Rivista Anarchica Online
L'arte quotidiana
di Claudia Vio
Nel corso dell'estate si è tenuta a Venezia la mostra su "Il consumo culturale: una storia degli
italiani dal 1945 ai giorni nostri". Allestita nei luoghi tradizionali della Biennale d'arte
contemporanea, i Giardini di Castello, la mostra offriva ogni sorta di oggetti prodotti dalla
cultura di massa (nel catalogo, però, è specificato "cultura dei mezzi di comunicazione di
massa"). Erano perciò presenti alcuni tra i principali mezzi di comunicazione: cinema, radio,
televisione, ecc. e anche altri oggetti, tratti da settori quali la moda, l'automobilismo, lo sport e
altro, in quanto campioni del "formarsi di un certo gusto". I trentacinque anni di storia recente
erano stati suddivisi in sei periodi, documentati con fotografie che si alternavano agli oggetti, in
modo da costituirne uno sfondo storico ideale. Ideatore e curatore della mostra - che è il
secondo dei due Progetti Speciali realizzati dalla Biennale di Venezia - è stato Marino Livolsi,
coadiuvato da una fitta schiera di collaboratori, fra i quali Gabriele Calvi e Roberto Guiducci. Nel
dibattito suscitato da questa mostra, dalla sua impostazione e dai suoi risultati, interviene la
compagna Claudia Vio.
... ecco una buona occasione per far uscire dal seminato l'arte (e la critica d'arte) e rituffarla in
quel sociale che pure l'ha originata. Ecco la coniugazione tra il mondo delle forme e della
visibilità, pertinente per tradizione alle arti figurative, e il mondo degli oggetti - delle funzioni,
dell'uso, dell'insignificante - che possono valere eventualmente anche come forme. Una
coniugazione inevitabile dato che non è da poco tempo ormai che alcune teorie dell'arte insistono
col dire che ogni opera d'arte è, sì, un microcosmo di forme volte alla bellezza nella sua
estrinsecazione più efficace; e però la bellezza non è il solo elemento costitutivo dell'opera
d'arte,
la quale infatti è anche un oggetto sociale, condividendo con una schiera di "opere minori"
quantomeno una comunanza di stile, di gusto, di preferenze formali. E poi l'opera d'arte è un
oggetto sociale perché essendo un artificio umano è, come qualsiasi altro prodotto umano, un
prodotto, appunto. E come qualsiasi altro prodotto conosce le fasi, che vengono a costituirlo,
della sua fabbricazione, e poi circolazione e fruizione. Ma naturalmente l'arte è anche linguaggio. E
allora condivide con gli altri linguaggi i fondamenti
del comunicare, la griglia elementare della produzione e comprensione del discorso, riservandosi
probabilmente un uso della medesima molto più individuale, originale, innovativo. Ovvio che
infine, in quanto oggetto del comunicare, l'arte circoli (medium e messaggio insieme) tra i
soggetti che danno e quelli che ricevono il messaggio, e che in questa circolazione si strutturi e
trasformi come qualsiasi altro messaggio.
Stile, prodotto, parole, medium-messaggio: alle molte delucidazioni sulla natura dell'arte hanno
fatto seguito i molti tentativi di trovarne l'aderenza con la realtà sociale, secondo una tendenza
generatasi all'interno della scienza creata da Saint-Simon, rifluita poi per intero nel positivismo,
con successivi punti di incontro e scontro con il criticismo neo-kantiano, per trovare poi nuovi
sussulti nel marxismo e nel neo-positivismo: intendo parlare, naturalmente, della sociologia
dell'arte. Varie accezioni dell'arte (stile, prodotto, ecc.), ma tutte - ripeto - miranti ad aprire le due
facce dell'arte: quella collettiva e sociale (lo stile di una civiltà, di un'epoca, di una cultura) e
quella individuale (lo stile, come espressione della personalità dell'artista). L'arte come "tocco"
irripetibile, ma anche come prodotto di un'azione collettiva e stratificata. L'arte come voce inedita
e unica, e l'arte come linguaggio quotidiano. Insomma una polarità tra individuo e società, sulla
quale scorrono tutti i possibili legami tra l'arte e la società, affluendo inevitabilmente nella
suddetta sociologia proprio perché essa predilige lo studio della società, e i rapporti tra arte e
società, e insegue quest'ultima fino alle profonde sabbie mobili dell'estetica, del gusto, delle
forme. La mostra di Venezia sul consumo culturale è, in un certo senso, la visualizzazione di questo
inseguimento che si arresta programmaticamente a ridosso dell'opera d'arte. L'opera d'arte non c'è
infatti: c'è tutto il resto. Chi arriva alla mostra è curioso di sapere quale delle differenti strade
sia stata privilegiata: quella
stilistica? quella linguistica? o quella economicista? o ancora, quella semiotica e semiologica? A
dire il vero la scelta di Livolsi sembra essere caduta su più di una chiave di lettura: gli oggetti
raccolti sono presentati infatti in primo luogo come prodotti, e precisamente come prodotti
dell'industria rivolta alla massa, in un arco di proposte che va della soddisfazione dei
bisogni del
concreto a quelli dell'immaginario, sicché accanto al film è posta l'automobile,
all'elettrodomestico il fatoromanzo e così via. Ma l'indicazione di lettura data da Livolsi non è
soltanto di tipo economicistico (e semiotico, là
dove illustra specificamente il processo della comunicazione); c'è anche infatti l'aspirazione a
suscitare un'interpretazione di tipo formale, io penso, o strutturale, o semiologico, interessato
comunque alla forma dell'oggetto, al suo sistema di sensi "messi in forma". Gli oggetti scelti
sono infatti gli oggetti preferiti dalla massa e sono esposti in quanto tali, perché
rivelino dunque,
perché rendano visibili, gli orientamenti del gusto. Livolsi afferma infatti, a proposito del
cinema:... il cinema che noi trattiamo non è quello dei grandi maestri (...) ma è quello
più visto,
il momento di riferimento di larghe masse di spettatori (...) Il cinema del mito, il cinema del
sogno collettivo (...) è il prodotto dell'industria culturale, ma è anche l'immaginario collettivo
(...) diventa lo spazio più rilevante della vita della gran maggioranza delle persone. Insomma,
l'atto di preferenza, la scelta di gusto da parte del pubblico, vale enormemente a
qualificare l'oggetto prescelto come oggetto di massa. È un "consumo qualificante", che dovrebbe
però essere riscontrabile negli oggetti presentati, evidenziando quei segni sui quali converge la
fruizione di massa rendendoli eccellenti. Ma è qui, appunto, tranne in rari momenti, che la
proposta della mostra si fa vacante. Gli oggetti appaiono disparati, non organizzati, non
classificati: c'è una mimèsi del caos della realtà, essendo accostati prodotti sì
contemporanei nel
tempo e classificati secondo i "luoghi" classici della sociologia dell'arte (produzione,
circolazione, fruizione, ecc.): ma questi "luoghi" non spiegano nulla del gusto (e perciò, in fondo,
del consumo, e della massa, che ne è protagonista). Analisi sociologica e analisi formalistica non
trovano mediazione. Il gusto fa parte a sé. Esso dovrebbe essere rinvenibile solo nelle forme
significative degli oggetti, ma esso viene ignorato sotto questa luce. In conclusione il gusto -
ossia, in fin dei conti, la preferenza estetica - sembra non avere alcuna relazione con i territori
dell'economia, e avere relazioni solo ipotetiche con quelli della comunicazione. Ma è proprio questo
vuoto della mostra a renderla interessante. La sociologia dell'arte infatti, in
questo caso con tutta evidenza, sembra portare solo alla constatazione della socialità dell'oggetto,
che era poi l'assunto di partenza, senza dimostrarne necessariamente l'esteticità. E poiché il gusto
- in quanto preferenza estetica - è anche una parte dell'arte, ed e anzi spesso considerato il
termine medio per eccellenza tra arte e società, occorrerebbe concludere che tra arte e società,
nelle proposte della mostra, non è ancora stato individuato il giusto rapporto; così come non
è
stato individuato il rapporto tra economia e gusto, ed economia e arte, dalla sociologia dell'arte.
Probabilmente anche lo studio del gusto in chiave formalistica conduce solo al gusto, e non
all'arte, facendo saltare l'ultimo ponte tra arte e società. In effetti questi settori appaiono ancora
irrelati, indipendenti. C'è, a dire il vero, il tentativo nella mostra di trovare un trait d'union
tra i vari punti di vista
rispetto ai quali si avvicendano gli oggetti: questo trait d'union è nella cronaca che si svolge
parallela agli oggetti (ma in qualche modo allusiva di una loro determinazione) dei trentacinque
anni in cui nascono e muoiono questi prodotti. Eppure anche qui il rapporto è inevitabilmente
arbitrario, ed empirico: su quali basi infatti si possono definire i confini rispettivamente della
"Storia" e degli "oggetti", posto che questi confini siano individuabili? e qual è la natura della
"Storia" e quella degli "oggetti"? I due mondi sono effettivamente comparabili tra loro? E la
"Storia", sfondo e contesto nel quale vengono fatti muovere gli oggetti, ha effettivamente uno
spazio più ampio di quello occupato dagli "oggetti", o non sarà paradossalmente il contrario? E
perché mai allora la "Storia" dovrebbe essere considerata il contenente dell'arte o addirittura la
sua causa determinante? E ponendo che la "Storia" sia distinta dall'arte, si dovrà forse sussumere
anche la "Storia" sotto le vesti della forma per poterla omologare - scoprendo, magari, l'omologia
- al sistema delle forme? Si provi, infine, a sostituire il termine "Storia" con quello di società, e, credo,
non si potrà non
sentire qualcosa di fittizio, di caduco e un po' mitico in esso.
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