelta del
momento pro o contro la partecipazione al governo; e la loro critica al ministerialismo si è mossa
nella direzione, ben più proficua, di analizzare i meccanismi organizzativi e decisionali
dell'anarchismo spagnolo. Un altro punto sul quale Luce Fabbri non ci convince è laddove si
esprime in favore della difesa delle democrazie, delle istituzioni democratiche. L'istintiva
necessità e la razionale volontà di battersi sempre e ovunque per il massimo di libertà
possibile
non deve essere confusa (anche se può momentaneamente esservi sovrapposta) con una strategia
di difesa di quelle istituzioni democratiche che l'anarchismo ha invece il compito di
demistificare. Anche la sua eccessiva fiducia nel cooperativismo ci trova freddi, per l'esperienza
che ne abbiamo qui in Italia. Abbiamo qui solo accennato qualche punto di dissenso, o comunque di necessario
chiarimento,
con alcune affermazioni di Luce Fabbri. Su altri argomenti (in primis quello già citato della
violenza) le nostre concezioni sono sostanzialmente simili. Quel che è certo è che nelle sue
risposte Luce Fabbri ha modo di affrontare alcuni dei nodi centrali del pensiero anarchico,
sempre fornendo elementi utilissimi per un lucido ripensamento autocritico. La volontà di fondo
che traspare dalle sue parole è quella di innestare sul "vecchio" tronco dell'anarchismo, ripulito
dei rami secchi, i germogli più fecondi per assicurarne la massima vitalità. Saldamente ancorati
al filone "centrale" dell'anarchismo storico (quello malatestiano, tanto per intenderci), ma al
contempo spinti a svilupparlo ed arricchirlo alla luce delle mutate condizioni storiche e delle
nuove acquisizioni del pensiero (psicologico, sociologico, ecc.), anche noi ci muoviamo da
tempo su questa strada. La pubblicazione di questo servizio dovrebbe, a nostro avviso, stimolare
il dibattito nel movimento anarchico, su temi quali lo Stato, la democrazia, la violenza, ecc.. Sarà
possibile?
Quando morì Luigi Fabbri, Studi Sociali uscì con un numero quasi
interamente dedicato
alla sua figura. Di tuo apparve solo un articolo sul comportamento di tuo padre nella vita
privata, in famiglia e in particolare coi figli. Anche successivamente hai scritto poco sulla
vita di tuo padre. Perché?
Ho sempre avuto una ritrosia a scrivere di mio padre, per il timore di non riuscire ad essere
completamente obiettiva nei giudizi. Solo rarissimamente le biografie di personaggi scritte dai
figli riescono a raggiungere il distacco necessario per una valutazione storica. L'unico argomento
su cui mi sento di parlare tranquillamente è appunto il comportamento privato di mio padre.
L'articolo apparso in Studi sociali si intitolava "L'educatore". Credo che questa fosse una delle
caratteristiche più notevoli di mio padre: la coerenza straordinaria tra le sue idee e il suo
comportamento in famiglia. Ha sempre ritenuto che uno dei primi doveri di un anarchico sia
quello di essere anarchico in famiglia, cioè il realizzare i propri principi nell'ambito ristretto della
famiglia che è già una prima creazione. Noi non abbiamo mai sentito da lui una parola
autoritaria. Quando ci diceva di non fare qualcosa, lo diceva sempre in forma di consiglio, e
sempre aggiungeva: "pensaci, devi convincerti; non ti chiedo ubbidienza, ti chiedo di riflettere".
In genere noi finivamo con l'accettare il suo consiglio. Mi diceva: "non leggere ancora questo
libro, è prematuro", e io solitamente non lo leggevo, mentre molto spesso i miei compagni di
scuola davanti a una proibizione leggevano di nascosto. Qualche volta mi sono anche ribellata e
ho letto lo stesso: mi ha lasciato fare. Nella sua attività di maestro mostrava la stessa sensibilità
libertaria per il rispetto della
personalità dei ragazzi. So che nell'aula i primi giorni incuteva un certo timore, perché aveva la
voce potente, e che poco dopo invece gli volevano tutti bene e questo timore spariva
completamente. Un episodio che può essere sintomatico risale ai primi anni del fascismo. Faceva
lezione a Corticella e tra i suoi alunni c'erano parecchi figli di benpensanti che erano fascisti; i
primi giorni questi ragazzi arrivavano con il distintivo fascista all'occhiello o con altri distintivi
allusivi; dopo pochi giorni i distintivi sparirono tutti, senza che lui avesse mai - di questo sono
ben sicura - accennato a questioni politiche in classe. Si trattava di una manifestazione di rispetto
nei suoi confronti, indipendentemente da una sua richiesta. Era appunto l'effetto del suo
prescindere da ogni ragionamento politico, da ogni accenno alla situazione che si stava vivendo
in quel momento, che era angosciosa e che trascinava tutti. Cominciava la lezione, e già si viveva
in un'atmosfera di serenità.
Tuo padre, pur non essendo un educazionista nel senso proprio del termine, ha dato
sempre un notevole rilievo ai problemi educativi, occupandosi della pedagogia libertaria sia
nei suoi aspetti storico-teorici, sia nelle realizzazioni sperimentali che venivano da più parti
effettuate. Si può ricordare in proposito la collaborazione che egli stabilì nei primi anni del
secolo con Ferrer. A tuo avviso si può parlare di una perfetta concordanza con Ferrer,
oppure vi erano diversità sul piano teorico e pratico?
Direi senz'altro che vi era una certa diversità di vedute. Vi era una concordanza sui problemi
fondamentali, però con sfumature differenti. Anzitutto mio padre preferiva la scuola pubblica:
pensava che quando si può, è meglio lavorare nella scuola di tutti. Naturalmente le condizioni
della Spagna erano molto diverse da quelle dell'Italia. In Italia non c'era la scuola confessionale,
quindi i problemi erano diversi. Probabilmente su quel piano non c'era una vera differenza, ma
solo una diversità di ambiente, di possibilità. Poi direi che mio padre era meno positivista, meno
sicuro dell'infallibilità della scienza, più eclettico; su certi problemi era più agnostico che
negatore.
Luigi Fabbri ha svolto un'attività straordinaria, oltreché con libri e opuscoli, con
una
produzione giornalistica che si è susseguita per tutta la vita, e sempre a un notevole livello.
Prima di inserirsi nella scuola, tentò anche di fare del giornalismo la sua professione. Per
quale motivo rinunciò a questo progetto?
Aveva una capacità di lavoro fantastica. Scrisse per un certo periodo anche per "Il Messaggero".
Abbandonò la professione perché ad un certo momento si accorse che il vivere della penna
implica non essere indipendente in quello che con la penna si dice, e che bisogna avere un'altra
fonte di guadagno per potere scrivere esattamente nel senso delle proprie idee. Arriva un
momento in cui chi paga si attribuisce diritti anche sul contenuto. D'altra parte, sul terreno
dell'attività specificamente anarchica, avvertiva il rischio di diventare un militante di professione.
Ha sempre consigliato ai giovani compagni che volevano lasciare tutto per dedicarsi alla
propaganda e all'azione militante, di continuare a studiare, di cercare di imparare bene il
mestiere, per avere un lavoro e per non dovere dipendere dal movimento per la continuità della
propria esistenza. Lui ha dovuto in alcuni momenti dipendere dal movimento. Quando siamo
arrivati in Sud America, evidentemente, nei primi tempi ha vissuto grazie alla sua collaborazione
alla "Protesta"; però ha cercato immediatamente altre fonti di guadagno col proprio lavoro di
insegnante, e quando non potè, si mise a vendere libri. Voglio aggiungere che non era affatto un
buon oratore. Aveva una straordinaria scioltezza con la penna, ma non altrettanto con la parola.
In fondo era timido. Però ricordo che qualche volta ha parlato in pubblico. Nel primo
dopoguerra, all'epoca dei comizi, anche lui prendeva la parola, e inoltre parlava nelle assemblee e
nei Congressi, per esempio quando si fondò l'Unione Anarchica Italiana.
Leggendo gli scritti di Luigi Fabbri è possibile notare una profonda conoscenza del
Risorgimento italiano, nei suoi personaggi e avvenimenti, e una notevole simpatia, non
esente ovviamente da critiche, per i rappresentanti delle correnti democratiche e
repubblicane risorgimentali: non solo i federalisti Cattaneo e Ferrari, ma lo stesso Mazzini.
Che peso ha avuto questo nella formazione filosofica e culturale di tuo padre?
Egli riteneva che perlomeno in Italia le tendenze socialiste, soprattutto quelle di ispirazione
libertaria, fossero una continuazione delle tendenze più libere del Risorgimento. Lui aveva
origini mazzinane, come d'altra parte Malatesta. Di Mazzini mio padre aveva ripreso l'idea del
dovere: l'idea che per conquistare e per mantenere la libertà, il dovere è più importante del
diritto.
Osservare i doveri è più importante che rivendicare i diritti: è un concetto mazziniano.
Concepiva
la vita come missione. Qui trova una spiegazione la sua tenacia, la spinta ad andare avanti anche
nei momenti più cupi, quando sembrava che la Storia andasse in senso contrario ai suoi desideri.
Il dovere è questo: data quella che si crede che sia la verità, il dovere è attenervisi malgrado
tutto.
sindacalismo e libera sperimentazione
Qual era l'atteggiamento di tuo padre nei confronti del sindacalismo e dell'organizzazione
operaia?
Fin dove rimontano i miei ricordi direi che mio padre non è mai stato sindacalista in senso
proprio. Lui è stato sempre partigiano del sindacato unico. Sosteneva la necessità di lavorare in
seno all'unione di tutti i lavoratori della categoria, facendo la propria propaganda dentro un
organismo che raggruppasse i lavoratori di tutte le opinioni. Anche quando più spingeva per
l'organizzazione operaia, si trattava di un'organizzazione non tipicamente anarchica, come invece
avveniva per esempio in Spagna, dove esisteva un sindacalismo anarchico. Al contrario lui
riteneva che la cosa migliore fosse la coesistenza distinta dei gruppi anarchici organizzati su base
ideologica, e del sindacato organizzato su un piano esclusivamente operaio di lotta contro i
padroni. È sintomatico che, pur apprezzando gli sforzi di Borghi e degli altri compagni entrati
nell'USI, egli nel primo dopoguerra preferisse aderire alla C.G.d.L.. Negli ultimi anni, in Sud
America, il problema si ripropose. Egli dovette sostenere polemiche con anarcosindacalisti locali,
che vedevano nella F.O.R.U. (Uruguay) e nella F.O.R.A. (Argentina) la soluzione del problema
di quella che chiamavano la "militanza rivoluzionaria". C'erano molti in Argentina che non
ammettevano neppure i gruppi. Dicevano che il sindacato anarchico era sufficiente.
In quest'ultimo periodo forse, al di là delle concezioni teoriche sulla funzione dei sindacati,
vi era anche una percezione della trasformazione che il sindacalismo e la classe operaia
avevano subito nel corso dei decenni.
Naturalmente. C'era quello e c'era anche un'altra cosa: la convinzione profonda della necessità
della tolleranza reciproca fra le diverse tendenze rivoluzionarie. Io credo che non fosse arrivato a
un superamento completo del classismo, ma era su quella strada. Quando è morto era ancora
giovane.
Nell'ultimo periodo della sua vita Fabbri ha dato molto rilievo al concetto della libera
sperimentazione, inteso come coesistenza di più tendenze che confrontano sul piano dei
fatti le loro creazioni e che di volta in volta possono anche collaborare insieme a imprese
comuni, in uno spirito di tolleranza. Mi sembra che questa concezione egli non intendesse
applicarla solo all'interno del movimento anarchico, ma anche nei rapporti tra le varie
forze antifasciste.
Egli era decisamente pluralista. Nel campo della lotta, e anche della ricostruzione post-rivoluzionaria, non
pensava a una soluzione unica dei problemi. Anche se fino all'ultimo si
ritenne un comunista anarchico, non pensava che quella dovesse essere la soluzione unica, perché
evidentemente se si presenta come soluzione unica deve essere una soluzione di tipo autoritario.
Egli pensava ad esempio che la piccola proprietà agraria che non implica sfruttamento,
soprattutto in regioni in cui essa risponde alle caratteristiche del suolo, come in montagna, non
dovesse essere toccata; si poteva naturalmente fare opera di persuasione per un'eventuale
collettivizzazione, ma finché non ci fosse uno sfruttamento di manodopera sottomessa, si doveva
rispettare. L'uniformità gli ha sempre fatto paura. Pur sostenendo il pluralismo delle tendenze, riteneva
importante mantenere distinzioni precise,
senza confusioni. Non ha mai amato le riviste e i giornali eclettici nel movimento, e le
pubblicazioni da lui fondate erano anzi nettamente indirizzate. Quando gli proponevano di
pubblicare articoli di tendenze diverse rispondeva: "Bisogna creare un altro giornale. Questo è
stato fatto per sostenere questa linea". Se pubblicava qualcosa di altre tendenze la faceva seguire
sempre da un commento, da una discussione. Riguardo i rapporti con le altre forze antifasciste, ritengo che meriti
di essere ricordata la risposta
che egli diede all'inchiesta promossa da "Giustizia e Libertà" sulla tattica futura delle diverse
tendenze, dopo che il fascismo fosse stato sconfitto. Egli sostenne che l'atteggiamento del
movimento anarchico sarebbe dipeso a suo avviso soprattutto dalla libertà d'azione e di
sperimentazione che le tendenze maggioritarie avrebbero concesso alle minoritarie. Nel campo
antifascista l'anarchismo era evidentemente una tendenza minoritaria in quel momento.
di fronte a "Giustizia e Libertà"
Tuo padre seguì con attenzione e una certa simpatia, per quanto critica, la nascita, con
"Giustizia e Libertà", di un movimento che si richiamava al socialismo di Rosselli. Potresti
precisare il suo atteggiamento nei confronti di "G. e L."?
"G. e L." è sorta in un momento molto difficile, su un terreno molto vicino a noi. Noi eravamo
già in America, ma erano i primi tempi, e si viveva ancora nell'atmosfera francese. L'esilio creava
una fraternità speciale, è una questione biografica, non ideologica. Ha creato anche dei dissensi,
come sempre succede, a volte molto violenti. Ma a Parigi, ricordo, c'era una comprensione
reciproca tra le diverse tendenze antifasciste, o meglio tra le diverse persone. È evidente che la
tendenza di "G. e L." era quella che più si avvicinava a noi. Erano socialisti, e al tempo stesso
molto preoccupati della sussistenza della libertà in seno alla rivoluzione. Mio padre naturalmente
avvertiva che bisognava stare attenti a non considerare "G. e L." come un movimento libertario,
in quanto essa continuava a muoversi sul piano delle istituzioni tradizionali parlamentari, con
idee molto nuove, però sempre nell'ambito di uno schema democratico tradizionale. Era questo
che suscitava in lui certe diffidenze per il futuro ma aveva molta simpatia per le persone, per la
loro buona fede e anche vedeva con molto piacere l'avvicinamento di questa tendenza, che era
socialista, a posizioni di tipo quasi libertario, soprattutto in un momento in cui il dogmatismo
comunista si faceva sentire in modo piuttosto forte ed esercitava un certo fascino perché
sembrava più efficace nella lotta antifascista. Era un modo di uscire dalla strettoia di un
assolutismo che suscita l'assolutismo contrario. Quello che preoccupava mio padre era ciò che
"G. e L." avrebbe realmente fatto all'indomani di un movimento antifascista trionfante se fosse
stata maggioritaria di fronte alle altre tendenze, e avesse avuto il potere, o una parte del potere
nelle mani.
violenza, furto, banditismo
Tuo padre ha sofferto molto per l'esperienza dell'esilio? In Sud America è riuscito a
inserirsi nell'ambiente dei compagni?
L'esilio gli è pesato moltissimo. Lui era attaccatissimo all'Italia, agli amici, alla sua biblioteca, e
veramente doverli lasciare è stato un sacrificio terribile. A Montevideo aveva intorno a sé un
gruppo di compagni soprattutto italiani, ed ebbe relazioni molto cordiali con numerosi altri.
L'Uruguay era un paese accoglientissimo. Attraversava in quel momento condizioni difficili dal
punto di vista economico, c'era una crisi molto forte. Noi avemmo subito appoggio morale e
aiuto materiale da parte di compagni ed amici, da parte anche di persone che non erano proprie
del nostro campo. Le nostre idee nell'Uruguay erano molto popolari, molto appoggiate. Avevano
attorno a sé tutta un'aureola tradizionale, perché erano state il punto di partenza del movimento
operaio. Avere delle idee significava essere anarchici. "Anch'io da giovane avevo delle idee", ci
dicevano, e voleva dire "sono stato anarchico". S'è trovato però in dissenso teorico, con molti
compagni latino-americani, sulla questione sindacale, cui ho già accennato. Poi c'è stato un
motivo di tristezza supplementare per il fatto che dal gruppo anarchico italiano di Buenos Aires
era partito un fenomeno di banditismo legato al nome di Severino Di Giovanni, che fu molto
amaro, per lui anzi amarissimo. Voglio appunto approfittare dell'occasione per fare alcune
precisazioni. È uscito un libro di Osvaldo Bayer su Di Giovanni. Si tratta di un buon libro, ma
presenta mio padre come difensore di Di Giovanni, sulla base di una lettera che mio padre
effettivamente scrisse, ma non tiene conto poi di tutto il resto, che evidentemente Bayer ha
ignorato. Mio padre si oppose al fenomeno del banditismo in modo molto energico fin dal primo
momento. Scrisse quella lettera in difesa di Di Giovanni, e partecipò nello stesso senso a un giurì
posteriore, perché Di Giovanni stesso era stato accusato di essere un agente della polizia, con
un'evidente falsità. Evidentemente era la passione del momento che aveva portato i compagni
della "Protesta", il quotidiano anarchico di Buenos Aires, a esagerare. Volevano dire che Di
Giovanni faceva il gioco della polizia. Questo era vero, perché metteva in cattiva luce il
movimento e rendeva più popolari, o meno impopolari, le persecuzioni contro gli anarchici, ma
ciò non significava che egli fosse un agente. In conseguenza di quest'accusa ci fu l'assassinio di
Lopez Arango, il direttore della "Protesta", posteriore alla lettera di mio padre. Il fatto suscitò in
mio padre una indignazione tale che egli scrisse un articolo in cui lo definiva un episodio di tipo
fascista. L'articolo provocò minacce serie di Di Giovanni contro di lui. Mandò a dire che stesse
bene attento, perché egli era pronto a passare il fiume, cioè ad andare da Buenos Aires a
Montevideo. Credo quindi che non si possa sostenere che mio padre abbia difeso Di Giovanni, e
meno ancora il fenomeno come tale. L'ha difeso sul terreno su cui pensava che fosse da
difendere, cioè sul terreno della verità di fronte a un'accusa infamante che Di Giovanni
evidentemente non meritava. Ma considerava addirittura disastroso per il movimento quel
fenomeno.
A tuo avviso era soltanto una divergenza di opportunità politica, oppure vi erano anche
motivazioni etiche?
Non era una questione di opportunità. Lui aveva scritto un opuscolo, "Infiltrazioni borghesi
nell'anarchismo", in cui sosteneva che il furto è un'infiltrazione borghese, un fenomeno di
parassitismo di tipo borghese nell'anarchismo. Aveva in realtà una ripugnanza di carattere morale
per quel tipo speciale di sfruttamento che è il vivere senza lavorare appropriandosi del frutto del
lavoro degli altri. In realtà si tratta di un fenomeno dello stesso tipo del capitalismo. E non solo:
riconosceva che potevano esserci della generosità, del disinteresse e della purezza, come
indubbiamente c'erano, in alcuni che approvavano e mettevano in pratica quel metodo, ma che
esso rovinava gli altri; aveva un effetto pedagogicamente negativo sul movimento e soprattutto
sui giovani che potevano entusiasmarsi per quella tattica. Inoltre un fenomeno di quel tipo attrae i
delinquenti comuni che praticano il furto per interesse, e che vedono nel dichiararsi anarchici o
rivoluzionari una giustificazione, un modo di continuare la stessa vita però in un'aureola
particolare, di essere aiutati come vittime politiche quando cadono nelle mani della polizia.
Come collochi tuo padre nell'anarchismo? Ritieni che abbia portato dei contributi teorici al
pensiero libertario?
Egli si considerava un divulgatore, e se si può dire così, un completatore e sistematizzatore del
pensiero di Malatesta: un sistematizzatore, perché Malatesta non era sistematico, scriveva sempre
sotto lo stimolo della necessità del momento. Mio padre più volte ha cercato di portarlo su un
piano di elaborazione teorica sistematica, e Malatesta si è sempre schermito dicendogli: "per
quello ci sei tu". Insieme formavano un tandem molto efficiente. Mio padre diceva di essere solo
quello. Io non ne sono completamente convinta. Ritengo che egli abbia portato un contributo
teorico, su un piano direi umanistico, di maggior contatto con le fonti anche letterarie. Malatesta
non citava quasi mai; mio padre ha avuto sempre la tendenza a ricollegare. Nel 1926, durante il
fascismo, quando ci furono vari sequestri successivi e praticamente Pensiero e Volontà non
poteva uscire, compilò da solo un numero interamente pieno di citazioni di classici (Machiavelli,
Foscolo, Dante ecc.) che naturalmente non potevano essere sequestrati, ed erano tutti inni alla
libertà. Lui sentiva molto quell'aspetto, il collegamento con tutta la storia della cultura. Questo fa
sì che il pensiero malatestiano acquisti in lui un tono personale. Poi direi che in quei due o tre
anni che ha sopravvissuto a Malatesta, ha pensato molto sul problema della violenza, sulle radici
morali dell'anarchismo. Era arrivato alla conclusione che l'amore è più anarchico della stessa idea
di giustizia. Negli ultimi anni lavorava intorno a questo problema, ci pensava molto. Mi diceva
che bisogna estendere alla società quel fattore che c'è nella famiglia, dove spontaneamente il
debole ha dei diritti perché è debole. È protetto dagli altri che sono più forti. I
genitori si
preoccupano dei bambini perché questi non si possono difendere da soli. Questo amore reciproco
dà un tipo di organizzazione naturale che rende possibile l'esistenza di tutti. È di lì che
bisogna
partire. Vorrei dire un'altra cosa su mio padre. Credo che sia molto importante la sua campagna contro la
guerra nel 1914-15. Parlando di lui, credo sia una cosa significativa e caratteristica la sua
disperazione di fronte alla possibilità prima dello scoppio di una guerra in generale, e poi
dell'entrata dell'Italia in guerra. Egli ha preveduto gli effetti della guerra, le sofferenze umane e
gli sbocchi involutivi sul piano politico, e ha cercato di fare tutto quello che poteva per
contribuire ad evitarla, in modo veramente disperato. Pensava che fosse una lotta in cui valeva la
pena di bruciarsi tutti perché ci fosse risparmiata quella prova terribile. Mi pare che sia uno dei
punti più importanti nella vita di mio padre, perlomeno un punto di vista biografico, perché lo
scoppio della guerra ha costituito per lui una scossa profonda.
sotto la minaccia totalitaria
Nel tuo opuscolo "Sotto la minaccia totalitaria", dopo una chiarificazione dei termini del
linguaggio politico che avevano perso nel corso delle vicende dell'ultimo secolo gran parte
del loro significato, e dopo aver definito esattamente e storicamente che cosa significano
liberalismo, socialismo, democrazia e anarchia, tu arrivi a sostenere che l'anarchismo è
l'erede della parte migliore del liberalismo e del socialismo. Esiste una continuità, a tuo
avviso, tra questo tuo giudizio e il pensiero di tuo padre? Condividi ancora quella tua
opinione?
Direi di sì in tutti e due i casi. Io sento questa posizione come una continuazione del pensiero di
mio padre. Eravamo d'accordo in quel campo. Lui mi ha educato sugli scrittori liberali, mi ha
messo nelle mani i loro libri, mi ha interpretato la rivoluzione francese in senso liberale. In seno
al processo rivoluzionario del secolo scorso c'è una tradizione giacobina e una liberale. Mio
padre si riattaccava piuttosto alla tradizione liberale. Non vorrei che il termine inducesse a un
equivoco. Nell'opuscolo definivo liberalismo "la dottrina che si preoccupa della difesa della
personalità individuale e considerando lo Stato come un male (il liberalismo classico lo
considerava come un male necessario) cerca di limitarne le attribuzioni, di diminuirne il potere".
In Italia oggi, come quando scrissi l'opuscolo, liberalismo è termine ambiguo. Nell'opinione
pubblica è diventato sinonimo di conservazione sociale, di difesa della proprietà privata e del
capitalismo. Questo significato è abusivo. Il termine liberalismo non lo implica, e non lo ha
implicato in passato. Diciamo che quelli che hanno ereditato il termine lo hanno ereditato male.
Per fortuna in italiano abbiamo il termine "liberismo" per riferirsi alla libera impresa, o per
meglio dire, all'impresa privata, che non è affatto libera. Quindi posso dire che quello a cui mi
riferisco è un liberalismo che non ha niente a che vedere con il liberismo.
Anche il socialismo liberale che si ispira a Rosselli ha la pretesa di occupare lo stesso
spazio, di essere la sintesi delle stesse due correnti di pensiero. Quali sono allora i rapporti
tra socialismo liberale e anarchismo?
Secondo me l'anarchismo, come l'intendo io, come l'intendeva anche mio padre, e mi pare anche
Malatesta, vede il problema in modo più chiaro. L'anarchismo è uscito dagli schemi tradizionali
delle istituzioni democratiche sorte nel secolo scorso, a partire dalla rivoluzione francese, per
mettere la questione su un terreno diverso, sgombro da tante eredità. Il socialismo liberale si
ferma a metà, non porta il processo alle sue estreme e più coerenti conseguenze. Io trovo che il
socialismo liberale, così come si è posto storicamente, è troppo legato al gioco delle
istituzioni
tradizionali. Il suo fine mi sembra più nebuloso. Ritengo possibile, probabile, che i metodi
adottati possano portare i socialisti liberali fuori strada. Anche questo può marcare una
differenza: la coerenza mezzi-fini che contraddistingue l'anarchismo. Non escludo però, e non lo
escludeva mio padre, che ci possa essere una convergenza tra i due movimenti; questo dipenderà,
più che dal movimento libertario, dal maggiore o minore distacco dei socialisti liberali dalle
strutture tradizionali.
i ministri anarchici
Durante la rivoluzione spagnola taluni comportamenti della CNT-FAI, in particolare
l'ingresso di ministri anarchici nel governo, provocarono aspre critiche nel movimento
anarchico di tutti i paesi. Tu hai assunto all'epoca, e anche successivamente, un
atteggiamento di sostanziale comprensione nei confronti di quei compagni spagnoli. Qual è
precisamente la tua posizione?
Si è trattato appunto di comprensione, non approvazione. Evidentemente io ritengo che l'ingresso
nel governo non è stato un atto anarchico; è stato uno di quegli atti di compromesso che si
compiono sotto l'impero delle circostanze. È stato commesso in buona fede, con l'impressione di
non poter fare altrimenti. È difficile per noi dire se sarebbe stato possibile o no fare altrimenti e
non credo che noi che stavamo fuori, che non soffrivamo l'urgenza terribile del dilemma, e che
non abbiamo fatto probabilmente tutto quello che si poteva fare per aiutare dall'esterno, abbiamo
il diritto di condannare. Possiamo però osservare il fatto per trarne insegnamenti, e notare che è
stata un'esperienza che ci dà ragione, in quanto gli anarchici al governo hanno sperimentato
direttamente, a spese loro, la non creatività del potere. Pur essendo personalmente integri e dotati
di buona volontà, i "ministri anarchici" non sono stati in grado di fare qualche cosa in senso
rivoluzionario. Federica Montseny probabilmente ha realizzato qualcosa al ministero della
Sanità, nel campo degli ospedali, dell'igiene, ecc., ma non sul terreno della creazione
rivoluzionaria, della creazione di un mondo nuovo. Gli altri poi, in ministeri politicamente meno
neutri, non hanno fatto assolutamente niente. Garcia Oliver ha fatto delle leggi, dei decreti, che
sono restati lettera morta. In tutta la Catalogna e l'Aragona con le collettività è sorto un mondo
nuovo, però dal governo non è stato possibile realizzare niente. Tutto si è ridotto a questo:
occupare un posto che poteva occupare un altro che avrebbe potuto fare del male. Nel dar un
giudizio, va tenuto conto del fatto che la decisione molto sofferta di entrare nel governo e di
sciogliere il comitato delle Milizie, è avvenuta in un secondo tempo, quando la guerra civile si
era trasformata in guerra internazionale, e i lavoratori spagnoli da soli non potevano più vincere.
La guerra uccide la rivoluzione. Così è successo per tutte le rivoluzioni del passato. La guerra
è
sempre un fatto antilibertario, di per se stessa, perché crea la necessità di un'organizzazione in un
certo senso totalitaria. Un clima di libertà non è un clima di guerra.
Tu sei stata la prima a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana lo studio del
fenomeno tecnoburocratico. Già in alcuni articoli di Studi Sociali, e poi in tutti i tuoi
opuscoli, esponi la convinzione che il mondo si trovi di fronte a una trasformazione
decisiva: la fine del capitalismo tradizionale, e per certi aspetti della stessa democrazia
tradizionale, e l'avvento di una nuova classe al potere, formata da tecnici e burocrati, con
numerose varianti nei vari paesi. Un tipo di analisi che nel movimento anarchico in Italia
verrà ripreso e sviluppato solamente a partire dagli anni '60 da gruppi inizialmente molto
ridotti, arricchendosi col tempo di contributi sempre più articolati e complessi. Come
arrivasti a quelle conclusioni?
Anzitutto mediante tutta una serie di letture: l'opera che più mi ha impressionata è "La
rivoluzione dei tecnici" di Burnham; nel Nord America c'erano riviste molto interessanti; poi la
corrente francese del "Movimento dell'Abbondanza" (Rodrigues, Valois, ecc.), che oggi appare in
molti aspetti obsoleta, perché l'abbondanza non è stata affatto raggiunta, ma quando è nata
ha
suscitato una quantità di analisi collaterali sulle trasformazioni in atto; sempre in Francia, lo
stesso movimento cattolico di Mounier, il personalismo, ha condotto analisi su questi problemi;
infine, più tardi, è apparsa "La nuova classe" di Gilas. Io leggevo queste cose. Poi vi era
l'osservazione della realtà, indipendentemente dagli studi. La crisi capitalista è stata analizzata in
modo diffuso. Ci sono state discussioni tra economisti, sui giornali. Nell'Uruguay a un certo
momento si sentì molto forte la necessità di studiare questi problemi. Si costituì un piccolo
gruppo, il G.E.A. (Gruppo de Estudio y Accion Economico-Social) creato appunto per studiare i
vari problemi in modo capillare e soprattutto locale. In Uruguay c'era un tentativo di
statalizzazione molto accentuato, e cosa più interessante, era stato condotto in modo abbastanza
decentralizzato. Volevamo studiare i trasporti, la produzione, ecc. sul piano locale, per trovare
soluzioni locali. Pensavamo che in ogni località, in ogni paese, bisognava fare un lavoro di quel
genere, per poi riunire e confrontare le esperienze, elaborando però anche tattiche differenti
nell'azione e nella creazione perché ogni paese ha le sue proprie esigenze. Le grandi teorie, valide
per tutti i paesi e per tutti i momenti, sono pericolose, rischiano di cadere nell'autoritarismo, se
non si studiano le condizioni del momento e del luogo.
Ritieni ancora valida l'analisi tecno-burocratica? Pensi che costituisca una chiave di lettura
attuale per quello che sta succedendo adesso nel mondo?
Io credo di sì, in quanto non era una chiave interpretativa legata troppo al momento. Credo che ci
siano stati alcuni errori da parte mia. Io ho creduto per alcuni anni, ad esempio, a una soluzione
prossima del problema dell'alimentazione ad opera della tecnica. Era un'idea completamente
sbagliata, e gli avvenimenti successivi lo hanno rivelato. Ma questo non toglie nulla validità del
concetto di fondo.
tecnoburocrazia e totalitarismo
Nei tuoi opuscoli stabilivi un legame tra tecnoburocrazia e totalitarismo. Dalla lettura
sembra che per la democrazia non ci sia un futuro, e che la scelta sia sostanzialmente tra un
socialismo libero o libertario, e il totalitarismo. Ritieni ancora valida anche questa parte
dell'analisi, oppure pensi che sia possibile una via non totalitaria alla tecno-burocrazia?
Io non so se ho mai pensato che la tecnoburocrazia fosse fatalmente totalitaria. Rilevavo che c'era
in atto una progressiva convergenza tra gli Stati di tipo capitalista e gli Stati che si definivano
socialisti, verso un tipo di organizzazione totalitaria. Però non credo di aver mai pensato che
quello fosse lo sbocco fatale dell'evoluzione in corso, e che non ci fosse la possibilità di una
democrazia tecnoburocratica. Allora ritenevo che la democrazia fosse debole di fronte al
progressivo potere dello Stato. Non che le istituzioni democratiche fatalmente degenerassero in
totalitarismo, ma esse non avevano in se stesse la forza per resistere, e anche quando resistevano
si rivelavano insufficienti. Era il caso, per esempio, della Spagna, dove la repubblica sarebbe
stata completamente impotente se non ci fossero stati i sindacati operai; la struttura democratica
spagnola contro il colpo di Franco non avrebbe resistito dieci giorni. Oggi vedo maggiori
possibilità di sopravvivenza di una democrazia di tipo borghese, per come si sono svolti i fatti. In
quegli anni si vedeva la fine del capitalismo come molto più prossima. Ora c'è il fenomeno del
neo-capitalismo, che ha riportato sul tappeto alcune questioni che sembravano superate. In ogni
modo anche allora io pensavo che valesse la pena di battersi contro il totalitarismo per la
conservazione delle libertà fondamentali. Però io pensavo che le istituzioni democratiche non
erano un baluardo sufficiente. Erano un baluardo debole. Può darsi che adesso le possibilità di
sopravvivenza del mondo tradizionale siano un pochino aumentate. Le vecchie istituzioni hanno
ripreso un po' di respiro. Non credo che sia nel senso di una sopravvivenza definitiva,
assolutamente. Però esse hanno dimostrato più vitalità di quanto si riconosceva loro. Sarebbe
una
questione da studiare e da approfondire. In ogni modo mi pare che il problema per noi non sia
molto cambiato. Abbiamo sempre di fronte il fatto che le classi in senso tradizionale non si
sostengono più, che il proletariato come classe sta perdendo contorno, nel mondo contemporaneo
la figura tradizionale dell'operaio sta quasi scomparendo, e quindi tutto, anche il vocabolario
della lotta sociale sta perdendo attualità.
In questi ultimi anni abbiamo assistito al fenomeno del ritorno al governo di partiti
conservatori in diversi paesi occidentali compresi gli Stati Uniti con la vittoria di Reagan.
Si tratta di partiti che si caratterizzano per una lotta contro il Welfare State, o Stato del
benessere. C'è in atto una tendenza a contrastare l'allargamento delle attribuzioni dello
Stato nei campi della produzione, dell'assistenza, dei servizi sociali, ecc.. A tuo avviso
questo fenomeno può essere considerato come una forma di resistenza da parte del
capitalismo tradizionale nei confronti della tecnoburocrazia?
Può essere una trasformazione della tecnoburocrazia. Una presa di posizione diversa da parte
della tecnoburocrazia. Non credo che si tratti tanto di una ripresa del capitalismo tradizionale,
quanto di un ritorno a posizioni tradizionali tipiche del capitalismo da parte della nuova classe
dominante. Il fordismo, ossia in parole povere, l'idea di allargare il mercato arricchendo gli
operai, ha portato a una politica di assistenza da parte dello Stato, e ha provocato lo stesso
sviluppo dello Stato, che lo porta ad essere quasi una classe sociale in se stesso, ad adempiere
nuove funzioni in seno alla società, ad attribuirsi nuovi poteri. Questa politica ha urtato contro
ostacoli, ha dovuto affrontare una crisi interna, a cui ora risponde con un ritorno a posizioni
tradizionali. Mi sembra comunque che la linea di tendenza rimanga la stessa.
L'ultimo articolo tuo apparso su Volontà, nel n. 6 del 1978, si intitola "Natura
anarchica
del linguaggio e sua funzione liberatrice". Ultimamente tu hai dedicato molto interesse alla
problematica del linguaggio. In questo campo esistono molte concezioni e diverse scuole.
Tra gli studiosi del linguaggio a chi ti ricolleghi in particolare?
Devo premettere che il mio lavoro professionale si è svolto nell'ambito della storia e della critica
letteraria. Non nel campo della linguistica, e neppure della filosofia della lingua. Quindi non
sono una specialista, e quello che dico sul linguaggio non ha la pretesa di essere una teoria
linguistica, di entrare nel merito delle discussioni delle diverse tendenze. A me il linguaggio
interessa moltissimo, perché ci vedo la radice stessa della libertà dell'uomo, direi quasi
dell'essenza dell'uomo come uomo. L'essere umano è definito dal suo linguaggio, che non è solo
un veicolo, ma è la sua sostanza stessa. Non c'è differenza tra il pensiero e la parola. Non c'è
un
pensiero senza parole. Un'idea che non si sa esprimere è un'idea che non si ha chiaramente nella
testa. C'è un rapporto d'identità, si può dire. Quindi il nostro interesse per la
personalità umana è
in fondo un interesse per questo aspetto, che è l'aspetto che permette di vederci, di sentirci
reciprocamente. Mi sembra che il linguaggio sia importante per noi anarchici. Noi l'accettiamo in
modo scontato, come si accetta l'acqua che beviamo o l'aria che respiriamo. Ritengo invece che
sia importante pensarci sopra. Il linguaggio è insieme una struttura organica e una manifestazione
spontanea; è insieme creazione individuale e creazione collettiva; è insieme norma e libertà.
È la
creazione più anarchica che ci sia nel campo delle realizzazioni dell'uomo, e nello stesso tempo
si identifica con quello che l'uomo ha di più umano. È la definizione stessa di umanità. Per
me
questo è molto importante da un punto di vista nostro, in quanto mi pare che le nostre idee
vadano alla radice stessa dell'umanità come tale. L'umanità è capace di creare in modo
organico,
vitale, continuativo, un ambito nel quale l'individuo è libero: libero nella misura in cui sa
superare il condizionamento di tutti gli innumerevoli contributi che attraverso il linguaggio
formano la sua personalità. Se si nega la libertà di linguaggio si nega l'uomo.
verso la nonviolenza, ma
Nell'articolo di Volontà di cui stiamo parlando, ci sono accenni che fanno
pensare che tu
propenda per una strategia non violenta. È così?
È da molto tempo che io "desidero" arrivare a una concezione non violenta e mi faccio
continuamente obiezioni. Penso che la violenza sia eminentemente autoritaria, che generi sempre
autorità, che anche quando è in certo modo una reazione obbligata, o quando è una violenza
di
ribellione, degeneri facilissimamente in autorità. Penso che la rivoluzione meno violenta è quella
meno autoritaria. Quanto più si crea prima della rivoluzione, tanto meno violenta sarà la
rivoluzione, per il fatto che già si sono create le condizioni del mondo nuovo anticipatamente; e
quanto meno violenta è la rivoluzione, tanto meno autoritario sarà il suo sbocco, e più facile
una
vittoria nel nostro senso. Tutto questo l'ho sempre pensato. Ora gli ultimi sviluppi della realtà
mondiale anche della situazione italiana, mi portano sempre più a pensare che il nostro terreno di
lotta non è quello della violenza. Penso che non si può essere assoluti in questo campo. Una
posizione assoluta la possono prendere solo coloro che credono in Dio, e lasciano a Dio la
responsabilità di quello che succede, o si accontentano di stare in pace con la propria coscienza.
Non credendo in Dio, e sentendosi responsabili, in certo modo corresponsabili di quello che
succede, per azione o per omissione, riconosco che a volte si può presentare la necessità della
violenza. Ci può essere una sorta di fatalità, di obbligo, la scelta è volta per volta. Anche
se non oso arrivare a un'affermazione assoluta di negazione della violenza, ritengo però
che moralmente essa è negativa, da un punto di vista libertario porta all'opposto di quello che
vogliamo, e date poi le condizioni della lotta attuale in cui le armi si fanno sempre più sofisticate
e terribili, l'entrare sul terreno della violenza significa mettersi presto o tardi al servizio di blocchi
di potenze, di forze oscure che noi non conosciamo, quindi uscire completamente dal nostro
campo. Penso che la nostra strada è più una strada di sacrificio che di affermazione di forza. Non
so se mi spiego. Tutti i movimenti e partiti che partendo da obiettivi socialisti e di liberazione
umana si sono posti sul terreno della violenza, hanno fallito. Magari hanno avuto un successo
apparente, come i bolscevichi, ma una volta conquistato il potere hanno realizzato il contrario di
quanto dichiaravano. Nessuno che sia arrivato al potere, soprattutto con la violenza, ha fatto
qualcosa nel senso delle sue idee. Sussiste il fatto bruto del potere: se si pensa che il trionfo sta
nello stare al governo, allora sì, ma solo allora, si può parlare di vittoria. La violenza è forse
talvolta una dolorosa necessità, ma quando si cede a quella necessità - e a volte non c'è altra
strada - si ritorna indietro. La violenza in se stessa è un ritorno indietro. Oggi poi un'azione
violenta richiede un'organizzazione autoritaria. Una preparazione rivoluzionaria di carattere
insurrezionale richiede una militarizzazione. Io penso che al punto in cui sono arrivate le cose c'è
una necessità quasi disperata di mettere la lotta su un terreno nuovo, che non sia il terreno dei
nostri avversari, perché se ci mettiamo su quel terreno, sono più forti loro, e perché la
violenza
crea un circolo vizioso da cui è necessario uscire. Il terrorismo ci mantiene prigionieri in questo
circolo terribile ed è naturale che, salvo eccezioni isolate, i movimenti libertari dei vari paesi gli
siano rimasti estranei.
quale ruolo per l'anarchismo
Qual è, a tuo avviso, il terreno dell'anarchismo? Qual è il suo ruolo, la sua funzione
nel
mondo contemporaneo? Quale dev'essere la sua strategia?
Io penso che il nostro terreno sia quello della creazione dei germi di un mondo libero e della
propaganda della tolleranza e della molteplicità: bisogna cercare che si ammetta attorno a noi
l'esistenza della pluralità e della convivenza delle posizioni. Bisogna stimolare soprattutto la
creazione di organi che possano essere domani i nuclei di una società libera. Per quello abbiamo
bisogno delle libertà fondamentali, per quello credo che bisogna difendere la democrazia dove
ancora sussiste, con tutte le sue debolezze, perché ci offre la possibilità di organizzarci, di creare
comunità, di coordinare sforzi, di studiare ed eventualmente contribuire a rendere forti gli
organismi spontanei, che possono essere domani utilizzati per un'organizzazione libertaria. Credo
che il nostro compito sia di approfittare delle libertà di cui ancora si gode in una parte del mondo,
per andare creando realizzazioni nostre. Bisogna attuare l'autogestione nella maggior misura
possibile già nella società presente, perché si possa realizzare domani un cambiamento di
struttura che sia il meno cruento, e quindi il meno autoritario possibile. Dobbiamo studiare e
utilizzare tutti quegli organismi, esistenti già oggi, che non siano strumenti di sfruttamento e di
dominazione, o che non lo siano necessariamente, e possano essere magari modificati e
indirizzati nel nostro senso. Per esempio io ho fiducia nel movimento cooperativo, tanto di
produzione quanto di consumo. So che in molti paesi, anche in Italia, il cooperativismo è
strettamente legato ai partiti, ed è diventato quasi esclusivamente un fenomeno di integrazione
capitalistica. Ritengo che questa degenerazione non sia affatto inevitabile, e che la nostra
funzione sarebbe quella di vigilare all'interno delle cooperative perché esse non si trasformino in
senso capitalistico. Certo le cooperative sono obbligate all'osservanza di certe forme del mondo
capitalista perché non vivono isolate, però bisogna cercare che questi compromessi siano il
più
limitati possibile. In questo senso credo che un'azione nostra nel loro seno sarebbe positiva.
Credo che anche il sindacalismo possa svolgere una funzione positiva, benché il sindacato abbia
degenerato moltissimo, e si sia convertito in un organo di potere. Però, nella misura in cui noi
possiamo influire sui sindacati, penso che essi siano da annoverare tra gli organi di una nostra
società futura, purché non pretendano di averne il monopolio. In Spagna gli stessi sindacalisti
anarchici riconobbero, tardi, che era stato un errore concentrare tutto nei sindacati. Concludendo,
ritengo che oggi più che mai l'anarchismo abbia una ragione d'essere e una funzione. I compiti
che ha di fronte sono immensi. L'anarchismo si pone l'obiettivo dell'abolizione dello Stato, che è un
punto finale che conserva la
sua validità indipendentemente dal fatto se si può raggiungere totalmente oppure no. Io ritengo
che ogni posizione ideale è un'utopia, non si può realizzare come è stata concepita, nelle
condizioni ideali in cui è stata concepita. Una teoria è sempre relativizzata dalle circostanze
concrete. Penso che l'anarchismo non sfugga a questo: esso non può realizzarsi così come noi lo
concepiamo, nei termini di un fine ideale, ma possiamo solo avvicinarci a tale fine il più
possibile. Nei limiti in cui tutto è possibile, cioè nei limiti di un'approssimazione, di un
avvicinamento, penso che l'anarchia sia realizzabile. Ma l'importanza del nostro movimento non
sta solo nella sua capacità realizzatrice; sta anche e forse soprattutto nel suo compito attuale e
permanente di testimone d'una esigenza invincibile dell'essere umano, sta nella sua presenza
attiva e inquietante, che agisce come un pungolo nel senso d'una sempre maggiore libertà,
identificata (e non in contrasto) con una sempre maggiore giustizia.
Gli equivoci del socialismo
La socializzazione (non la nazionalizzazione) dell'economia è la via attuale della liberazione
dell'individuo dalla tirannia delle esigenze economiche, spesso impersonale ma sempre
opprimente. Questo significato liberale del socialismo - solo presentito nel secolo scorso quando
il socialismo pareva la traduzione teorica naturale delle esigenze della classe operaia in lotta
contro l'impresa capitalista ed il correlativo sistema del salariato - appare molto più chiaro in
questo secolo, dopo l'esperienza dei monopoli economici padroni dello Stato e, assai più, dopo i
diversi esperimenti di capitalismo statale che trasformano lo Stato in grande impresario
monopolista e l'economia in uno strumento di governo. La trasformazione che ha subita il mondo intorno a noi in questi ultimi trent'anni ha rimosso in
profondità il contenuto della parola socialismo, che sembrava così semplice ai tempi eroici della
Prima Internazionale. Ci muoviamo in acque torbide, che ancora non sono passate per il
necessario processo di sedimentazione e di chiarificazione. Ma a questo processo tutti noi
dobbiamo collaborare. Si tratta - ancora una volta - d'un lavoro che è non solo d'azione, ma anche
di vocabolario. Però le definizioni le dà, sempre più chiare ed esatte, la storia che stiamo
vivendo; tra l'altro essa s'è incaricata di delimitare il significato della parola socialismo, di
mostrare per esempio, la gran distanza che separa la nazionalizzazione dalla socializzazione. La causa principale del malinteso fu - nel secolo scorso - il predominio delle tendenze marxiste
all'interno del movimento socialista, tendenze che basavano il loro programma su
un'interpretazione generale della storia, in stretta relazione - come, d'altronde, il liberalismo
capitalista - con i caratteri di quello speciale periodo che, con un po' di buona volontà, possiamo
estendere a tutto il secolo XIX, ma che in nessun modo potrebbe riconoscersi nella nostra società
d'oggi. Facendo consistere l'obiettivo del socialismo nella conquista del potere da parte della
classe operaia e interpretando quindi la socializzazione come una statizzazione dell'economia, il
socialismo marxista, tanto nel suo settore democratico e legalitario quanto nel suo settore
rivoluzionario (che metteva la legalità fra i suoi fini seppure non fra i suoi mezzi), tendeva a
rinforzare lo Stato, ereditando l'atteggiamento storico della democrazia giacobina ed
allontanandosi dalla democrazia liberale. Le sue ultime derivazioni erano destinate ad essere
totalitarie, come tendono al totalitarismo le ultime deviazioni del mondo capitalista, che
s'inserisce nello Stato per altra via ma con lo stesso risultato. Il non aver separato abbastanza nettamente il concetto generale di socialismo dalla teoria
marxista, che è solo una delle sue formulazioni, dà un carattere confuso e provvisorio a tutte le
intuizioni di socialismo liberale che si sono manifestate in questi ultimi trent'anni, quasi tutte
come risultato dell'inversione di valori che s'è prodotto sulla linea di sviluppo della rivoluzione
russa. (...)
Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, Edizioni RL, Napoli 1955, pagg. 27-29.
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Il luogo dell'anarchismo
Nel punto a cui siamo giunti con l'analisi possiamo ora veder chiaro ciò che è, secondo me, il
luogo attuale dell'anarchismo concepito come un ramo del socialismo. Si suole definirlo come
socialismo libertario, e non liberale, perché quest'ultima parola è carica per lui di molta
inaccettabile storia: ma è indubbiamente l'erede, dentro il campo socialista, della lunga tradizione
liberale. Nel campo anarchico non è molto comune l'uso, in senso positivo, dell'aggettivo "liberale".
L'influsso marxista su tutti i movimenti di sinistra da un lato, e dall'altro la politica odiosamente
conservatrice dei partiti, che, per il fatto di averlo sulla loro bandiera, se ne considerano
proprietari, lo hanno trasformato in termine spregiativo. Malgrado ciò, o meglio appunto per ciò,
può essere interessante ricordare come già nel 1923 un anarchico italiano, Camillo Berneri, lo
rivendicava per l'anarchismo. Infatti in quell'anno egli inviava a Piero Gobetti una lettera
(pubblicata nel n. del 24 aprile 1923 di "Rivoluzione liberale" e ripubblicata in "Volontà" di
Napoli del 30 settembre 1951) in cui affermava la necessità di intraprendere una serie di studi
sulla storia del liberalismo economico in seno al socialismo, che egli pensava avrebbero condotto
alla conclusione che, nella Prima Internazionale, gli anarchici sono stati "i liberali del
socialismo". Ed aggiungeva: "Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e d'opposizione al
comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono tuttora". L'unica cosa da osservare sarebbe che
questo liberalismo era per gli anarchici in realtà più una costante politica che economica,
giacché
non si può riservare a Bakunin ed ai collettivisti, ma sarebbe da estendere anche a quelli che
accettarono il sistema economico di Marx senza accettarne la concezione autoritaria.
In ogni modo il carattere liberale, in senso ampio, dell'anarchismo risalta assai più oggi, alla luce
dell'esperienza totalitaria. Essa è, tra l'altro, la dimostrazione del carattere politico che riveste la
proprietà (o il controllo) dei mezzi di produzione e degli organismi di distribuzione: porta quindi
su terreno antistatale la lotta contro lo sfruttamento. Ora, guardando il passato, vediamo che,
facendo della libertà il centro delle loro aspirazioni, gli anarchici si sono trovati fin da principio
sulle posizioni che sono oggi diametralmente opposte a quelle totalitarie. Infatti, nato con Godwin in Inghilterra
e con Proudhon in Francia, l'anarchismo ha visto fin dai
primi tempi il carattere autoritario del privilegio economico ed ha riconosciuto, nelle diverse
possibilità di strutturazione ugualitaria dell'economia che offre il socialismo, un mezzo di
liberazione della persona umana, oppressa tanto dalle sue necessità materiali - insoddisfatte o
soddisfatte a prezzo d'abdicazioni - quanto dalle limitazioni alla sua libertà politica. Mutualismo,
collettivismo, comunismo, cooperativismo, sindacalismo, furono tutte correnti vive in seno al
socialismo anarchico, che tende sempre più verso un certo eclettismo su questo terreno,
basandosi sul carattere misto e sperimentale che ha naturalmente ogni società ampia e complessa
a cui non si voglia imporre dittatorialmente un sistema unico.
L'esperienza spagnola degli anni che vanno dal 1936 al 1939, con i suoi successi ed i suoi
insuccessi, messa a confronto con l'esperienza russa, è stata una preziosa lezione nel senso della
rivalorizzazione - in seno ad un'economia socializzata - della più ampia autonomia degli
individui e degli organismi locali cosiddetti di base. Su terreno socialista e contro le tendenze
totalitarie, l'anarchismo torna a presentare le esigenze che il vecchio liberalismo presentava
contro la democrazia giacobina da un lato e contro l'assolutismo monarchico dall'altro.
Essenzialmente, queste esigenze consistono in un ritorno alla realtà concreta costituita dalla
persona individuale e dalla sua sfera d'azione, come sfera di rapporti con altre persone, entro la
collettività locale in cui convergono e si organizzano tutte le attività d'un nucleo geografico
determinato. E nello stesso tempo, s'intende, una molteplicità d'organismi funzionali non
necessariamente locali, anche vastissimi e senza limiti di frontiere, al servizio di comuni interessi
materiali (lavoro, consumo, sanità, etc.), culturali ed etici. In molte di queste attività
l'organizzazione può raggiungere la scala mondiale senza cadere nell'autorità e senza intaccare
l'autonomia delle persone altro che nella misura da queste liberamente e di volta in volta
consentita, ed ampliandone in cambio la potenza effettiva e il raggio d'influenza, purché si basi
su vincoli federativi di coordinazione e non su vincoli gerarchici di subordinazione. Bisogna sottrarsi
all'ossessione dell'inevitabilità della riduzione dell'uomo a robot
scientificamente determinato e della società a una immensa macchina di cui ognuno di noi
sarebbe un minimo ingranaggio, sempre più sprovvisto di volontà. Le radici della vita stanno
in ogni essere umano. Al di là degli squilibri di transizione che
accompagnano ogni mutamento importante, si può sempre tendere alla dignità e alla libertà
dell'essere umano, qualunque siano le circostanze esterne, purché ci sia in noi una volontà
sufficiente, una "tensione" adeguata.
Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, Edizioni RL, Napoli 1955, pagg.
45-48.
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L'onnipotenza dello stato
E qui si comincia a vedere la convergenza fra la controrivoluzione russa della falce e del martello
e i regimi reazionari d'occidente. In occidente la classe sfruttatrice non ha cambiati i suoi quadri,
però sente anch'essa, sotto i colpi della crisi interna che la travaglia, la necessità di una
trasformazione. Dal capitalismo privato e dal dominio della concorrenza, siamo passati ai trust,
che lasciano poco posto all'iniziativa individuale e mettono il potere (non il beneficio) economico
in poche mani; ecco un primo passo verso l'organizzazione burocratica del capitalismo. Il
fascismo è un secondo passo, in quanto rappresenta uno sforzo disperato da parte del gran
capitale per impadronirsi direttamente della rete amministrativa e del potere politico dello Stato
per sfuggire alla sentenza di morte che contro il capitalismo ha pronunciato la logica delle cose.
Da questa presa di possesso all'identificazione la strada può essere lunga, però la tendenza a
trasformare lo stato capitalista in un capitalismo statale, burocratico, centralizzato, mi sembra
evidente. La classe dirigente vuol sussistere e conservare il privilegio, rassegnandosi magari a
trasformare la forma e i modi del privilegio. Il fascismo le dà il modo di conservare il controllo
della trasformazione. Del resto la tendenza è generale. I punti più audaci dei moderatissimi
programmi di fronte
popolare tendono appunto ad aumentare la forza dello stato in campo economico. E questa forza
è destinata ad essere messa al servizio delle vecchie o (nel migliore dei casi) nuove caste
dominanti. In fondo, più o meno coscientemente, tutti i governi sono dalla stessa parte della
barricata; però, com'è naturale, assai più chiaramente quelli totalitari, che non dipendono
nemmeno in piccola proporzione dal gioco dei partiti. Il fatto che alleanze o rivalità militari li
dividano non deve trarci in inganno, più di quanto non c'ingannasse nel '14 la contrapposizione
fra la libertà francese e il militarismo prussiano. Queste sono le ragioni permanenti e profonde di quel
complesso di cose che in questo momento
ci stringe il cuore d'angoscia.
Lucia Ferrari (Luce Fabbri), Bisogna dirlo, "Studi Sociali", II serie, n. 6, 20 settembre
1937.
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