Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 95
ottobre 1981


Rivista Anarchica Online

L'arte quotidiana
di Claudia Vio

Nel corso dell'estate si è tenuta a Venezia la mostra su "Il consumo culturale: una storia degli italiani dal 1945 ai giorni nostri". Allestita nei luoghi tradizionali della Biennale d'arte contemporanea, i Giardini di Castello, la mostra offriva ogni sorta di oggetti prodotti dalla cultura di massa (nel catalogo, però, è specificato "cultura dei mezzi di comunicazione di massa"). Erano perciò presenti alcuni tra i principali mezzi di comunicazione: cinema, radio, televisione, ecc. e anche altri oggetti, tratti da settori quali la moda, l'automobilismo, lo sport e altro, in quanto campioni del "formarsi di un certo gusto". I trentacinque anni di storia recente erano stati suddivisi in sei periodi, documentati con fotografie che si alternavano agli oggetti, in modo da costituirne uno sfondo storico ideale. Ideatore e curatore della mostra - che è il secondo dei due Progetti Speciali realizzati dalla Biennale di Venezia - è stato Marino Livolsi, coadiuvato da una fitta schiera di collaboratori, fra i quali Gabriele Calvi e Roberto Guiducci.
Nel dibattito suscitato da questa mostra, dalla sua impostazione e dai suoi risultati, interviene la compagna Claudia Vio.

... ecco una buona occasione per far uscire dal seminato l'arte (e la critica d'arte) e rituffarla in quel sociale che pure l'ha originata. Ecco la coniugazione tra il mondo delle forme e della visibilità, pertinente per tradizione alle arti figurative, e il mondo degli oggetti - delle funzioni, dell'uso, dell'insignificante - che possono valere eventualmente anche come forme. Una coniugazione inevitabile dato che non è da poco tempo ormai che alcune teorie dell'arte insistono col dire che ogni opera d'arte è, sì, un microcosmo di forme volte alla bellezza nella sua estrinsecazione più efficace; e però la bellezza non è il solo elemento costitutivo dell'opera d'arte, la quale infatti è anche un oggetto sociale, condividendo con una schiera di "opere minori" quantomeno una comunanza di stile, di gusto, di preferenze formali. E poi l'opera d'arte è un oggetto sociale perché essendo un artificio umano è, come qualsiasi altro prodotto umano, un prodotto, appunto. E come qualsiasi altro prodotto conosce le fasi, che vengono a costituirlo, della sua fabbricazione, e poi circolazione e fruizione.
Ma naturalmente l'arte è anche linguaggio. E allora condivide con gli altri linguaggi i fondamenti del comunicare, la griglia elementare della produzione e comprensione del discorso, riservandosi probabilmente un uso della medesima molto più individuale, originale, innovativo. Ovvio che infine, in quanto oggetto del comunicare, l'arte circoli (medium e messaggio insieme) tra i soggetti che danno e quelli che ricevono il messaggio, e che in questa circolazione si strutturi e trasformi come qualsiasi altro messaggio.

Stile, prodotto, parole, medium-messaggio: alle molte delucidazioni sulla natura dell'arte hanno fatto seguito i molti tentativi di trovarne l'aderenza con la realtà sociale, secondo una tendenza generatasi all'interno della scienza creata da Saint-Simon, rifluita poi per intero nel positivismo, con successivi punti di incontro e scontro con il criticismo neo-kantiano, per trovare poi nuovi sussulti nel marxismo e nel neo-positivismo: intendo parlare, naturalmente, della sociologia dell'arte. Varie accezioni dell'arte (stile, prodotto, ecc.), ma tutte - ripeto - miranti ad aprire le due facce dell'arte: quella collettiva e sociale (lo stile di una civiltà, di un'epoca, di una cultura) e quella individuale (lo stile, come espressione della personalità dell'artista). L'arte come "tocco" irripetibile, ma anche come prodotto di un'azione collettiva e stratificata. L'arte come voce inedita e unica, e l'arte come linguaggio quotidiano. Insomma una polarità tra individuo e società, sulla quale scorrono tutti i possibili legami tra l'arte e la società, affluendo inevitabilmente nella suddetta sociologia proprio perché essa predilige lo studio della società, e i rapporti tra arte e società, e insegue quest'ultima fino alle profonde sabbie mobili dell'estetica, del gusto, delle forme.
La mostra di Venezia sul consumo culturale è, in un certo senso, la visualizzazione di questo inseguimento che si arresta programmaticamente a ridosso dell'opera d'arte. L'opera d'arte non c'è infatti: c'è tutto il resto.
Chi arriva alla mostra è curioso di sapere quale delle differenti strade sia stata privilegiata: quella stilistica? quella linguistica? o quella economicista? o ancora, quella semiotica e semiologica? A dire il vero la scelta di Livolsi sembra essere caduta su più di una chiave di lettura: gli oggetti raccolti sono presentati infatti in primo luogo come prodotti, e precisamente come prodotti dell'industria rivolta alla massa, in un arco di proposte che va della soddisfazione dei bisogni del concreto a quelli dell'immaginario, sicché accanto al film è posta l'automobile, all'elettrodomestico il fatoromanzo e così via.
Ma l'indicazione di lettura data da Livolsi non è soltanto di tipo economicistico (e semiotico, là dove illustra specificamente il processo della comunicazione); c'è anche infatti l'aspirazione a suscitare un'interpretazione di tipo formale, io penso, o strutturale, o semiologico, interessato comunque alla forma dell'oggetto, al suo sistema di sensi "messi in forma". Gli oggetti scelti sono infatti gli oggetti preferiti dalla massa e sono esposti in quanto tali, perché rivelino dunque, perché rendano visibili, gli orientamenti del gusto. Livolsi afferma infatti, a proposito del cinema:... il cinema che noi trattiamo non è quello dei grandi maestri (...) ma è quello più visto, il momento di riferimento di larghe masse di spettatori (...) Il cinema del mito, il cinema del sogno collettivo (...) è il prodotto dell'industria culturale, ma è anche l'immaginario collettivo (...) diventa lo spazio più rilevante della vita della gran maggioranza delle persone.
Insomma, l'atto di preferenza, la scelta di gusto da parte del pubblico, vale enormemente a qualificare l'oggetto prescelto come oggetto di massa. È un "consumo qualificante", che dovrebbe però essere riscontrabile negli oggetti presentati, evidenziando quei segni sui quali converge la fruizione di massa rendendoli eccellenti. Ma è qui, appunto, tranne in rari momenti, che la proposta della mostra si fa vacante. Gli oggetti appaiono disparati, non organizzati, non classificati: c'è una mimèsi del caos della realtà, essendo accostati prodotti sì contemporanei nel tempo e classificati secondo i "luoghi" classici della sociologia dell'arte (produzione, circolazione, fruizione, ecc.): ma questi "luoghi" non spiegano nulla del gusto (e perciò, in fondo, del consumo, e della massa, che ne è protagonista). Analisi sociologica e analisi formalistica non trovano mediazione. Il gusto fa parte a sé. Esso dovrebbe essere rinvenibile solo nelle forme significative degli oggetti, ma esso viene ignorato sotto questa luce. In conclusione il gusto - ossia, in fin dei conti, la preferenza estetica - sembra non avere alcuna relazione con i territori dell'economia, e avere relazioni solo ipotetiche con quelli della comunicazione.
Ma è proprio questo vuoto della mostra a renderla interessante. La sociologia dell'arte infatti, in questo caso con tutta evidenza, sembra portare solo alla constatazione della socialità dell'oggetto, che era poi l'assunto di partenza, senza dimostrarne necessariamente l'esteticità. E poiché il gusto - in quanto preferenza estetica - è anche una parte dell'arte, ed e anzi spesso considerato il termine medio per eccellenza tra arte e società, occorrerebbe concludere che tra arte e società, nelle proposte della mostra, non è ancora stato individuato il giusto rapporto; così come non è stato individuato il rapporto tra economia e gusto, ed economia e arte, dalla sociologia dell'arte. Probabilmente anche lo studio del gusto in chiave formalistica conduce solo al gusto, e non all'arte, facendo saltare l'ultimo ponte tra arte e società. In effetti questi settori appaiono ancora irrelati, indipendenti.
C'è, a dire il vero, il tentativo nella mostra di trovare un trait d'union tra i vari punti di vista rispetto ai quali si avvicendano gli oggetti: questo trait d'union è nella cronaca che si svolge parallela agli oggetti (ma in qualche modo allusiva di una loro determinazione) dei trentacinque anni in cui nascono e muoiono questi prodotti. Eppure anche qui il rapporto è inevitabilmente arbitrario, ed empirico: su quali basi infatti si possono definire i confini rispettivamente della "Storia" e degli "oggetti", posto che questi confini siano individuabili? e qual è la natura della "Storia" e quella degli "oggetti"? I due mondi sono effettivamente comparabili tra loro? E la "Storia", sfondo e contesto nel quale vengono fatti muovere gli oggetti, ha effettivamente uno spazio più ampio di quello occupato dagli "oggetti", o non sarà paradossalmente il contrario? E perché mai allora la "Storia" dovrebbe essere considerata il contenente dell'arte o addirittura la sua causa determinante? E ponendo che la "Storia" sia distinta dall'arte, si dovrà forse sussumere anche la "Storia" sotto le vesti della forma per poterla omologare - scoprendo, magari, l'omologia - al sistema delle forme?
Si provi, infine, a sostituire il termine "Storia" con quello di società, e, credo, non si potrà non sentire qualcosa di fittizio, di caduco e un po' mitico in esso.