Rivista Anarchica Online
Cose turche
di Giulio Manieri
L'aeroporto di Istanbul si presenta di sera cupo e quasi minaccioso. Si comprende subito che si ha
a che fare con un paese militarizzato: autoblindo e pattuglie della "gendarmeria" sorvegliano gli
aerei e i viaggiatori. Le formalità, alla dogana sono minuziose, il passaporto è guardato e
riguardato con attenzione, le valigie sono messe sottosopra. Superata la dogana bisogna
affrettarsi a trovare un albergo. Alla mezzanotte scatta il coprifuoco che durerà fino alle cinque
del mattino, e farsi cogliere in circolazione da una pattuglia significa la galera per un periodo di
tempo che può andare da giorni a mesi. La notte sul letto ci si addormenta tra i fischi con i quali
fuori i poliziotti segnalano tra di loro. Ma sbaglierebbe chi pensasse alla Turchia di oggi come ad una dittatura
militare di stampo
latino-americano. Kenan Evren, il presidente del consiglio di sicurezza nazionale insediatosi
all'indomani del colpo di stato del 12 settembre 1980, non è un Somoza o un Pinochet. Con ciò
non si vuole dire che sia meglio o peggio, non si esprime un giudizio di valore, ma non si fa che
constatare una realtà. Per comprendere la Turchia di Evren bisogna riandare indietro nel tempo,
all'indomani della
prima guerra mondiale. L'Impero Ottomano, una delle grandi potenze mondiali, con la sconfitta
degli Imperi Centrali si sgretola, secondo un processo analogo a quello che cancella dalla storia
l'Impero Austro-Ungarico. Lo stato Ottomano era una struttura plurinazionale, che viene a
frantumarsi nel momento della rivolta delle entità nazionali che lo formavano, principalmente di
quella araba. D'altra parte, il revanchismo greco vuole riprendersi la parte occidentale della
penisola turca, e così l'esercito ellenico occupa i territori che - si dice - storicamente
appartengono alla tradizione dell'Ellade. L'Impero Ottomano diviene dunque un ricco bottino da
spartirsi tra gli alleati. Anche l'Italia rivendica la propria parte e chiede Smirne, che invece sarà
data alla Grecia malgrado le proteste diplomatiche della monarchia sabauda. Così, lo stesso cuore
dell'antico impero (l'Anatolia) è minacciato dallo smembramento deciso dagli stati occidentali. È
a questo punto che nasce la Turchia moderna. Un generale (Pascià) Mustafà Kemal prende le
redini della lotta per l'indipendenza, e grazie anche alla sua abilità di condottiero diviene subito
una leggenda per il suo popolo. I greci, e gli alleati, sono ricacciati al di là del Bosforo in Tracia.
Nel 1923 viene proclamata la repubblica turca. Il movimento di liberazione si era rivolto non solo contro le forze
di occupazione e il
revanchismo ellenico, ma anche contro l'antico Impero Ottomano al quale si rimproverava da un
lato di avere soffocato l'identità nazionale turca e dall'altro le abissali ingiustizie sociali che
possono ben essere esemplificate nel costume di gettarsi per terra alla vista del sultano e dei
grandi dignitari. Il movimento aveva dovuto scontrarsi in primo luogo contro il conservatorismo
del trono degli Osman, accomodante verso gli occidentali. La Turchia si forma perciò come una
nazione nuova, rompendo con la tradizione plurinazionale e islamico universale
dell'impero. L'indipendenza qui coincide con la modernizzazione e con la rivoluzione industriale. L'ideologia
kemalista fa di tutto per sottolineare gli elementi di rottura col passato: la raffinata lingua
ottomana, risultato della commistione di elementi arabi, bizantini, turchi e persiani viene
cancellata in un sol colpo. Si riprende e si rielabora l'antica lingua turca, parlata ancora nei
villaggi dell'Anatolia orientale; l'alfabeto arabo viene cambiato per quello latino per marcare il
collegamento con l'occidente e la vocazione europea della Turchia. All'uopo si crea un istituto
statale per la lingua che viene incaricato di rintracciare con un lavoro quasi archeologico le
parole dell'antico idioma turco. Un turco del 1980 non può più né leggere né capire
l'Ottomano
che del resto è scomparso quasi senza lasciare traccia. Non solo, ma un turco del 1980 può con
gran difficoltà comprendere il turco del 1930. L'istituto statale per la lingua ha lavorato
instancabilmente trasformando e trovando nuovi vocaboli. Il nuovo stato turco si regge quindi, secondo il
disegno kemalista, su tre pilastri principali: il
laicismo, il nazionalismo, lo statalismo. Il laicismo e in nazionalismo
segnano la rottura col
passato ottomano. Lo stato col laicismo si libera dalla tutela dei califfi e dai residui di mentalità
feudale che impediscono il salto in avanti verso la modernizzazione e l'industrializzazione: il
laicismo serve come ideologia sostitutiva dell'Islam e legittima il nuovo assetto sociale. Il
nazionalismo parimenti è funzionale al processo di modernizzazione ed è intimamente legato al
laicismo; si ricordi che nell'Islam vi è un carattere di universalismo che non può che ostacolare
l'affermazione della nuova nazione turca. Il nazionalismo ancora marca con decisione la rottura
con l'Impero Ottomano, erede per certi versi della tradizione universalista dell'Impero Romano
d'Oriente. La conseguenza è che tutte le nazionalità diverse da quella turca sono duramente
represse, un abbozzo di repubblica armena nata nel periodo dell'occupazione alleata viene fatto
abortire sul nascere, la comunità Kurda è repressa nello stesso suo esprimersi come tale,
poiché è
bandita ogni altra lingua che non sia quella dell'antico ceppo turco. Il terzo pilastro della costruzione kemalista,
si è detto, è lo statalismo. Qui, al contrario di quanto
avviene per il laicismo e il nazionalismo, è il carattere di continuità rispetto al passato quello che,
nonostante tutto, prevale. L'estremo autoritarismo di fondo che informava di sé la società dei
sultani e dei pascià si trasforma, si laicizza e si nazionalizza per l'appunto, ma non viene a
cadere. Ad un quasi-dio, il Sultano, si sostituisce una figura carismatico-patriarcale, Kemal
Atatürk (padre dei turchi), la quale nella povertà culturale derivante dalla rottura col passato e
dall'estremismo modernizzatore che procede con fare da rullo compressore sul corpo dell'antica
tradizione popolare, assume il rango di unico simbolo aggregante, figura centrale attorno alla
quale un popolo (privato del suo passato) può riconoscere se stesso. E al ruolo egemone di
Kemal corrisponde un accentuato interventismo statuale in tutti i settori della vita sociale (basti
ripensare alla creazione della lingua, per rendersi conto della sua portata). Ma nello statalismo vi è un
elemento di più, un qualcosa che non rientra sic et simpliciter
nell'autoritarismo. In un certo senso si ha qui una riedizione di quel paradosso, individuato dalla
critica liberale alla democrazia, per cui la rivendicazione dell'uguaglianza (vista come mera
uniformità) può generare alla fine dei conti quello che è comunque un suo contrario:
il
totalitarismo. Kenan Evren, in un suo recente discorso televisivo diceva di volere una "società
senza classi": tragica "boutade" che spiega però come nella tradizione del kemalismo si
riconoscano, seppure stiracchiandola ciascuno dalla sua parte, tutti i partiti della sinistra e
dell'estrema sinistra. Spiega anche, forse, il perché i maoisti festeggino ancora oggi il
compleanno di Kemal, agitino la bandiera con la mezzaluna insieme a quella con la falce e il
martello, ed aprano il loro giornale (attualmente l'unico ad essere legale tra quelli di sinistra) con
un grande sornione ritratto di Atatürk. Con lo statalismo, cioè, Kemal si collega al movimento
marxista-leninista, rivelandone appieno
la natura totalitaria e "modernista". Non è un caso, infatti, che Lenin rifornisse di armi l'esercito
kemalista contro i greci e vedesse di buon occhio il sorgere di questo nuovo stato
"antiimperialista". Col 51% della grande industria nazionalizzata la Turchia può così vantarsi di
camminare verso la giustizia sociale, posto ovviamente che di questa si dia (cfr. la voce Giustizia
di A. Negri nel Dizionario critico del diritto edito da Savelli) una visione "negativa": è giustizia
tutto ciò che è anticapitalista, tutto ciò che è contro l'appropriazione
privata del capitale. Ma torniamo agli eventi più recenti dell'antico paese degli Osman. Dopo il
brutale colpo di stato
del 1971, che aveva visto nuovamente (vi era stato un altro colpo di stato nel 1960) i carri armati
uscire dalle caserme e regolare la vita sociale, nel 1973 è il "ritorno alla democrazia", col
riformularsi dello scontro tra i due principali partiti che costituiscono i bracci della bilancia
politica: da un lato la destra moderata, il partito della giustizia di Demirel, dall'altro Ecevit,
ovvero la sinistra liberal-democratica e socialdemocratica del partito repubblicano del popolo
con un programma politico assai vicino a quello della socialdemocrazia tedesca. La ripresa della vita
democratica ha come effetto un'escalation della conflittualità sociale (gestita
a sinistra dal DISK e a destra dal sindacato nazionalista MISK), e della lotta politica, mentre i
due maggiori partiti non sono in grado di assicurare stabilità alla loro rispettiva gestione del
governo. La politicizzazione progressiva, con il formarsi di almeno una quarantina di diversi
gruppi dell'estrema sinistra, ha sviluppi perversi, si trasforma ben presto nella guerra per bande
delle avanguardie politiche contrapposte, che esasperano sempre di più i loro contenuti
programmatici e le loro azioni. Alla radicalizzazione a sinistra corrisponde la nascita
dell'estremismo islamico (rappresentato dal partito della salvezza nazionale di Erbakan) e di
quello fascista (il partito del movimento nazionalista di Turkes) col suo gruppo armato di Lupi
Grigi. Questi due gruppi, e soprattutto quello di Erbakan, mettono in discussione per la prima
volta da destra le basi della costituzione politica kemalista: il laicismo e l'occidentalismo. È
l'islamismo fanatico che intende nuovamente tornare allo stato confessionale, che si propone la
cancellazione dell'alfabeto latino per sostituirlo con le vecchie lettere arabe, così come la
polemica antioccidentale preoccupava i generali dell'Esercito (vero e proprio cuore dello stato
kemalista) quasi quanto lo spettro del marxismoleninismo. Autorevoli commentatori delle cose
turche sostengono infatti che una delle gocce che ha fatto traboccare il vaso della tolleranza
militare sia stata una manifestazione organizzata da Erbakan durante la quale si levavano
striscioni in arabo reclamanti la confessionalizzazione e si cantavano gli antichi inni religiosi in
contrapposizione all'inno nazionale kemalista. Il risultato di tutto ciò, unito ad una terribile crisi
economica e ad un'inflazione selvaggia che
faceva aumentare il costo della vita di oltre 100%, era che cadeva il governo di Ecevit e Demirel,
vecchia volpe della destra, per governare doveva fare delle concessioni al partito di Turkes e agli
estremisti islamici. Esemplare di queste è la parziale apertura al culto musulmano di Santa Sofia,
l'antica cattedrale ortodossa di Bisanzio trasformata dopo il 1453 (data della caduta dell'Impero
Romano d'Oriente) in moschea, e che Kemal in segno di rifiuto del confessionalismo aveva
sottratto al culto e destinato a museo. Giungiamo ai primi mesi del 1980 con la corrente dello scontro politico
che supera ampiamente i
livelli di guardia, centinaia di morti ogni mese e una crisi politica che fa sempre più guadagnare
terreno alla destra estrema: segnale di questa crisi è l'incapacità del parlamento di trovare un
accordo tra i partiti per eleggere il presidente della repubblica. Il tessuto della convivenza civile è
sempre più degradato, la gente vive nel terrore. Chi scrive ha conosciuto fuori dal suo paese
qualche turco, che quasi si meravigliava la notte di non sentire le detonazioni dell'esplosivo e i
colpi di arma da fuoco, e che all'approssimarsi del ritorno in Turchia veniva colto dall'angoscia.
Ankara e Istanbul erano ormai divise in zone contrapposte in mano ai vari gruppi armati (o
fascisti o marxistileninisti), e la lotta veniva condotta secondo le regole della rappresaglia. Ora si
apriva il fuoco contro un caffè in una zona di sinistra e subito dopo si rispondeva con una bomba
contro un locale di una zona fascista, secondo un'ottica di guerra puramente territoriale: quella
stessa ottica che passa per il mirino dei bombardieri destinati a massacrare inermi e innocenti,
colpevoli solo di risiedere in un territorio "altro". Il colpo di stato giunge così non inatteso: già
in luglio l'esercito in un messaggio rivolto al
parlamento faceva intravedere la possibilità di un suo intervento qualora il governo non fosse
stato capace di recuperare credito ed autorevolezza e il parlamento di eleggere il presidente della
repubblica. Del resto in una decina di provincie in agosto e già applicata la legge marziale, ed in
luglio è stroncata manu militari l'esperienza della comune di Fatsa situata nell'Anatolia
orientale
e controllata da uno dei gruppi più interessanti della sinistra rivoluzionaria turca, Dev Yol. Così
all'alba del 12 settembre, per uno "strano caso" il dipartimento di stato statunitense da la notizia
del colpo di stato in Turchia, ancora prima che vi sia una notizia ufficiale di parte turca: si noti
che in quel giorno sono in corso alla frontiera con la Grecia le manovre congiunte degli eserciti
N.A.T.O.. La reazione della gente, dopo un primo momento di attesa e di sbandamento, sono di
sollievo: Kizilay, il centro moderno di Ankara, da mesi ormai deserto la sera, si riempie il 13
settembre di una folla di persone che ritrovano dopo tanto il piacere di fare una passeggiata senza
prendersi una pallottola. Su tutti, vigili, le torrette dei carri armati, e le facce truci dei soldati con
la fascia rossa al braccio e il fazzoletto bianco al collo. Nello stesso tempo, la repressione
schiaccia tutte le organizzazioni politiche, i sindacati di sinistra sono ricacciati nella
clandestinità, viene stabilito il coprifuoco e le carceri risucchiano migliaia e migliaia di militanti
di destra e di sinistra (ma con una netta "predilezione" per quelli di sinistra). I segretari dei partiti
(tra i quali vi è Demirel, il presidente del consiglio in carica) vengono tutti arrestati, sfugge solo
Turkes che aveva avuto sentore del "golpe" ma si consegna qualche giorno dopo a seguito
dell'intimazione fattagli dalle nuove autorità. Dicevamo all'inizio che Kenan Evren non è
Pinochet. Mentre l'ideologia golpista latino-americana è chiaramente fascista, il programma politico che sta
dietro ai generali turchi è il
kemalismo, cioè una variante specificamente turca dell'ideologia tecnocratica. L'ipotesi
democratica, dove per "democratico" deve intendersi "occidentale", "industriale", "moderno", e
quindi uno stato forte gestito anche mediante il gioco parlamentare non viene rifiutata: essa,
dunque il ritorno alla democrazia, viene chiaramente rivendicata da Evren nella sua prima
conferenza stampa dopo il golpe e ripetutamente ricordata nei documenti e dichiarazioni ufficiali.
In verità, democrazia sia pure nella sua versione occidentale in Turchia non vi è mai stata, essa
nel suo misero funzionamento ha costituito niente altro che un ponte verso l'Europa e un ulteriore
copertura ideologica del processo di modernizzazione. A questo punto, in chiusura di queste note, possiamo
permetterci di buttare giù qualche
considerazione conclusiva. Prima considerazione: il golpe, ovvero l'intervento armato
dell'esercito, è un meccanismo costituzionale dello stato turco, e quindi l'alternanza dittatura
militare-regime parlamentare non segna alcuna frattura nello svolgersi dell'attività statale ma ne è
anzi l'incedere tipico in Turchia. Seconda considerazione (più amara): quando la lotta politica
arriva ad intaccare le basi stesse della convivenza civile il golpe, cioè a dire l'affermazione
brutale di una Autorità che si fa garante dello svolgersi della vita di ogni giorno diviene
inevitabile. Per dimostrare la prima affermazione, cioè la continuità dello stato turco al di qua
dei
cambiamenti di regime politico, può servire a ricordare una vicenda vissuta trasposta poi in un
romanzo e un film di grande successo (Fuga di Mezzanotte). Nel 1970 un giovane nordamericano
viene arrestato all'aeroporto di Istanbul mentre tenta di esportare dell'hashish. Resterà in galera
fino al 1974, lungo un periodo di tempo che vede la Turchia passare dal governo di Demirel al
colpo di Stato del '71 al ritorno "alla democrazia" nel '73 e al governo socialdemocratico di
Ecevit; in tutto questo periodo di tempo, che sembrerebbe all'osservatore politico segnare svolte
fondamentali nella vita politica del Paese, il carcere descritto dal giovane americano non muta
nel suo fondo di terribile atrocità, non multano gli aguzzini che continuano, siano al governo
Demirel, i generali o Ecevit, a torturare impunemente. La seconda conclusione ci lascia dell'amaro in bocca, ma
la realtà della vita non può esser negata
in nome dei nostri desideri. La gente vuole vivere innanzitutto, condurre le sue attività in pace,
poter camminare in una strada senza troppi pericoli, essere sicura della propria casa. Tutto ciò
non è frutto di sentimenti piccolo-borghesi come talvolta, accecati da un abbaglio di estremismo,
si sostiene; questi non sono che i livelli minimi di ogni convivenza civile. D'altra parte è
proprio
tale convivenza, che è il tessuto stesso delle relazioni sociali, la base del cambiamento, della
trasformazione, della liberazione. Lungi dal distruggerlo, il processo rivoluzionario ha senso e
può avere successo soltanto se punta a irrobustire questo tessuto, a moltiplicare gli incroci di
relazioni, le forme di solidarietà e di comunità. Così, laddove la lotta politica si fa faziosa
e
diviene terrorismo, nel senso vero del termine come di quelle azioni che mirano o che hanno
come effetto la produzione del terrore nel tessuto sociale, il contraccolpo (giusto, e si pesi tutta la
drammaticità dell'aggettivo in questo contesto) è che la convivenza venga assicurata comunque
ed è allora il ricorso ad un'Autorità tutelare, e il disgusto e il rifiuto della politica che si fa
dittatura e divieto della stessa libertà d'espressione. La vita, insomma, deve continuare, e se non
si riesce a farlo nella libertà, se la lotta politica non tende allo sviluppo della vita sociale e
provoca dinamiche di imbarbarimento, sarà il tragico (ma "giusto" paradosso di un popolo che
acclama il proprio tiranno. Ancora, o la lotta politica mantiene e sviluppa dentro di sé
componenti di "pace", e diffonde solidarietà, o spiana il cammino a chi può dare sicurezza
all'individuo terrorizzato. Al Terrore succede sempre il Termidoro, alla paura sempre la reazione.
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