Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 89
febbraio 1981


Rivista Anarchica Online

Pietro Gori: l'avvocato dei malfattori
a cura della Redazione

Propagandista, organizzatore operaio, poeta, studioso, avvocato dei malfattori e lui stesso malfattore anarchico, Pietro Gori (1865-1911) è una delle figure più note nella più che secolare storia dell'anarchismo italiano. Eppure la sua presenza sulla "scena pubblica" è durata molto poco, in confronto con quelle di tanti altri militanti, da Malatesta a Galleani, da Fabbri a Borghi: dal suo primo impegno militante alla sua morte non vi sono che una ventina d'anni, metà dei quali trascorsi in esilio oppure inchiodato a casa ammalato. La tubercolosi, manifestatasi già nel '96, né minò progressivamente la salute al punto che gli ultimi 5 anni di vita fu costretto a passarli, salvo brevi parentesi, chiuso in casa.
Nonostante questa vita disgraziata e la morte prematura, nonostante l'ostracismo dato alla sua opera dalla cultura marxista (Gramsci la bollò di umanitarismo sdolcinato), nonostante i settant'anni trascorsi dalla sua scomparsa, Gori più di ogni altro anarchico è rimasto ancora nella memoria popolare, soprattutto nella fascia costiera toscana, dove le sue poesie, i suoi inni, le sue canzoni costituiscono parte importante del patrimonio culturale di quelle genti. Dalla Lunigiana al Grossetano, capita ancor oggi di trovare tante persone che si ricordano del Gori, non certo per averlo conosciuto di persona (troppo tempo è passato!) quanto per averne sentito parlare in famiglia, nelle osterie o nelle sedi sociali quando il segno della sua opera era ancora vivo e profondo.
Più in generale, grande è stato il contributo dato da Pietro Gori all'anarchismo e al movimento rivoluzionario delle classi oppresse, non solo in Italia. Anche negli Stati Uniti, che attraversò in lungo ed in largo tenendovi centinaia di conferenze e contribuendo non poco allo sviluppo delle lotte sindacali. Anche in Argentina, dove svolse un'intensa e multiforme attività nei primi due anni di questo secolo, partecipando alle lotte promosse dal sindacato libertario della F.O.R.A.. Leggendo i suoi scritti completi, pubblicati all'indomani della sua morte a cura di Luigi Fabbri e Pasquale Binazzi e quindi ripubblicati integralmente in questo dopoguerra, si respira di continuo quest'atmosfera internazionale ed internazionalista, grazie ai molti esempi concreti, alle esperienze direttamente vissute in decine di Stati citate da Gori.
Purtroppo entrambe le edizioni dei suoi scritti completi sono fuori commercio da decenni, e anche l'intelligente raccolta di scritti scelti, curata da Giuseppe Rose e pubblicata 13 anni fa dalle Edizioni L'antistato, è difficilmente reperibile - per cui chi oggi volesse conoscerne l'opera dovrebbe... fare i salti mortali. È un vero peccato, perché si tratta di un documento storico fondamentale per comprendere tutta un'epoca dell'anarchismo italiano ed anche perché alcuni dei suoi scritti mantengono intatta la loro validità propagandistica. Pietro Gori - osservava acutamente Rose nella presentazione dei succitati scritti scelti - se è vero che non fu un teorico dell'anarchismo e neppure un innovatore (la sua attività, pluriforme ma non digressiva, si dispiegò armonicamente sulla base dell'autoconvinzione sincera in un rinnovamento integrale della società e col fine di infondere nei suoi simili quella stessa convinzione), certamente fu un rivoluzionario, quando a questo termine si conferisce il significato più proprio di individuo che, con qualsiasi mezzo, favorisce il sovvertimento dello stato di "cose" esistenti, che favorisce cioè "la rivoluzione", la quale non necessariamente e sempre si deve concretare in "fatti" violenti contro le persone e le cose.

Nell'accostarsi agli scritti goriani, siano essi le conferenze, i poemi, le difese in tribunale o i saggi di criminologia, vi è indubbiamente un problema di linguaggio, per il lettore degli anni '80. Contrariamente a quello di Malatesta e Fabbri, asciutto ed essenziale al punto da esser ancor oggi valido, il linguaggio di Gori appare irrimediabilmente datato. Il suo periodare complesso, i frequenti voli pindarici, l'uso di espressioni ampollose e ridondanti, uniti ad uno stile tipicamente avvocatesco: tutto ciò, se allora contribuì certo al profondo successo della sua opera, oggi sortisce l'effetto contrario in molti lettori. Eppure, una volta accettata questa differenza di linguaggio, non sarà difficile cogliere l'essenziale linearità del pensiero di Gori, la forza delle sue argomentazioni, lo sforzo continuo per rendersi a tutti comprensibile. Magistrale, in tal senso, l'uso che Gori seppe fare della sua "professione" di avvocato per fare da cassa di risonanza delle idee e delle lotte dei compagni e degli operai che difendeva: le sue celebri difese (nei processi contro Paolo Schicchi, Camillo Di Sciullo, Luigi Galleani, Errico Malatesta il giornale "Il libertario", ecc.) ebbero all'epoca una formidabile risonanza e restano ancora oggi tra le pagine migliori della "difesa politica".

Tra il dicembre del 1893 ed i primi di gennaio del 1894, la polizia genovese spiccò numerosi mandati di cattura nei confronti di studenti, artisti, operai, etc., sotto l'imputazione di "associazione a delinquere", per essersi "in attuazione delle teorie anarchiche da essi professate, associati fra loro per commettere delitti contro la proprietà, le persone, la incolumità e l'amministrazione della giustizia". Gli imputati erano 35; Luigi Galleani ed Eugenio Pellaco erano imputati anche di essere i "capi" dell'associazione.
Il processo si svolse presso il Tribunale di Genova dal 22 maggio sino all'8 giugno 1894. L'arringa del Gori (della quale riportiamo ampi stralci) fu pronunciata nell'udienza pomeridiana del 2 giugno; oltre alla sua, vi furono altre 20 arringhe in difesa dei numerosi imputati. Il Galleani fu condannato a 3 anni di reclusione, con un sesto di segregazione cellulare, oltre 2 anni di sorveglianza. Le altre condanne variarono dai 16 ai 6 mesi di reclusione. Soltanto 13 imputati vennero assolti.

Signori del Tribunale!

Dopo la fiammeggiante volata nel cielo della scienza e del sentimento di cotest'aquila del pensiero giuridico italiano, ch'è il mio amico e maestro Antonio Pellegrini, io sorgo commosso, e quasi sgomento, a parlare dal punto di vista sociale di cotesti uomini e di coteste idee, che la folla ingannata ed inconscia così poco osserva ed intende. Ma le mie povere parole, se pure trepidanti per la solennità del momento, zampilleranno dal cuore, ed avranno innanzi a voi il merito, unico forse, della schiettezza e della lealtà. E per dovere di lealtà permettetemi innanzitutto una constatazione ed una dichiarazione.
Il comm. Siro Sironi, ex-questore di Genova ed oggi questore nella capitale, si compiacque denunziare me pure come associato a costoro per delinquere contro le persone, la proprietà, l'ordine pubblico, e per commettere tutte le birichinate di cui parla l'art.248 (1) del Codice Penale.
La Camera di Consiglio presso il Tribunale di Genova, con un atto di relativa giustizia, mi prosciolse dall'accusa. Or bene, signori, io tengo a dichiararvi: che se il professare le nobili idee dell'anarchia è reato; - se il denunziare le iniquità sociali, analizzare le menzogne di una sedicente civiltà, flagellare ogni forma di tirannide e di sfruttamento, tenere gli occhi rivolti alle aurore dell'avvenire incorruttibile, portare tra le moltitudini dei miseri e degli oppressi la buona novella della liberazione e della giustizia è delitto - io pure di coteste colpe sono colpevole. Male faceste a prosciogliermi. E se le vostre leggi di rito ancora ve lo consentono, ebbene - io vi prego - schiudetemi i cancelli di quella gabbia, in quest'oggi onorata, e permettete a me pure di sedere tra codesti onestissimi malfattori, onde rispondere, come accusatore, alle strane accuse che oggi la società (per modo di dire) muove a costoro.
Si è detto dall'accusa che questo non è processo alle idee. Io mantengo: sì! è processo alle idee. Anzi è qualcosa di più e di peggio: è processo alle intenzioni. Il Pubblico Ministero si è sbracciato a sostenere che oggi ognuno è libero di pensare come meglio crede. Ciò si dice, è vero; ma anche questa è null'altro che una di quelle tante menzogne convenzionali su cui si regge la vecchia e scricchiolante organizzazione sociale.
Libero di pensare, come esso vuole, tra le impenetrabili pareti del suo cranio?.... Ma allora grazie tante della libertà delle vostre leggi, o accusatore pubblico. Il pensiero umano di cotesta concessione non ha bisogno. Esso esercita nel segreto d'ogni organismo ragionante i diritti imprescrittibili di un sovrano che non teme prepotenze di sospetti inquisitori o di pavide polizie. È adunque la libertà di propagarlo e di diffonderlo cotesto pensiero, che le leggi savie e libere (se possono esservi savie e libere leggi) devono consentire non solo, ma guarentire.
Ma voi, o egregio avversario, così non la intendete ed arrivate sino ad affermare che questo non è processo politico. Perché?.... Forse politica deve intendersi solo l'arte meschina di fare e disfare i ministeri? E non sentite, dagli infiniti regni del tempo, che tutta la questione politica è oggi questione essenzialmente sociale? Non vi accorgete che gli intelletti acuti e le anime assetate di idealità alte ed umane, mirando alla sostanza delle cose anziché all'arida forma, attendono alla grande opera di rinnovamento, attraverso le modeste e perenni constatazioni della ingiustizia economica che colpisce i lavoratori, i quali sono (piaccia o non piaccia al Pubblico Ministero) i soli produttori di tutta la ricchezza sociale.

Lotte e coscienza di classe

Ma l'attuale sostenitore della legge cotesta opera di critica e di ricostruzione ideale della società vuole che rimanga privilegio e monopolio dei filosofi... come egli dice. E gli dà ai nervi, che cotesti operai, cotesti facchini, che sono più interessati nell'alta questione, ch'è infine il problema eterno della vita sociale (e che è problema essenzialmente operaio) si preoccupino e si occupino con amore di coteste idee, di cotesti dibattiti, di coteste aspirazioni. L'operaio del Pubblico Ministero dovrebbe essere il pacifico ruminante, senza scatti e senza pensieri, che si lascia tranquillamente, e senza una protesta, tosare da chi ebbe la furberia di munirsi d'un persuasivo bastone e d'un paio di forbici.
Ma cotesti lavoratori, che sono in rude e perpetua lotta con la fatica e con la miseria quotidiana (l'una e l'altra retaggio doloroso del popolo) levano il capo, e protestano contro la mala signoria che spreme dai loro muscoli le forze migliori senza contraccambiare con adeguato compenso; - essi sospirano giorni migliori per la loro classe calpestata; vagheggiano un avvenire di libertà e di benessere per tutti; proclamano che gli operai - questi misconosciuti creatori del benessere e della civiltà - hanno diritto di assidersi al grande banchetto sociale, a cui i loro sforzi accomunati recano tanto tesoro di vasellami e tanta squisitezza di vivande; dimostrano che tutto quanto esiste di bello e di utile sulla terra è prodotto delle fatiche loro; affermano che l'unico vincolo che avvince la sterminata falange dei nuovi catecumeni è il lavoro, che oggi diventa per essi una pena ed uno stigmate d'inferiorità sociale, come domani sarà per tutti l'unico blasone di nobiltà; e mentre mugghia all'intorno la marea delle passioni egoistiche e vili, essi spiegano coraggiosamente una bandiera, e serenamente affrontano le persecuzioni più microcefale e gli schemi più amari.
Eppure su quella bandiera sta scritta una parola di speranza e di amore per tutti i diseredati, per tutti gli oppressi, per tutti gli affamati della terra, - vale a dire per le moltitudini infinite e benemerite, sulle quali si erige sghignazzando una piccola geldra di soddisfatti.
Ah! dunque costoro non avranno diritto di pensare, perché non sono filosofi? Non avranno diritto di bandire a voce ed a fronte alta i loro pensieri? Sarà loro proibito di professare pubblicamente una fede in un avvenire più equo e più umano?.... Quasi che il tragico e vergognoso presente fosse l'ultima tappa dell'umanità nel suo pellegrinaggio incessante alla conquista degli ideali!.... Sì, è questo il loro delitto; - una atroce delitto di grande amore per gli uomini, liberamente professato in una società, in cui l'antagonismo degli interessi determina l'odio fra gli individui, fra le classi, fra le nazioni; un odio immenso che fa sanguinare i cuori gentili, un'ingiustizia senza confini che permette al parassita di schiattare d'indigestione accanto al produttore che muore di fame. Ed è tutta qui la sintesi del problema.
L'analisi la fa quotidianamente il contadino, il quale si domanda perché mai, egli che si logora da mane a sera sui campi, flagellato dai gelidi venti invernali, arso dai raggi del solleone, rimane sempre povero ed economicamente soggetto ad un padrone, che niuna goccia di sudore versò su quei campi, che niuno sforzo dedicò a quegli spregiati lavori donde l'umanità ritrae il suo pane quotidiano. L'analisi la prosegue l'operaio dell'industria, il quale vede uscire dal suo lavoro, associato a quello dei suoi compagni, torrenti di ricchezza, che, invece di diffondere il benessere nelle famiglie dei veri produttori, che sono gli operai, vanno ad ingrassare la piovra del capitale, che senza la virtù fecondatrice del lavoro, resterebbe cosa perfettamente inutile al mondo. L'analisi la completano tutti gli operosi, - dal lavoratore del mare, che sfida i rischi di mille tempeste per recare i ninnoli giapponesi e le gemme preziose alle languide dame, preoccupate tutto il giorno del modo con cui più facilmente smaltire in acconciature e festini le rendite... del lavoro altrui - al lavorante della scuola, lo squallido maestro elementare, a cui la patria educatrice non dà che la millesima parte di ciò che largisce ai gallonati indagatori dei modi più spicci per sterminare il proprio simile in guerra aperta e leale, e all'occasione persuadere col piombo la plebaglia, che non è il caso di alzare troppo la voce quando si ha fame.

O nobili malfattori!

Ma coteste analisi, coteste constatazioni possono farsi... in pectore; guai a denunziarle!.... La verità (soprattutto quando è verità acre e nuda) va detta sottovoce. Molto meglio però non parlarne affatto. Così non si hanno seccature. In caso diverso un Sironi qualunque, nonché commendatore, vi fa ammanettare in 35 (per lo meno), fa delle composizioni romantiche, che trasmette all'autorità giudiziaria, parla con grandi arie di mistero delle informazioni avute da confidenti... rispettabili; - e dopo avere associati per parecchi mesi cotesti uomini nella comune sventura del carcere preventivo, trova una Camera di Consiglio che li associa a rispondere in solidum dell'art.248 del Codice Penale; finché il Pubblico Ministero, per finire di avvincerli l'uno all'altro sulla medesima croce, gli associa ancora nel godimento collettivo di un mezzo secolo di pene, fra reclusione e sorveglianza. E molti di costoro, come fu provato, neppure si conoscevano; nemmeno una volta eransi incontrati sulla via del lavoro e della miseria che pure ebbero comuni. Dovevano incontrarsi ed associarsi sul banco della sventura. Perché oggi, meno che mai, quel banco è del disonore.
Certo una catena invisibile e ideale allacciava, anche senza che si conoscessero, i loro animi sognanti un'era luminosa di pace e di giustizia - e si svegliarono dal bel sogno con le manette ai polsi, e stipati come belve pericolose tra le sbarre di una gabbia.
O nobili malfattori, io vi rinnovo il saluto, e invidio a voi l'onore di bandire da codesta alta e solenne tribuna le idee che avvincono me, libero, a voi incatenati. E rinnovo l'invito alla pubblica accusa: Se coteste idee sono un delitto, imprigionate me pure ed associatemi ad essi. Fra quei malfattori, sì, che sarei fiero ed orgoglioso di trovarmi - non tra quegli altri, che a Roma in questi giorni medesimi, vengono condotti in coupé e senza manette alla Corte d'Assise perché ebbero la fortuna di pigliarsi dei milioni.... Ma dimenticavo, perdonate, che quei crocesignati della capitale, sebbene teneri della proprietà in teoria, si dilettavano ad abolire praticamente la proprietà degli altri... per utile proprio - e che voi, o amici imputati, benché diroccatori teorici della proprietà, come privilegio di classe, e rivendicatori della intera ricchezza alla società intera, non avete mai steso la mano rapace sul superfluo degli altri (anche sapendo che tutto questo superfluo era frutto dei vostri sudori e delle privazioni vostre), e vi serbaste puri per aver diritto di gridare in faccia agli altri: Voi siete ladri! Eppure la miseria vi ha tormentato più volte, il bisogno più volte vi ha stimolato - ma voi avete resistito; voi, mentre gli altri rubavano per l'orgia, non avete tolto agli altri un soldo nemmeno per il nutrimento vostro, né per quello dei vostri figli, che vi chiedevano pane; - voi rimaneste rigidi, poveri, onesti, fino allo scrupolo, fino al ridicolo; e il rappresentante della legge domanda la vostra condanna come malfattori. Gli altri, i prevaricatori, i divoratori di milioni riavranno forse la libertà... di rubarne degli altri. (...)

La paura della rivoluzione

Da quanto vi ho alla lesta ed alla buona esposto, o signori del Tribunale, avrete potuto formarvi un criterio sintetico, esatto ed oggettivo delle teorie socialiste anarchiche, e vorrete concludere (io confido) che esse non costituiscono che un ideale d'uguaglianza e di libertà, audace finché volete, ma tutt'altro che criminoso, e molto meno nei rapporti dell'articolo 248 del Codice Penale.
Ma costoro, soggiunge il Pubblico Ministero, non sono degli anarchici teorici come Enrico Ibsen od Eliseo Reclus; si professano anarchici rivoluzionari, e potranno passare con sollecitudine dal pensiero all'azione.
La rivoluzione! È questa la parola, che vi fa tanta paura? E non avete imparato dalla storia, che ogni grande progresso umano è tracciato da un solco sanguinoso, e che nel campo politico come in quello scientifico furono sempre delle minoranze ribelli, che spiegarono la bandiera del vero, e attorno a quella caddero combattendo, o trionfarono trascinando seco le maggioranze inconscie?.... Non vi ricordate, che i grandi faziosi del Risorgimento italiano sono chiamati oggi precursori, martiri; che i rivoluzionari per la patria adesso sono diventati tutti più o meno monumentabili?.... Non pensate infine che le leggi medesime, in nome delle quali domandate, o accusatore pubblico, la condanna dei miei amici - che la stessa formola sacramentale con la quale voi, o giudici, comincerete la vostra sentenza nacquero dal Sangue d'una rivoluzione?.... Spartaco, Guglielmo Tell, Danton, Kossuth, Garibaldi: ecco la rivoluzione. Cristo, Confucio, Lutero, Giordano Bruno, Galileo, Darwin: ecco ancora la rivoluzione.
Ecco ancora il presente, che si ribella al passato maturando l'avvenire. Lacerate la storia, se volete spezzare la gloriosa leggenda della rivoluzione. Strappate di mano ai fanciulli delle scuole i libri che narrano Bruto, pugnalatore per amore di libertà, e di Rienzi sobillatore per amor del popolo, insegnano essere la insurrezione un sacro dovere contro le tirannidi. E proibite i pellegrinaggi del vostro forte popolo marinaresco, che porta corone votive alla statua di Balilla, il piccolo fromboliere, il cui nome è caro agli oppressi, perché dalla sua mano partì la prima pietra contro i prepotenti oppressori.
Essere rivoluzionari, o signori, non vuol dire essere violenti! Quante volte nella storia la violenza fu dalla parte della legge e dei suoi difensori, e l'ordine invece dalla parte dell'insurrezione e dei suoi militi! Essere rivoluzionari per la grande idea di giustizia sociale vuol dire metter la forza cosciente a servigio dei diritti dei lavoratori; è cospirare col pensiero e con l'azione a ristabilire l'ordine vero del mondo, con la pacificazione degli animi nell'armonia degl'interessi e delle libertà individuali. In questo senso sono rivoluzionari i miei amici imputati. Essi dicono al popolo: "Tu sei la maggioranza, tu sei il diritto e la forza. Sol che tu voglia, e il giorno della redenzione spunterà per te". Ed ai lavoratori: "Voi siete i più, voi siete i creatori del benessere altrui. Solo che vogliate ed il benessere sarà garantito a voi ed a tutte le altre creature umane".
Immaginate o signori, che questa ragione diventi, come diventerà ineluttabilmente, la coscienza animatrice del proletariato e la rivoluzione sarà fatta.
Nessuna violenza di eserciti e di polizia verrà ad arrestare cotanta fiumana d'entusiasmi, di fedi, di giovinezze. C'è qualche cosa di più alto e più forte delle paure e dei capricci dei governanti e delle classi dominatrici: c'è la irresponsabilità delle leggi storiche. E queste preannunziano la immancabile vittoria del proletariato.

Sbirri e delatori

Figuratevi dunque, o signori del Tribunale, quale serietà possono avere questi processi, costruiti sulla delazione di confidenti prezzolati, di fronte alle serene fatalità della storia.
Non voglio, non posso, non debbo entrare nelle viscere assai magre in verità, di questo mostruoso processo. I valenti colleghi a cui fu riserbata la parte specifica, anatomizzeranno le latebre intime di cotesto non invidiabile parto della fantasia poetica del signor Sironi. Ma affrettandomi alla conclusione del mio dimesso discorso, debbo esternarvi, benché non sia più ingenuo né nuovo a queste cose, la impressione di disgusto, che mi ha cagionato tutto il sistema accusatorio del signor Sironi. Con grandi arie melodrammatiche di salvatore della società, cotesto egregio commendatore vi ha parlato della organizzazione anarchica di Genova e di Sampierdarena, vi ha assicurato della esistenza di circoli e gruppi di propaganda e di azione. Ed alle domande del Presidente e nostre, da chi avesse saputo la tal cosa, da chi la tal altra, il signor questore rispondeva invariabilmente: da confidenti, di cui non posso dire i nomi.
Ah! è dunque il sistema d'accusazione anonima che si vuole inaugurare in Italia nei processi politici?.... Che se la voce di chi accusa restando nell'ombra, potesse trovare il menomo ascolto nella coscienza vostra, o magistrati del Tribunale, meglio sarebbe svestire subito la toga, e risparmiare il fiato. Quali grosse risate vorrei farvi fare, raccontandovi qualche tiro innocuo, e qualche tranello giuocato a cotesti vibrioni della società umana che il popolo chiama col più breve e sprezzante dei vocaboli: spie, e potrei persuadervi in breve, della loro perfetta imbecillità intellettuale e morale. Basti una per tutte.
Nel circolo di studi sociali di Milano, c'erano un paio d'anni fa, due losche figure di sedicenti coniugi, che avevano in me ed in qualche altro amico destato sospetti di spionaggio. Immaginammo una commedia. Un amico impiegato commesso di commercio, e senza colore politico, aveva una strana rassomiglianza con l'avv. Saverio Merlino. Lo incaricammo di sostenere la parte, come se fosse venuto a Milano incognito, giacché il vero Merlino era attivamente ricercato dalla polizia. I due sospettati messeri, sentendo parlare del Merlino in Milano, mi proposero di invitarlo a pranzo a casa loro. Il pseudo Merlino accettò con entusiasmo quel pranzo pagato dai fondi segreti. Ma ad un cenno convenzionale d'uno dei due loschi coniugi, egli fu, nel traversare la Galleria V.E. arrestato da un nugolo di poliziotti, che credettero sul serio (in seguito a delazione formale) d'aver acchiappato il vero Merlino. E fu d'uopo che la stampa locale raccontasse la solenne canzonatura, perché lo rilasciassero. Vi sia termometro questo fatto, o signori del Tribunale, per valutare, come meritano, le delazioni dei confidenti rispettabili del signor Sironi. (...)
A Luigi Galleani resta, è vero, una grande colpa. Si trova questa registrata nella ordinanza di rinvio della Camera di Consiglio. O Galleani, tu avevi parlato qualche volta, mentre passava col treno celere per la stazione di Sampierdarena, col terribile agitatore anarchico milanese, Pietro Gori - sai? quello che le questure del Regno fanno incessantemente pedinare come te!
Perdona a lui, o amico sereno; chi poteva mai dubitare che quei fraterni abbracci avrebbero un giorno dovuto pesare, a tuo danno, sulla bilancia della giustizia? Chi avrebbe mai pensato che dopo tanto sangue sparso per la libertà, dopo tanti fiumi d'inchiostro e tanti torrenti di retorica consacrati a celebrare i fasti d'una nuova Italia - una cotoletta divorata in comune nel buffet d'una stazione tra l'arrivo e la partenza del treno, potesse costituire l'elemento d'un complotto dinamitardo, e che una stretta di mano, senza misteri data, all'amico che passa potesse fornire la prova d'un'associazione di malfattori? All'infuori di questi tremendi colloqui con l'amico di passaggio, sotto la tettoia d'una stazione, quale altro fatto concreto potete porre a carico di Galleani?.... E se sono cotesti intimi colloqui con lo spaventevole agitatore milanese che maggiormente aggravano il Galleani, perché mai l'odiato babau delle polizie fu prosciolto dall'accusa, e può ora, drappeggiandosi nella inviolabilità della toga, vendicarsi con questo discorso giudiziario del negatogli onore di vedersi tra quei malfattori intemerati?...

Il tribunale dell'avvenire

Signori del Tribunale!
Il mio dovere di amico degli imputati, solidale con le idee da essi professate, il mio pietoso ufficio di difensore di cotesti uomini e di cotesti principii io li ho adempiuti
non certo con abilità, ma con fede. Alla vostra bella e gloriosa Genova io tornavo stamane dalla mia Milano, forte ed operosa, con la memoria piena di impressioni incancellabili riportate a quella mostra di belle arti. Se è è vero che l'arte rispecchia lo spirito del tempo, là, in quella palestra del genio italiano, palpita oggi, o signori, una fiera intonazione ribelle, contro la quale tutti i Sironi e le manette di questo mondo nulla possono. È l'ondata delle miserie umane, che traboccò come un grido di dolore e di protesta, dai pannelli e dagli scalpelli degli artisti.
Dall'"Ultimo Spartaco" dello scultore Ripamonti alle "Riflessioni d'un affamato" del pittore Longoni, tutto il problema dell'epoca nostra serpeggia gigantesco, ed urla e minaccia, tra quei gessi e quelle tele. Perché il signor Sironi non fa un bel processo all'arte moderna, come istigatrice all'odio di classe, ed apologista di crimini? Perché non denunzia tutti quegli artisti, fior fiore del giovine genio italiano, come un'associazione di malfattori?...
Ma tu, o Plinio Nomellini, la sconti per tutti. A te, pittore nato dell'azzurro e della luce, il nome da anarchia non fece paura. Seguisti con occhio innamorato le fulgide costellazioni del firmamento, e comprendesti che un codice inedito ma inviolabile le regola: la legge di natura. Contemplasti la fioritura anarchica dei prati e là pure leggesti la medesima legge naturale, che nessun legislatore umano può raccogliere in un libro, se non adulterandola.
E nella spontanea armonia dei colori, delle forme e delle forze della vita divinasti una spontanea armonia di diritti e d'interessi nella redenta umanità. Adoratore della verità nuda e bella, l'accarezzasti sulle tele. E il signor Sironi ci vede il simbolo. Ed odia i simboli. Gl'imperatori torturanti i primi cristiani odiavano la croce. I subalterni del commendatore poi, nelle tue belle tele, videro addirittura dei piani... di fortificazione.
Oggi la realtà brutale t'ha afferrato, t'ha rapito al mondo ideale dei tuoi sogni luminosi, e t'ha gettato su cotesto banco di sacrificio tra Galleani, cavalleresco e leale, e Barabino, nelle cui vene di Gavroche marinaio, scorre certo il bollente sangue del genovese Balilla. Era bene che l'arte, precorritrice dei tempi, avesse il suo rappresentante costì, tra l'ingegno e il lavoro. Ma voi, o 35 onesti, alzate la fronte in faccia i vostri giudici, senza trepidanza e senza paura. Il popolo, questo giudice sovrano - il popolo audace e tenace di questa nobilissima città, - vi ha già assolti. Lo dicono i mille fremiti di affetto di simpatia, che vi accompagnano ogni giorno sino alla porta della prigione.
Ed ora, signori del Tribunale, giudicateli voi.
Dite voi, se è delitto reclamare per i diseredati la loro parte di felicità, se è criminosa la loro visione di libertà, d'uguaglianza, di pace per l'affaticata razza umana. Voi non vorrete, non oserete condannare cotesti sereni combattenti d'un'idea, per colpe che non hanno commesso.
Sulla fine di questo secolo, nato da una rivoluzione la quale scrisse col sangue e promulgò col tuono dei suoi cannoni la dichiarazione dei diritti dell'uomo - in questa Genova augusta delle memorie di due grandi rivoluzionari: Cristoforo Colombo, sognante innanzi al vostro bel golfo incantevole un nuovo mondo da donare alla vecchia Europa, e Giuseppe Mazzini, vagheggiante una Italia maestra di verità e di giustizia tra le genti - due grandi solitarii, due grandi perseguitati e derisi dal volgo delle anime sciocche ed imbelli - in questa Genova, dico, e nel cospetto di questo popolo fedele alle sue tradizioni di libertà una sentenza di condanna al pensiero, quale sarebbe certamente l'accettare in tutto od in parte le conclusioni del pubblico Ministero, suonerebbe oltraggio a coteste solenni memorie.
E voi, o magistrati, asolverete - ne ho fede.
Ché se credeste di poter arrestare il cammino delle idee di redenzione sociale con gli anni di reclusione e di sorveglianza; se vi dichiaraste competenti a giudicare le imprescrittibili manifestazioni dell'umano pensiero pugnante per la pace e la felicità degli uomini: se vi determinaste a bollare le fronti serene di quegli integri lavoratori col marchio d'una creduta infamia, che non sarebbe infine per loro che un battesimo di sacrificio - oh allora, anche se io sarò lontano quando pronunzierete la vostra sentenza, ricordatevi, o giudici, di queste mie ultime modeste ed oneste parole; al di sopra del vostro responso vi è della storia - al di sopra dei vostri tribunali sta il tribunale incorruttibile dell'avvenire.
(Applausi fragorosi e prolungati, invano repressi dal Presidente).

(1) L'art.248 del Codice penale, allora vigente, così si esprimeva: "Quando cinque o più persone si associano per commettere delitti contro l'amministrazione della Giustizia o la fede pubblica o l'incolumità pubblica o il buon costume o l'ordine delle famiglie o contro le persone o la proprietà, ciascuna persona è punita, per il solo fatto dell'associazione, con la reclusione da uno a cinque anni.
Se vi siano promotori o capi dell'associazione, la pena per essi è da tre a cinque anni.
Alle pene stabilite dal presente articolo è sempre aggiunta la sottoposizione alla sorveglianza della Pubblica Sicurezza".

Il cavalier errante

Nato a Messina (1865), Gori può tuttavia esser considerato un toscano a tutti gli effetti, dal momento che ancora in fasce si trasferì con la sua famiglia a Livorno - e qui compì gli studi liceali. Laureatosi in giurisprudenza a Pisa con una tesi su "La miseria ed il delitto", ricevette il 1° maggio 1890 il battesimo carcerario, arrestato quale principale organizzatore del giovane movimento operaio livornese. Processato, fu condannato ad un anno, sentenza poi revocata dalla Cassazione ma sufficiente per costringerlo a cambiare città. Trasferitosi a Milano, iniziò ad esercitare la professione di avvocato, continuamente ostacolato dall'Ordine degli Avvocati, che mal sopportava questo strano legale che non si limitava a difendere i malfattori, ma se ne faceva paladino nelle austere aule dei tribunali. Nel 1891 partecipò al congresso anarchico di Capolago, promosso da Malatesta e Cipriani per dare un impulso organizzativo al movimento rivoluzionario anarchico in Italia. Nell'agosto del 1892 partecipa al congresso di Genova, nel quale si opera la definitiva scissione tra socialisti riformisti ed anarchici: con Galleani, Gori sostiene un'aspra polemica con Prampolini e Turati sottolineando l'inconciliabilità delle rispettive posizioni. Nel '94, l'anno dei moti popolari in Sicilia e in Lunigiana repressi nel sangue dal governo, Gori si impegna tra l'altro a fondo nella difesa legale e politica dell'anarchico Sante Caserio, autore di un attentato mortale contro il presidente francese Sadi Carnot.
Linciato da tutta la stampa moderata per la sua attività, Gori va in esilio a Lugano, quindi espulso anche dal Canton Ticino emigra altrove: in quest'occasione compone la sua poesia più nota, quell'Addio Lugano bella che è diventata un po' l'inno degli anarchici.
Dopo periodi trascorsi in Germania, in Olanda, in Belgio e in Inghilterra (dove partecipò a molte manifestazioni con Malatesta), Gori si imbarcò come marinaio su un piroscafo diretto negli Stati Uniti: grazie alla sua buona conoscenza di varie lingue, iniziò un giro di conferenze dall'Atlantico al Pacifico, in italiano, inglese, francese. A Paterson, la cittadina dalla quale pochi anni dopo partirà Gaetano Bresci per giustiziare Umberto 1°, Gori contribuì alla fondazione del periodico anarchico La questione sociale. Nel '96 ritornò a Londra per partecipare, come rappresentante delle "trade unions" americane, al congresso internazionale operaio: qui subì il primo ricovero in ospedale, in seguito al manifestarsi di quella malattia - la tubercolosi - che ne indebolì progressivamente il fisico fino a portarlo, quindici anni più tardi, alla morte.
Rientrato in Italia per curarsi, fu confinato all'isola d'Elba, da dove ebbe il permesso di trasferirsi a Milano alla sola condizione di non tenere comizi: ma alla prima occasione - l'inaugurazione del monumento per le "cinque giornate" - fu quasi costretto dalla folla a prendere la parola. Nel '98 difese sia gli imputati delle rivolte nel Carrarese sia Malatesta ed altri anarchici, ma nuovamente fu costretto all'esilio. Per il comizio improvvisato di Milano, fu condannato contumace a 12 anni. Ma Gori aveva riparato in Sud America, dove restò per quattro anni, svolgendovi sempre un'attività frenetica: conferenze politiche di propaganda, collaborazione a giornali e riviste argentine, lezioni di criminologia alle università di Buenos Aires, La Plata e Cordoba, partecipazione alle attività sindacali. Fondò e diresse per due anni la rivista scientifica Criminologia moderna, alla quale collaborarono i più famosi esperti del settore. Nel 1902, in seguito ad un'amnistia, potè far ritorno in Italia ove riprese subito le solite attività. L'anno successivo fondò con Luigi Fabbri la rivista Il pensiero, una delle più valide pubblicazioni anarchiche in senso assoluto, e vi collaborò fino alla morte. Nel 1904 si recò in Egitto e Palestina, sempre spinto dalla sete di nuove conoscenze: ma ormai le sue forze si riducevano sempre più, e gli ultimi cinque anni della sua vita furono segnati drammaticamente dalla sua malattia. Appena possibile, non mancò di tenere qualche conferenza, di scrivere qualche articolo.
La morte, l'8 gennaio 1911, segnò la fine di una troppo lunga agonia. Il passaggio del suo feretro, da Portoferraio alla sua Rosignano, fu accompagnato dalla presenza di migliaia di persone, giunte anche da altre regioni, per render omaggio "al ribelle caduto, al veggente poeta che muor".