Rivista Anarchica Online
Noi anno zero
di Massimo La Torre
Forse sembrerà strano che ci si occupi di un film a qualche anno ormai di distanza dalla sua
uscita nei circuiti di prima visione. Ma ciò che a me interessa qui non è tanto il valore artistico
del prodotto cinematografico de Il Prato, peraltro discusso, né l'interpretazione dei protagonisti
(un appannato Brogi, un'impacciata Rossellini, Michele Placido che nonostante le lodi della
critica ufficiale mi pare - scusate il dire crudo - sempre più cane, Saverio Marconi che è l'unico a
"sentire" la parte). I fratelli Taviani non mi sono mai stati particolarmente simpatici, con quella loro serie di film
(esemplare per tutti San Michele aveva un gallo) che tessevano le lodi del realismo politico sulla
"follia" (bella, sì, romantica, ma poco in linea col materialismo storico) del pensiero utopico, e
anticipavano in Allonsanfàn la torbida teorica della delazione. Si ricordi a questo proposito
il
Mastroianni tormentato ma infame traditore dei suoi compagni, che giustifica sotterraneamente la
propria miseria morale così come oggi va di moda: ricorrendo all'argomento della critica
dell'estremismo cospirativo e degli eccessi della pratica militante, come se il rimedio al fanatismo
armato possa solo essere il ricorso (contrattato) allo sbirro e la spiata. Tuttavia, malgrado i loro trascorsi di
registi semi-ufficiali del Partito Comunista, e al di là del
valore intrinseco del loro lavoro, quest'ultimo film dei Taviani può, a mio avviso, essere di
stimolo per scoprire alcuni nodi che oggi serrano la nostra vita quotidiana. E quando parlo di
"nostra" mi riferisco alla generazione nata politicamente sull'onda del sessantotto che è oggi a
cavallo dei suoi trent'anni. I temi principali di questo film possono così enuclearsi: da un lato la
questione del rapporto individuo-società nella sua tensione progettuale così come questa si
presenta negli anni 80 (ovvero la questione del titanismo), dall'altro il problema dilaniante del
rapporto uomo-donna e più in generale dell'amore così come è stato coniugato all'indomani
delle
folgorazioni de "il personale è politico". La trama del film è nota. Saverio Marconi, fresco degli
esami del concorso per la magistratura ed
in attesa di prendere servizio come uditore giudiziario in una cittadina del sud, viene inviato dal
padre Giulio Brogi a San Gemignano per curare la vendita di una vecchia proprietà. Qui Saverio
incontra Isabella Rossellini, una ragazza che si alterna tra un lavoro precario d'ufficio e un'attività
di animazione teatrale. La incontra in modo piuttosto bizzarro e forse magico, complici un
furioso temporale d'estate ed una folla vociante di bambini. I due "stanno insieme", ma lei ha un
rapporto consolidato con Michele Placido il quale si inserisce per forza di cose nella relazione tra
Isabella e Saverio. Michele, laureato in agraria, sogna di fondare una comunità agricola e
organizza l'occupazione di un terreno incoltivato, ma i proprietari e la polizia non gradiscono la
cosa e intervengono con la loro "grazia" abituale. Si giunge all'epilogo. Michele e Isabella
partono per l'Algeria. Saverio, quando solo qualche giorno manca alla sua partenza per un
Tribunale meridionale, viene morso da una volpe rabbiosa, e sapendo di avere la morte dentro di
sé non si cura, si rinchiude per lasciarsi dilaniare dal male. A nulla servirà l'intervento del padre.
La storia è, come si vede, un po' lacrimevole, a tratti fumettistica, ma contiene aspetti venature
che mi hanno profondamente colpito. Il rapporto uomo-donna, dunque; e la coppia aperta. Dalla storia viene
fuori l'acuta
contraddizione tra le belle avanzatissime teorie e la realtà dei sentimenti (che nessuno si
scandalizzi, vi prego, per questo termine obsoleto e "idealistico"). Dalla constatazione esatta del
veleno autoritario secreto dalla famiglia della società borghese e gerarchica, e dall'affermazione
della più ampia libertà dell'individuo (tema questo che si lega all'insorgente movimento
femminista), si tirava (tiravamo) la conseguenza che la coppia in sé era un qualcosa di negativo
come e forse più del rapporto di lavoro salariato e di quello di subordinazione politica. Al
massimo eravamo disposti a concedere che essa costituiva una sorta di male necessario, da
ridurre il più possibile. A ciò va aggiunto un certo clima di neo-calvinismo e di razionalismo
esasperato, che pretendeva di progettare a tavolino la stessa sfera dell'emozionale e
dell'immaginario individuale, e ancora di controllare l'adesione dei comportamenti privati
all'impegno politico pubblico ("il personale è politico" per dire "il privato è pubblico"). Si
sperimentavano nuove forme incrociate di convivenza, si innalzava la libertà personale a
principio assoluto, e tutto questo nell'ambito dei rapporti sentimentali sempre come se l'amore (se
per qualcuno è una parola troppo grossa, o "vecchia", vi sostituisca pure il corrispondente
asettico - lo "stare insieme" - della civiltà di massa), come se l'amore dunque potesse essere un
ambito di calcolo utopista, dove l'utopia ha il senso del "piano", di un "a priori" da calare
illuministicamente nella realtà. Gli effetti sono stati devastanti, poiché disgraziatamente gli esseri
umani sono diversissimi tra loro e in gran misura irrazionali, e più o meno forti, più o meno
sensibili: qualcuno resta sempre marchiato a fuoco e soffre come un cane. E dietro l'utopia
totalitaria dell'intimità riconsegnata interamente alla politica vi sono drammi personali, dolori
dinanzi ai quali il giovane Werther ci appare come uno spensierato goliarda. Così nel film è
Saverio che resta bruciato dall'esperienza a tre della "coppia aperta"; come altrove, il prezzo da
pagare doveva essere o la superficialità del rapporto (la soluzione più "felice") o il ritorno coatto
alla solitudine (questa volta impastata di sbandamento e di disperazione). E non parliamo, che
non è il caso, dei furbastri/e, che mascherano il vecchio gioco della seduzione e il potere della
conquista sotto parole di liberazione, l'egoismo sotto un preteso "anarchismo"
comportamentistico. Saverio, dottore in Giurisprudenza e neo-magistrato, voleva fare il regista. Il suo interesse
e la
sua aspirazione erano di fare del cinema. Ma egli è adesso, dopo lunghi giorni e mesi trascorsi a
consumarsi gli occhi sul Messineo e sul Sandulli, uditore giudiziario. Ha superato l'arduo
concorso in magistratura, ed è in attesa di prendere servizio. Tuttavia il suo ideale era un altro, la
vita che avrebbe voluto condurre ben diversa. Però, come realizzare ciò? E qui, in un colloquio
col padre, viene fuori il tema del titanismo). Se per "riuscire", per Saverio riuscire a fare del
cinema, bisogna temperarsi come una matita
dalla lunga punta sottile così che il suo segno marchi il foglio con decisione e tracci linee nette;
se per "riuscire" (scartata la possibilità di arrivarci attraverso la via usuale della raccomandazione
e della clientela), bisogna mettersi il cilicio addosso ed accrescere in maniera abnorme la propria
solitudine nella ricerca spasmodica della battaglia e della vittoria; se voler fare un lavoro che ti
realizzi un minimo è tutto ciò, bene per Saverio questo è troppo gravoso e inumano. A che
vale
temperarsi sempre più finemente, a rischio di bucare il foglio e di spezzarsi come la punta che
più fine è più fragile diventa, se tutto il proprio essere comincia a funzionare al solo scopo
di
quel solo risultato? A che vale questa lotta dell'io contro tutti che se non ti schiaccia col suo peso
ti condanna per il peccato di superbia e d'ambizione, quando pagheresti l'improbabile successo
con lo svuotamento del tuo bagaglio interiore? Se devo lottare, dice Saverio, voglio farlo con gli
altri; se devo vincere voglio farlo senza rinunciare alla mia umanità e alla mia debolezza. Del
resto, non è la matita con la punta più grossa a rendere possibile gli schizzi più belli e il
gioco
delle sfumature? La vita non è un disegno geometrico, ma un ritratto, uno scarabocchio anche. Qui si
fa sentire come drammatica la crisi della militanza, intesa non come rifiuto della politica
tradizionale, autoritaria e istituzionale (che sarebbe sacrosanto e positivo), ma come rifiuto
dell'impegno, caduta della speranza. Un'intera generazione è cresciuta esistenzialmente nella lotta
collettiva, nel discutere e nel divertirsi sovrapposti, nell'intreccio (questo sì liberante) di
personale e politico, nell'attaccare manifesti con lo spirito di andare a una festa. Ed oggi il rituale
del sabato sera non ci ridà di certo quelle uscite piene di tensione ma colme di solidarietà di
gruppo e di sentimento di appartenenza ad una collettività nuova. Alla crisi di questa esperienza
esistenziale, ci si è dovuti reinventare il proprio ruolo nella società: prima eravamo
"rivoluzionari", e adesso? Si è dovuto ritrovare un senso alla vita che prima era tutto della lotta.
Ed allora il lavoro, ciò che si fa per vivere, non fosse che per il fatto che si prende metà della
nostra giornata, comincia ad assumere maggiore importanza. Ma, a volerci mantenere puliti, è
solo il titanismo (l'io contro tutto, una ginnastica continua che ti allarghi le spalle al punto di
sostenere l'urto del sistema) che può permetterti di fare del lavoro un fine. Ciò è troppo, e
o si
ripiega (ed è il caso di Saverio, ma la frustrazione diviene enorme in mancanza della collettività
alternativa che non c'è) o si va innanzi, ed è la nevrosi, lo schiacciarsi contro il muro, e se (un
caso su migliaia) giunge il successo (la vittoria) tu sei ormai un altro, come il maiale di Animal
Farm che si è mutato in uomo. Nel film vi è un riferimento al maestro dei Taviani, Roberto
Rossellini. Saverio e Isabella si
incontrano e piangono dinnanzi ai cartelloni di Germania anno zero; e l'immagine del bambino
tedesco suicida tra le rovine della guerra riempie di gelo lo schermo. Noi anno zero,
perciò.
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