Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 94
estate 1981


Rivista Anarchica Online

Quale pedagogia
di Francesco Codello

Porsi il problema della divisione del lavoro significa innanzitutto analizzare la sua genesi e la relazione che intercorre tra questa dicotomia e la nascita, lo sviluppo e la riproduzione delle classi sociali. A questo proposito ritengo utile partire dall'essenziale contributo di alcuni classici del pensiero anarchico e libertario e confrontarli con alcune analisi di Marx. È necessario premettere che nello stendere queste note volte più a sollevare problemi che ad affermare certezze, intendo procedere analizzando la divisione del lavoro nella sua dimensione pedagogica.
Parlare di divisione "capitalistica" del lavoro mi sembra sbagliato sia storicamente che ideologicamente, mentre mi sembra molto più corretto parlare di divisione "gerarchica" del lavoro sociale. Questa precisazione, lungi dall'essere formale, è essenziale per comprendere il significato complessivo del mio discorso. In questo senso il pensiero libertario ha decisamente impostato il problema in modo più completo ed esauriente di quanto non abbia fatto il marxismo. Infatti il grande passo in avanti compiuto dai pensatori libertari rispetto a quelli marxisti è consistito proprio nell'aver compreso e analizzato le cause costanti dello sfruttamento e dell'oppressione e non le sue variabili. Il capitalismo, infatti, è una variabile storica dello sfruttamento, mentre la divisione gerarchica del lavoro sociale è ad esso precedente, né scompare con la fine dell'economia di mercato. In URSS, in Cina e negli altri paesi del "socialismo reale", la divisione gerarchica del lavoro non solo continua ad esistere, ma evidenzia il formarsi e il consolidarsi di una nuova classe dirigente che proprio su questa divisione fonda il proprio potere. Il lavoro intellettuale, come la cultura urbana, è fonte di privilegi rispetto al lavoro manuale e alla cultura contadina; privilegi che non sono solo di natura economica, ma anche politica, dando l'opportunità di poter usufruire di determinati servizi e vantaggi.
Anche secondo una prospettiva antropologica si dimostra la preminenza del politico sull'economico. Pierre Clastres, nel suo ormai celebre saggio La società contro lo Stato, ha dimostrato chiaramente come il passaggio dalle società "primitive" a quelle "civili" sia dovuto non tanto a fattori di carattere economico quanto alla comparsa dello stato e quindi della divisione gerarchica del lavoro. Scrive Clastres: "Non il mutamento economico, ma l'organizzazione politica è, dunque, il fattore decisivo.... E se si vogliono conservare i concetti marxisti di infrastruttura e di sovrastruttura, bisogna forse essere disposti a riconoscere che l'infrastruttura è il politico, che la sovrastruttura è l'economico. Un solo sovvertimento, strutturale, abissale, può trasformare, distruggendola in quanto tale, la società primitiva: quello che fa sorgere dal suo seno, o dall'esterno, ciò la cui assenza stessa definisce quella società, l'autorità della gerarchia, la relazione di potere, l'assoggettamento degli uomini, lo Stato.
Il pensiero libertario ha esaurientemente spiegato la relazione che intercorre tra divisione gerarchica del lavoro e formazione delle classi da un lato, e tra integrazione del lavoro manuale ed intellettuale e abolizione delle classi dall'altro, dimostrando inoltre che questa separazione è una costante di ogni società autoritaria e classista e che l'origine di questa dicotomia non è il capitalismo, né la proprietà privata dei mezzi di produzione, la quale altro non è che una forma giuridico-economica storicamente determinata. In questo modo risulta evidente il rifiuto della tradizionale impostazione marxista del problema in cui si afferma che "divisione del lavoro e scambio sono configurazioni della proprietà privata" o che "i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà". Scrive ancora Marx: "Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività".
Occupiamoci ora, brevemente, della relazione che intercorre tra la divisione del lavoro e il problema della dimensione, nonché tra la divisione del lavoro e la meritocrazia. È chiaro che nella grande dimensione, nella complessità di un'organizzazione estesa, sia impossibile parlare di integrazione del lavoro, di rotazione degli incarichi e di rifiuto della specializzazione. Dando per scontato che la grande dimensione non possa permettere, pena il suo decadimento, l'integrazione e la "mobilità" del lavoro, è nella piccola dimensione che può invece essere superata la divisione del lavoro, grazie al controllo diretto e costante dei membri sulla comunità.
È evidente che non basta ridurre la dimensione dell'organizzazione sociale per superare questa dicotomia, ma certamente questa riduzione ne è una condizione essenziale. Ecco perché, nei giovani d'oggi, accanto alla domanda generalizzata di lavoro intellettuale, vi è anche la richiesta esplicita di un controllo totale sul lavoro svolto e la ricerca di una continua verifica sperimentabile sul prodotto del proprio lavoro. L'assenteismo non è che la risposta, spontanea e inconscia, ad un lavoro estraneo, parcellizzato e burocratizzato. Nella piccola dimensione è dunque possibile recuperare le "finalità del proprio lavoro" grazie alla rotazione ed alla integrazione verticale del lavoro. A mio avviso, non è possibile parlare di rotazione orizzontale, in quanto essa non porterebbe ad una professionalizzazione necessaria e non contraddittoria con l'integrazione del lavoro manuale ed intellettuale. Integrazione in senso verticale quindi, nell'ambito cioè di una stessa professione o all'interno di ruoli professionali collegati (ad esempio fra medico e infermiere).
Obiettivo primario di un'educazione realmente innovatrice e emancipatrice è quindi di sviluppare nei fanciulli la capacità di scomporre i processi lavorativi, la capacità di praticare in ogni momento questi processi, la capacità manuale di costruire i vari strumenti necessari. Ovviamente ciò relativizzato all'età e al grado di conoscenze dei bambini. Ciò presuppone però il rifiuto della concezione elitaria della cultura a favore di una concezione liberatrice e problematica. L'insegnamento scientifico dovrebbe, tra l'altro, dimostrare l'interdipendenza tra conoscenze e azione e quindi l'insegnamento delle scienze e quello della tecnologia, strettamente collegati, dovrebbero indicare i modi con cui si passa dalla ricerca agli sviluppi e alle applicazioni. Al contrario, i sistemi educativi attuali introducono tra le due discipline una vera cesura, pregiudizievole per una e per l'altra. Nel quadro generale dell'insegnamento i programmi lasciano più spazio alle scienze che alla tecnologia. Così la scienza, separata dalla pratica, viene sterilizzata con il pretesto di aumentarne il prestigio e perde molta della sua efficacia come strumento educativo.
Le conoscenze tecniche rivestono un'importanza vitale nel mondo moderno e devono trovare posto nell'istruzione di base di ciascuno. L'ignoranza della tecnica lascia sempre più l'individuo alla mercè degli altri nella vita quotidiana, ne riduce la creatività e porta all'accettazione acritica degli effetti nocivi derivati da sconsiderate applicazioni tecnologiche. L'insegnamento della tecnologia a livello teorico dovrebbe consentire a ciascuno di trovare i mezzi con cui mutare l'ambiente che lo circonda. Sul piano pratico una rudimentale conoscenza dei processi tecnologici, consentirà all'individuo di valutare i prodotti della tecnica, di sceglierli e farne un uso migliore. Nell'insegnamento attuale lo studio della tecnologia non è affatto affrontato in maniera sistematica dal punto di vista concettuale, né si tenta di far comprendere in che modo la tecnologia può essere utile all'individuo e alla società. Occorrerebbe invece presentare la tecnologia come il processo di trasformazione della materia attraverso l'impiego di energie e l'uso di particolari accorgimenti. Poi con approccio unificato ed interdisciplinare, occorrerebbe analizzare i principi su cui poggia ogni trasformazione semplice o complessa e dimostrare che la tecnologia interessa tutto ciò che l'uomo fa per modificare il mondo in cui vive.
I sistemi di insegnamento di quasi tutte le società, sviluppate o in via di sviluppo, svalutando il lavoro manuale, contribuiscono a mantenere la discriminazione tra formazione intellettuale e formazione pratica. Troppo spesso i programmi riservano la formazione manuale agli alunni meno dotati. Vediamo ora di affrontare le connessioni esistenti tra divisione del lavoro, eguaglianza e meritocrazia. I sistemi scolastici post-industriali caratterizzati dalla ricerca del talento e dalla "filosofia dell'uguaglianza delle opportunità educative" hanno in comune una fede autoritaria che supera le differenze ideologiche: la meritocrazia.
Obiettivo delle società post-industriali resta quello di "fornire alle nazioni un numero sufficiente di persone altamente dotate ed istruite per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, e di personale competente per le altre occupazioni che richiedono abilità intellettuali", viste le esigenze organizzative ed economiche necessarie per il mantenimento dell'organizzazione gerarchica. In questo senso va vista ed analizzata l'utilizzazione del Q.I. (Quoziente d'intelligenza), in un'ottica meritocratica tipica dei "nuovi padroni", i quali fondano la loro supremazia e legittimano la loro posizione sociale, proprio nella proprietà di classe delle conoscenze tecniche e scientifiche "indispensabili" al funzionamento dell'intera organizzazione sociale. Ecco perché ricerca del talento e uguaglianza delle opportunità sono usate nelle società post-industriali come mezzi per il mantenimento dello status quo. La quantificazione dell'intelligenza, attraverso l'uso dei tests e del Q.I., si risolve in una quantificazione di un certo tipo di intelligenza, e quindi il Q.I. è utilizzato per giustificare il sistema di produzione e le relazioni sociali dominanti. L'ideologia del Q.I. serve a "legittimare la divisione gerarchica del lavoro; è funzionale a un'ottica generale tecnocratica e meritocratica del sistema di stratificazione che tende a legittimare i criteri di assegnazione degli individui ai vari livelli della gerarchia; contribuisce a conciliare i lavoratori con le loro posizioni economiche definitive, principalmente tramite l'esperienza scolastica con la sua apparente obiettività, il suo orientamento meritocratico e la sua efficienza tecnica nel fornire il necessario bagaglio cognitivo della forza lavoro". Questo non significa ovviamente misconoscere l'utilità e l'importanza del Q.I. nel dissipare l'eterna diatriba tra condizionamento sociale ed ambientale e condizionamento genetico. Sta di fatto, comunque, che la meritocrazia non è altro che una nuova concezione autoritaria che giustifica con strumenti "scientifici" una nuova forma di potere e una divisione gerarchica del lavoro sempre più marcata e sempre più irreversibile.
Nel realizzare il principio di eguaglianza di opportunità (che nessuno mette in discussione) per favorire lo sviluppo dei talenti in funzione di una sempre più gerarchizzata divisione del lavoro, si nasconde il pericolo di una nuova diseguaglianza. Una realizzazione sistematica di questa politica "potrebbe, nel lungo periodo, condurre a una società con una meritocrazia ereditaria, perché a prescindere dal grado di purificazione del patrimonio genetico, i genitori i quali inizialmente gliel'hanno fatta a introdursi nella meritocrazia potrebbero trasmettere ai propri figli i loro vantaggi sociali (e genetici)". Ciò è puntualmente avvenuto nei paesi del "socialismo reale" dove l'appartenenza all'intellighenzia è di per sé veicolo di accesso ai gradi superiori dell'istruzione e quindi del potere. In pratica si è verificata una ereditarietà delle funzioni. Ciò avviene anche nei paesi capitalisti seppur, per certi aspetti, con modalità diverse a seconda del grado di sviluppo tecnologico dei singoli stati. Il privilegio, oltre che attraverso la divisione gerarchica del lavoro, si esplica anche nel rapporto città-campagna. "Il carattere formale e arbitrario della distinzione tra manuali e non manuali, sulla quale si fonda in gran parte l'attribuzione del privilegio, trascura le frontiere reali tra i gruppi concreti; per esempio, il figlio di un impiegato che viva in una azienda agricola di stato isolata è penalizzato in confronto al figlio di un operaio della capitale, dato che il contesto culturale della grande città costituisce un vantaggio decisivo nella preparazione degli esami, se si fa il conto con le possibilità che offre l'ambiente di campagna".
I sistemi scolastici post-industriali affermano l'uguaglianza di opportunità e giustificano la selezione ma nella competizione che di conseguenza nasce e si sviluppa fra gli individui non si tiene conto che "le doti agonistiche" degli alunni sono probabilmente anch'esse un prodotto dell'ambiente e/o comunque pesantemente condizionate da questo. Ecco perché oggi si è preferito spostare il livello di selezione sostituendo, come osserva Aldo Visalberghi, "al principio dell'uguaglianza di trattamento quello della discriminazione positiva" che consiste nel dare di più a coloro i quali meno hanno in partenza. In questo senso oggi si parla di "eguaglianza di risultati" piuttosto che di "eguaglianza di opportunità". Questo fatto ha delle ripercussioni evidenti sul problema della divisione gerarchica del lavoro. Infatti questa eguaglianza di risultati presuppone un punto d'arrivo, sicuramente più avanzato di una volta, che delimiterà il tetto di conoscenze comuni e specialistiche al di là del quale si intravvede più una nuova gerarchizzazione che una effettiva uguaglianza. In pratica non si fa che spostare, mano a mano che cresce la domanda generalizzata di istruzione, il livello massimo entro il quale si iscrive l'uguaglianza. Sino a questa soglia gli individui sono uguali, al di là vi sono i più uguali.
La scuola è profondamente cambiata, sono radicalmente cambiati i suoi obiettivi ma sono mutate anche le condizioni generali su cui si inserisce l'opera educativa. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la scuola è diventata una voce importante della spesa pubblica complessiva. In termini di bilancio essa occupa il secondo posto nelle spese pubbliche mondiali, subito dopo le spese militari. La scuola risulta ormai un fattore essenziale in ogni sforzo di sviluppo e di progresso umano ed occupa un posto sempre più importante nell'elaborazione delle scelte politiche nazionali ed internazionali. Ai nostri giorni si manifestano tre fenomeni più o meno diffusi:
1) mentre nel passato lo sviluppo della scuola aveva quasi sempre seguito e mai preceduto lo sviluppo economico (soprattutto nei paesi europei che hanno messo in moto il processo di rivoluzione industriale) oggi, invece, lo sviluppo della scuola tende a precedere lo sviluppo economico (Giappone, URSS, USA);
2) per la prima volta nella storia la scuola lavora consapevolmente a preparare gli uomini per modelli di società che non esistono ancora. Questa tendenza si osserva nei paesi che in seguito a profonde trasformazioni e all'accesso al potere di nuove forze sociali e politiche, hanno avviato l'organizzazione di una società radicalmente mutata. Essa si osserva anche nei paesi dotati di ampi mezzi tecnologici che hanno concepito un nuovo progetto umano senza tuttavia subire improvvisi mutamenti politici;
3) la contraddizione che si manifesta tra i prodotti della scuola e i bisogni della società. In effetti mentre fino a qualche tempo fa le società ad evoluzione lenta assorbivano facilmente i prodotti della scuola, oggi, per la prima volta nella storia, in diverse società si verifica il rigetto di gran parte dei prodotti offerti dalla scuola istituzionale.
Ormai sono comparse altre fonti di promozione informativa, di "educazione": la tv, il cinema, ecc., sono agenti importanti nella formazione delle mentalità infantili (non solo ma soprattutto). Ciò nonostante riteniamo che la scuola svolga ancora una funzione rilevante in quel processo che chiameremo "educazione al consenso". La scuola tradizionale, quella riferibile ad un modello dominante fino all'epoca del boom economico degli anni 60, svolgeva un ruolo ben preciso: quello di selezionare la classe dirigente. Con l'avvento della scolarizzazione di massa, la scuola non ha più come obiettivo primario quello di formare i quadri della futura classe dirigente, giacché è stata svuotata dei contenuti più qualificanti; inoltre il crescere della domanda di istruzione ha prodotto un surplus di possibili dirigenti. I protagonisti delle future direzioni aziendali, politiche, sindacali vengono formati in appositi corsi post-universitari di grosse aziende (Fiat, Olivetti, IBM) e non nelle università ormai esautorate di ogni capacità formativa in senso dirigenziale. La scuola di massa svolge quindi una funzione diversa, una funzione di formazione ideologica dei discenti, un'"educazione al consenso generalizzata".
Si può quindi constatare, a questo punto, che la scuola attuale è completamente svincolata dal mercato del lavoro, che i titoli di studio hanno valore legale ormai solo formalmente, che gli obiettivi sono essenzialmente di socializzazione ideologica. In questo contesto crediamo vadano interpretati i decreti delegati e i tentativi di lavoro didattico alternativo che spesso hanno inquinato il significato della parola antiautoritarismo. In questo senso la scuola oggi non serve più a produrre e legittimare la divisione gerarchica del lavoro, a creare cioè la professione intellettuale decisamente staccata da quella manuale, ma solo a prolungare l'inizio della disoccupazione. Ecco perché i progetti pilota della Comunità Europea di integrazione fra studio e lavoro appaiono più palliativi inefficaci, intrisi di una logica interna al sistema di condizionamento, che reali esempi di integrazione del lavoro. Così le teorie pedagogiche fondate sulla polivalenza dell'educazione permanente non sfuggono alla logica sopra accennata. L'educazione permanente sembra infatti essere concepita dagli esperti di problemi educativi e dai tecnici e burocrati della organizzazione aziendale "come una garanzia in ordine al migliore adattamento del lavoratore alle richieste di prestazioni già predeterminate dalla meccanica delle organizzazioni sociali e produttive esistenti".
Occupiamoci ora di definire il rapporto che intercorre tra l'integrazione del lavoro, lo sviluppo armonico di ogni potenzialità umana e il ruolo del lavoro e della dimensione estetica nella formazione del bambino. Sono profondamente convinto che uguaglianza e diversità non siano concetti contrapposti, ma che nel realizzarsi della prima si esalti la seconda. Grazie alla diversità naturale "l'umanità - osserva Bakunin - diviene un tutto collettivo in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo che questa infinita diversità degli individui umani è la causa stessa, la base principale della loro solidarietà, e un argomento onnipotente a favore dell'uguaglianza.... Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identici ma equivalenti e perciò uguali". Perciò ritengo che l'istruzione di ogni grado deve essere uguale per tutti, integrale, vale a dire che essa deve "preparare ogni fanciullo dei due sessi sia alla vita del pensiero che a quella del lavoro affinché tutti possano diventare in egual maniera degli uomini completi.... Nell'istruzione integrale a lato dell'insegnamento scientifico o teorico dev'esserci necessariamente l'insegnamento industriale o pratico. Soltanto così si formerà l'uomo completo: il lavoratore che capisce e che conosce". Rifiuto della divisione gerarchica del lavoro, integrazione del lavoro manuale con quello intellettuale, sono al contempo non solo il risultato verso cui tendere, ma anche condizione ineluttabile per estendere sempre più l'uguaglianza nella diversità.
Vi è comunque un rapporto logico tra l'integrazione del lavoro manuale ed intellettuale e l'occupazione della giornata di ogni uomo che, secondo Kropotkin, deve essere dedicata all'arte e alla scienza. Per fare questo è necessario che tutti lavorino in modo che la società risulti abbastanza ricca da sollevare "uomini e donne, una volta raggiunta una certa età... dall'obbligo morale di partecipare direttamente all'esecuzione del necessario lavoro manuale, e per consentir loro di votarsi interamente all'arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. In questo modo sarebbe pienamente garantita la libera ricerca in nuovi rami del sapere e dell'arte, la libera creazione e il libero sviluppo individuale". Questo enunciato non resta e non deve restare solo l'obiettivo perseguibile ma diventa contemporaneamente un mezzo fondamentale per il conseguimento dell'obiettivo. Vi è quindi ancora una volta il superamento della concezione marxista che, seppur considerando la progressiva riduzione del tempo da dedicare al lavoro (seppur liberato) a favore delle espressioni più genuinamente artistiche, rimanda l'attuazione di questo progetto alla futura società comunista. Sintesi di mezzi e fini: ecco una caratteristica costante del pensiero libertario.
Il lavoro quindi va visto e considerato positivamente in quanto è espressione artistica e in questo senso è evidente la sua positività nei processi educativi. Esso deve mirare alla elaborazione di oggetti semplici, controllabili continuamente e facilmente scomponibili per permettere ai bambini di sentirsi utili, impedendo lo svilupparsi del processo di estraneazione tipico di un lavoro avvilente l'individualità degli uomini. In questo contesto, crediamo vada riscoperta la funzione liberante del "gioco per il gioco" rifiutando il gioco stesso, e i mezzi che in genere vengono adoperati per attuarlo, quando limitano la fantasia e la creatività dei bambini perché utilizzabili unicamente in una sequenza ordinata di operazioni. In questo modo noi rifiutiamo anche il ruolo che la società autoritaria assegna al "gioco produttivo" come mezzo per l'inserimento in strutture gerarchizzate e niente affatto liberanti. L'integrazione del lavoro quindi non è sufficiente se non si concepisce il lavoro come strumento e mezzo per l'emancipazione individuale e collettiva, e se non si considera anche e soprattutto l'arte come mezzo fondamentale per esprimere le potenzialità umane. L'arte quindi come fondamento di una educazione che, superando la divisione gerarchica del lavoro a favore di una sua integrazione, si ponga come obiettivo quello di evidenziare le differenze individuali attraverso le infinite forme espressive per raggiungere di fatto la completa uguaglianza degli uomini. Ha scritto H. Read: "L'educazione può perciò essere definita come un processo rivolto a coltivare i modi dell'espressione, insegnando a bambini ed adulti come produrre suoni, immagini, movimenti, strumenti ed utensili". Solo in questa prospettiva è possibile, a mio avviso, attuare nella pienezza del suo significato un'educazione "motivata" che sulle motivazioni all'apprendere fondi il suo sviluppo, caratterizzando quel processo di "educazione incidentale" (la definizione è di Paul Goodman) che dalla Grecia antica alle più moderne teorie descolarizzatrici ne ha costituito e ne costituisce l'essenza.