Rivista Anarchica Online
Dossier droga - Bravetta '80
di Stefano Fabbri
A Roma, a Milano, nelle grandi città ormai ne uccide quasi uno al giorno. Nel giro di pochi anni
si è allargata a macchia d'olio, raggiungendo i paesini più sperduti, al Nord come al Sud.
L'eroina la fa ormai da padrona: decine, centinaia di migliaia di giovani si fanno
quotidianamente, e per potersi procurare le dosi diventano a loro volta spacciatori. E quando
nemmeno questo basta, ricorrono a tutti i mezzi possibili per potersi continuare a bucare, in un
tragico circolo chiuso che pare impossibile spezzare. Tra le varie iniziative più o meno
"alternative" tendenti ad affrontare la tematica "droga" al di
fuori e contro il mercato nero, quella portata avanti dalla Cooperativa Bravetta '80 a Roma è
certo tra le più interessanti. Vi ha preso parte fin dall'inizio anche Stefano Fabbri, militante del
Coordinamento anarchico Roma Nord, autore del lungo articolo che pubblichiamo in queste
pagine. Lo proponiamo all'attenzione dei compagni, con l'intenzione di rompere il silenzio che
finora ha caratterizzato l'atteggiamento di "A" in proposito (in una decina di anni, gli articoli
dedicati alla "droga" si contano sulle dita di una mano): piuttosto che iniziare con i "soliti"
discorsi di carattere generale, preferiamo che sia questo lungo articolo - frutto di un'esperienza
diretta in prima persona, tuttora in corso - a dar fuoco alle micce di un dibattito che non può
certo fermarsi qui.
Nella seconda metà del '79, alcuni compagni di "Collettivo Politico di via del Fontanile Arenato
60/b", nel quartiere Bravetta di Roma, si assumono il compito di sviluppare nella zona una
discussione sul problema delle tossicodipendenze. A questo proposito, invitano al confronto su
questo terreno tutte le forze politiche, confronto che si apre in un circolo culturale, ex-sede del
"Comitato di Quartiere", e che vede partecipi gli altri compagni del "Collettivo", alcuni anarchici
del "Coordinamento Anarchico Roma Nord" e la locale sezione del PCI. L'ipotesi di lavoro del "Comitato
Operativo", presentata da questi compagni, si basa su tutta una
serie di proposte articolate, che vanno dalla costituzione di cooperative formate da disoccupati
del quartiere e da tossicodipendenti, nell'ambito della legge "685" e della riforma sanitaria, ad un
programma socio-terapeutico di risposta al dato delle tossicodipendenze. Si parla di sviluppare
sia centri di lavoro socio-sanitario che artigianale, agricolo e culturale, che abbiano, (chiariti i
concetti di "assuefazione" e di "dipendenza", di "droga" e di "drogato", di "emarginazione",
"spinte emotive" e "compensative"), anche lo scopo di impostare il piano dell'informazione nella
zona e di incentrare nel contempo un livello farmacologico di intervento diretto fra i
tossicodipendenti. Nella terapia viene individuato il "momento inizialmente più importante e il
più immediatamente raggiungibile, ma anche il più delicato". Mi sembra utile a questo punto
riportare la parte più significativa del programma, anche perché
poi esso sarà una delle basi del lavoro della cooperativa ed uno dei punti di riferimento delle
polemiche successive, e delle analisi che mi accingo a fare. È particolarmente importante
(si leggeva nel documento in questione) che la terapia venga
impostata in maniera corretta, per conseguire gli scopi che si prefigge, che sono quelli di ovviare
ai danni fisici e psichici, e anche, al limite, di rendere compatibili con la vita individuale e sociale
l'assuefazione e la dipendenza, limitandone i rischi (qualora la scelta non sia quella della
disintossicazione). "Terapia corretta vuol dire: terapia libera, cioè non
coercitiva. La scelta di "uscire dal buco",
per sempre, per un certo periodo (disintossicazione temporanea), o non uscirne, ma riuscire a non
morirne, deve essere una scelta personale e libera del tossicodipendente. E in ogni caso la scelta
deve essere libera non tanto, e non solo, per considerazioni genericamente garantiste, almeno per
quanto riguarda le droghe pesanti, quanto perché nessuna cura può essere efficace e risolutiva se
non tende a promuovere l'autocoscienza". "Occorre scegliere insieme" (sono sempre frasi tratte dal documento)
"i tempi, i modi, e i mezzi
della cura, smitizzando la figura del medico come figura magica, come figura-chiave della
terapia, come sacerdote che opera dall'altare della scienza. Per essere veramente libera, questa
scelta, non deve comportare rischi né ricatti". "Si è molto parlato dei motivi che
spingono alla droga, familiari, sociali, culturali, economici,
politici e anche casuali o di cattiva informazione - o più semplicemente di non avere un motivo
valido per non usarla. Ma quello che si dimentica spesso e che occorre ricordare se si vuole
operare nel solo modo che paghi in questa difficile lotta è il "mi buco perché è bello,
perché mi
piace", che sta ad indicare che il buco, dove la vita è tormentoso e insoddisfatto bisogno,
rappresenta molto spesso, almeno all'inizio, un momento di ricerca del piacere, o forse sarebbe
meglio dire di fuga dalla sofferenza. È stato detto che la morfina passa attraverso la via
del dolore. Si può dire lo stesso per l'eroina,
dove il dolore fisico sia sostituito dal dolore psichico, cioè dal dolore sociale. Anche se poi si va
incontro ad una sofferenza molto più drammatica e a una dimensione di
solitudine molto più disperante, perché la liberazione personale cercata nel buco è
fallimentare,
perché la liberazione è una dimensione collettiva e non solitaria. In questa ricerca dei motivi,
sulla quale è sempre utile il dibattito, occorre la partecipazione
attiva dei tossicodipendenti, che sono i soli a poterci far conoscere aspetti del problema che ci
sfuggono, dimensioni oscure, angolature che solo loro possono valutare, e che vanno accolte e
considerate con grande umiltà e realismo, se vogliamo riuscire a trovare soluzioni
corrette. Terapia corretta vuol dire: terapia gratificante, cioè
non-punitiva, che non deve procurare gravi
sofferenze né gravi disagi. Terapia liberante, che deve cioè liberare il
tossicodipendente dal mercato nero, con tutti i danni
individuali e sociali che questo comporta (tagli, overdose, aumento della criminalizzazione e
della diffusione, ecc.); dalla clandestinità del buco (epatiti, infezioni, ecc., dovute alle pessime
condizioni nelle quali è praticato); dalla repressione in tutti i suoi aspetti, medica, familiare,
istituzionale, poliziesca, carceraria, ecc.; dalla emarginazione in tutti i suoi aspetti ghettizzanti,
anche se istitutizzati (ospedali, ecc.); dalla dimensione di disperante solitudine, che è quella
dell'ero della strada; dalla morte, troppo spesso tragico esito delle condizioni
suddette. Terapia di recupero sociale, la terapia medica deve essere inserita in un quadro
più ampio di
interventi che tenda al recupero sociale, perché qualunque terapia strettamente medica, che tenda
a intervenire solo sull'individuo senza tener conto dei suoi strettissimi rapporti con la società, è
destinata a fallire. E non si capisce perché si continui a ritenere utopico da parte di molti
perseguire la salute della società e non la salute dell'individuo, mentre si tratta della stessa
inscindibile "razionale utopia". In merito ai "Presidi farmacologici della terapia", escludendo il
metadone (vedi scheda
"Metadone"), si identificava essenzialmente nell'eroina il veicolo necessario. "Disporre di eroina
pulita" (diceva il documento) "da somministrare in maniera controllata, e in via sperimentale, nei
centri socio-sanitari di quartiere, avrebbe un grosso significato, non solo medico, ma politico.
Perché: 1) è il solo modo valido che ci consenta di stabilire un contatto reale e non
occasionale
con il tossicodipendente; 2) è il solo modo di sottrarre il tossicodipendente al mercato nero,
e di
incidere realmente su di esso; 3) è il solo modo di lottare contro gli interventi della speculazione
sulla assistenza, da parte di coloro che trafficano sulla cura come si traffica sulla droga. Eroina
pulita non significa sottostare alla ideologia della droga, perché è anzi possibile che, perdendo
l'eroina la sua carica deviante, di rifiuto totale, cada una delle motivazioni del suo uso. Non
significa istituzionalizzarla per ghettizzarla, perché nel centro la dimensione sociale e politica
è
in primo piano. Gestire l'eroina in modo terapeutico, nel senso più ampio di questo termine,
significa invece toglierla dalle mani di chi la usa come arma contro la possibilità di una società
migliore, di chi, dopo i fermenti del '68, ha messo in moto la strategia della droga con gli stessi
fini della strategia della tensione, cioè come una vera campagna di sterminio da una parte, e di
riflusso dall'altra, per sottrarre alla lotta le forze giovanili. "Sappiamo tutti che per avere una società,
non "senza droga" (perché tutte le società, fin dai
tempi più antichi hanno fatto uso in qualche modo di droghe, e hanno imparato a convivere con
alcuni tipi di esse senza gravi danni, e anzi qualche volta con qualche vantaggio), ma senza il
"dramma della droga", occorre avere una società radicalmente cambiata, dove i giovani abbiano
spazio, una vita diversa, una speranza di espansione collettiva che possa diventare realtà. Ma questo tipo
di soluzione al problema, per cui in ogni caso si deve lottare politicamente, è una
soluzione lontana. Mentre il problema della droga è sempre più drammatico e urgente, e richiede
soluzioni urgenti. Non è possibile rimandare queste soluzioni, delegarle a una società migliore.
Non si può dire a chi muore nei vicoli o nei cessi dei bar "aspetto un momento". "È su questa
realtà che occorre intervenire con la massima urgenza ed efficienza, senza perderci
in sterili disquisizioni ideologiche sul sesso degli angeli, tipo se l'ovulo fecondato è moralmente e
giuridicamente una vita o no, o se è moralmente o giuridicamente giusto fornire gratis al drogato
un "veleno" come l'ero". Si identificavano poi dei "farmaci di appoggio" (disintossicanti ed
epato-protettori; analettici
cardio-circolatori e respiratori, decontratturanti muscolari, recuperanti metabolici ed energetici
della cellula nervosa, vitaminici, rimineralizzanti, sintomatici vari), con un discorso a parte per
gli psicofarmaci da non usarsi, o usarsi al limite con estrema cautela, dato che sono dannosi e che
possono sostituirsi alla sostanza usata nel rapporto di dipendenza e nella sindrome da evasione,
considerati una vera e propria forma di "contenzione chimica" che ha sostituito gli aborriti mezzi
di contenzione meccanica. Si concludeva facendo riferimento a psicoterapie di gruppo, alla
ricerca di ipotesi di lavoro non alienante, non ghettizzante e retribuito, "al lavoro legale di tecnici
allo scopo di proteggere i tossicodipendenti secondo le leggi vigenti", in particolare quelli che
avessero avuto problemi con la polizia, quelli detenuti senza assistenza, quelli che avessero
voluto mantenere l'anonimato, e si faceva contemporaneamente cenno alla necessità di portare
avanti un lavoro politico tendente alla lotta contro la legge "685". Infine si ipotizzavano iniziative
"culturali e ricreative" quali, incontri poetico-musicali, iniziative teatrali, biblioteca circolante,
dibattiti, fotografie e videotape. (Ma al di là di tutto questo, a causa dell'irreperibilità dell'eroina,
venne poi scelta, per l'intervento
immediato, la morfina, considerata assai meno dannosa, e più utile allo scopo, del metadone,
fermo restante l'obiettivo dell'eroina).
l'illusione legalitaria
Dopo questa "carrellata" sul progetto esposto, è necessario chiarire le differenze e le
contrapposizioni emerse all'interno del "Comitato". Inutile dire che le polemiche nacquero
essenzialmente con il Partito Comunista, i cui aderenti, lungi dall'avere analizzato i danni
provocati dalle istituzioni fino ad allora (mantenimento a metadone, medicalizzazione, ecc.),
tendevano a riproporre gli ospedali come luoghi privilegiati di cura, in antitesi con chi invece
sosteneva la fondamentale importanza di creare all'uopo dei centri di base autogestiti, al fine di
eliminare la ghettizzazione dei sanatori e di proporre finalmente rapporti ed approcci nuovi con i
tossicodipendenti. Dalla visione riformista traspariva una netta qualificazione dell'individuo
tossicodipendente come malato il più delle volte cronico; mentre dall'altra parte si insisteva sulla
necessità di eliminare le costrizioni dovute alla ricerca clandestina delle sostanze stupefacenti,
costrizioni e "sbattimento", cause prime della stragrande maggioranza degli incidenti mortali e
dei problemi dovuti alla tossicodipendenza, le cui "valenze" si sarebbero dovute ricercare
viceversa nel complesso delle repressioni sociali e delle condizioni di vita. Altro punto di attrito il
"mantenimento" che, come abbiamo visto dal programma, veniva
identificato come un momento importante per evitare ogni discorso di scalaggio forzato, e per
incidere sul mercato nero; e che se previsto, avrebbe dato la possibilità, non costringendo
nessuno ad "uscire" dalla dipendenza con comandi a bacchetta, di instaurare anche un clima di
onestà fra gli "operatori" e gli "utenti", in modo di permettere a questi ultimi di tentare, se lo
avessero voluto (e quindi anche in maniera non definitiva), di diminuire il numero di fiale da
assumere, senza che ciò comportasse per loro la stabilizzazione della terapia a livelli inferiori in
caso di fallimento della "prova". Ma anche questo non andava giù ai bravi ragazzi del partito. In
poche parole essi venivano ripresentando la demonizzazione delle sostanze stupefacenti,
identificando ancora una volta nel loro uso il pericolo maggiore: si sarebbe dovuto quindi
spingere con ogni sorta di pressione verso lo scalaggio, senza curarsi troppo di ogni eventuale
"ricaduta" dei tossicomani nel mercato nero, e apparentando così il centro "autogestito" a
qualunque altra istituzione medicalizzante. A questo proposito vennero ritenute allora scandalistiche anche le
tesi tendenti a far sì che
l'eroina fosse resa reperibile e potesse essere usata. Emergevano quindi ancora una volta visioni più o
meno colpevoliste nei confronti dei
consumatori, e non i grandi interessi (perché legati ad equilibri di potere, e la lotta ai quali
necessita almeno di una visione "non garantista" nei confronti delle istituzioni). Visioni
falsamente moraleggianti, che sarebbero andate a convergere necessariamente nel solito discorso
repressivo indiscriminato, e di controllo. Infatti anche a questo proposito vennero subito avanzate
proposte atte a mantenere le schedature; proposte che avevano anche l'obiettivo di non
riconoscere ai compagni che avrebbero lavorato nel centro, delle qualifiche specifiche, al fine di
immettere essenzialmente dei "tecnici" all'apice della sua gestione, onde svilirne i contenuti
autogestionari e rendere impossibile la discussione pubblica delle terapie. (Insomma il risultato di quel pasticcio
di ignoranza e repressività, caratteristica dominante nei
cervelli di coloro che intendono il "cambiamento sociale" come razionalizzazione dell'esistente). In quel periodo
io avevo già aderito all'iniziativa, e mi andavo interessando soprattutto dei
disaccordi interni, al fine di preservare con gli altri compagni, le basi di una intesa
antiistituzionale. A questo proposito i "disguidi" manifestatisi col PCI non mi sorpresero né
meravigliarono di certo. Infatti ben conoscevo già le posizioni di questo partito, sempre più attivo
in senso totalizzante all'interno della forma-stato, e negli ultimi anni in particolar modo, nella
tendenza generale alla criminalizzazione ed alla istituzionalizzazione globale. Ma, pur collocandomi "dentro"
il progetto, vi erano in esso diverse cose che già mi lasciavano
perplesso. Innanzitutto l'accenno alle cooperative nell'ambito della "285", non valutata a pieno
(in quanto legge-truffa) nei suoi aspetti fondamentalmente demagogici, e tesi alla divisione del
movimento di lotta sul sociale. Mi sembrava carente soprattutto sul piano dell'analisi politica ed
economica delle tendenze messe in atto dal capitalismo. Tendenze all'emarginazione
"controllata" sul piano della demagogia come su quello della repressione, e che facevano
chiaramente intendere come sarebbe poi stato estremamente aleatorio illudersi di strappare
concessioni economiche al di fuori di ogni logica che non fosse apertamente assistenzialistica, e
che non contemplasse il necessario richiamo alla pace sociale, imposta dallo stato. L'illusione sulla
"685", ben si sposava al punto sulla "psicoterapia di gruppo"; un discorso
estremamente difficile a farsi, poiché, anche se nel programma la si preconizzò come "non
strumentalizzata come manipolazione della coscienza per una reintegrazione passiva nella realtà
produttiva e repressiva, ma intesa come mezzo per arrivare insieme, con l'aiuto iniziale di uno
psicologo, ad una presa di coscienza individuale e collettiva che sia liberazione e crescita
politica", tali pratiche possono assumere nel tempo, e soprattutto in assenza di collegamenti con
strutture di lotta antiistituzionali (che sappiano innestare il discorso complessivo in quello
puramente rivendicazionista) facilmente la valenza di surrogati della lotta, "sostitutivi". Così
come i riferimenti alla ricerca del lavoro "non alienante", "non ghettizzante", e retribuito per tutti,
se distaccati da una pratica complessiva di incidenza, e di cosciente aggregazione rivoluzionaria
(cioè non illusoria, riguardo allo scontro di classe), rimangono spesso "contentini dati
all'immaginazione", nella realizzazione dei quali far sperare, oppure, qualora nascano
contraddizioni antagoniste, elementi di divisione dello strato, recuperabili all'interno di logiche
clientelari, o, al limite, in quella delle "isolette rosse". Lo stesso dicasi delle "iniziative culturali e
ricreative", soprattutto qualora queste vengano fatte rientrare essenzialmente nell'ambito
"specifico" di un singolo problema; facili a scadere in vuote pratiche demagogiche e
"corporative". Inutile dirlo, specie quando sono protese essenzialmente alla ricerca
dell'interlocutore istituzionale piuttosto che al contatto con la popolazione o all'aggancio (anche
critico) con le strutture di base, e con i bisogni reali, non mistificati dalla presenza dei
"mediatori" istituzionali, i quali invece sono fra i "naturali antagonisti" di ogni processo
autogestionario. I limiti del programma (che si dimostreranno in seguito essere non soltanto "formali") andavano
ricercati, a mio avviso, soprattutto nella mancata valutazione (critica ed approfondita) della
necessità della lotta globale sul sociale, e nella assenza, in prospettiva, di ogni piattaforma di
costruzione di un movimento alternativo di base, forte e complessivo. Ma, comunque sia, questa
esperienza non può essere liquidata qui, in modo spicciolo, dal momento che ha sviluppato anche
tematiche utili; ed è apparsa, pur tra mille contraddizioni, un momento cardine della "lotta
all'eroina" (e non solo per Roma), poiché ha contenuto in sé anche i germi di un impegno
concreto nella lotta più generale per una migliore qualità della vita, trasferito nel campo delle
tossicodipendenze.
l'avvio dell'azione politica
Il vero e proprio avvio dell'azione complessiva della "Cooperativa Bravetta '80" (all'epoca appena
costituitasi come tale), lo si ebbe, nei giorni immediatamente successivi alle polemiche che ho
poc'anzi riportato, con l'occupazione di un sanatorio ormai in disuso da 8 anni, sito nel quartiere,
e che, pur essendo di proprietà di un privato, era stato inserito dal Comune fra gli stabili da
adibire a "scopi sociali" (e perciò in via di esproprio), che si pensava potesse venire concesso, per
gli usi socio-terapeutici auspicati. Fu appunto in occasione di questa azione, che i "nodi" delle
polemiche col PCI vennero finalmente "al pettine". Infatti la "parte" del "Comitato" (e della
Cooperativa) vicina a questo partito era contraria a mantenere l'occupazione (chissà quante volte
l'avranno rimpianto), che volevano si trasformasse da permanente a "simbolica". Dimostrando, almeno allora,
una determinazione non solo rivendicazionista, e volontà di lotta, la
maggioranza dei compagni (e di "Bravetta '80") decise di rimanere all'interno dei locali, dove
venne subito inaugurata la pratica della ricettazione, che avrebbe dovuto poi continuare fino ad
oggi. Ciò provocò l'allontanamento definitivo del PCI dall'iniziativa, e la dipartita degli aderenti
a questo partito "di governo e di lotta" dall'interno della cooperativa (ma, la cosa, seppur
traumatica, non segnò, per alcuni, che la fine "formale" dei rapporti politici con costoro). Nei giorni
seguenti, e fin dopo lo sgombero forzato dei locali, avvenuto grazie al solerte
intervento delle "forze dell'ordine", si cercò di elaborare un programma per l'immediato futuro e
di stringere rapporti con altre componenti di "movimento", ma, nonostante gli sforzi, ed un po'
per l'impreparazione politica di queste strutture a riconoscere l'importanza dell'iniziativa nel suo
complesso, venne persa l'occasione per organizzare subito delle lotte (vedi ricettazione alla
Circoscrizione ad esempio) che costringessero le istituzioni a "ratificare" in qualche modo la
presa di "possesso" ed a premere eventualmente sul proprietario dello spazio in questione,
autogestito nel frattempo dai compagni e dai tossicodipendenti. Né questa, né altre strade
vennero battute, (nonostante qualcuno si credesse già allo Smol'nyj) e ci si trovò invece spesso a
parlarsi addosso e ad illudersi sulla difendibilità delle posizioni acquisite, senza tenere in molto
conto neanche la possibilità di "coinvolgere" il quartiere. Questo determinò che, dopo la cacciata
(e le puntuali denunce dei presenti) ci si ritrovò semplicemente a dover ricettare nella sede del
"Collettivo Politico" (che da allora diventerà la sede effettiva di ogni lavoro); ed i rapporti che si
ebbero inseguito con i rappresentanti dei "poteri locali" partirono subito da condizioni di
debolezza (con gran soddisfazione del PCI, e dei suoi amici). Fu così che, alle prime richieste di
finanziamenti, atti a coprire le attività "terapeutiche", e quelle collaterali, non trovarono difficoltà
ad esprimersi (neppure con "eleganza") in maniera pesantemente reticente. Per parecchio tempo dopo, la linea
di pura e semplice "rivendicazione" portata avanti, continuata
allo spasimo, con uno stillicidio di chiamate in Circoscrizione, prese in giro ed "incontri al
vertice", (secondo il copione delle "istituzioni democratiche"), rinvii, e promesse non mantenute,
non fece altro che confermare la carenza di analisi e la mancanza di "mordente" presenti fra i
compagni. E fu proprio ciò a permettere che lo stesso PCI (spiazzato, nonostante tutto, dalla
"mossa" dell'occupazione, e da quel po' di notorietà che alcuni articoli sui giornali le avevano
conferito) cominciasse a riprendere terreno rispetto all'iniziativa, all'interno della quale
conquistava sempre più spazio l'ala "legalitaria" a scapito dell'immobilismo delle altre
componenti, troppo perse in diatribe "massimaliste" con i propri "corrispettivi" di "movimento"
su astratte questioni di principio concernenti spesso la "rivoluzionarietà" delle prescrizioni di
morfina (ed in questo modo della risposta, diretta, al bisogno primario dei tossicodipendenti),
così come della lotta alle istituzioni sul piano delle "necessità proletarie", e quindi della giustezza
o meno di "riappropriarsi" di fette di "danaro pubblico" o di locali, eventualmente da "strappare"
alla Circoscrizione. L'ala "legalitaria" coltivava intanto l'illusione di "rendere partecipi" le
istituzioni dei "problemi" della base della "cittadinanza", rapportandosi ad esse in una maniera
mite e contenuta. Intanto, "seguendo una curva in ascesa, sempre più preoccupante" (come scrivono i
giornali
scandalistici) le morti di mercato dovute all'eroina (mentre nel nostro quartiere questa sostanza
cominciava a perdere acquirenti), si andavano via via moltiplicando, in misura del crescente
dilagare della disgregazione sociale complessiva. E fu anche in seguito a ciò (oltre che per premere sulle
"autorità", che nel frattempo avevano
cominciato a manifestare un certo "nervosismo repressivo") che si decise, per smuovere le acque,
di promuovere una manifestazione a Roma, la quale si organizzò insieme alle compagne del
"Collettivo Eroina del Governo Vecchio" (componente radicalmente antiistituzionale, che già
aveva svolto in precedenza una forte opera di controinformazione) e che si svolse con la
partecipazione di qualche centinaio di persone, ed alla quale aderì anche il "Coordinamento
Anarchico Roma Nord", del quale faccio parte.
arrivano i radicali
In quell'occasione si verificò il primo tentativo di strumentalizzazione dei "contenuti" della
cooperativa, operato dai radicali. Ma il loro oratore venne però letteralmente cacciato "dalla
scena", anche con modi di fare un tantino bruschi, "forse" dettati dal fatto che, come al solito,
voleva (per restare in linea col suo partito) "dare carattere" alla manifestazione, proponendola
quasi come se fosse stato lui ad organizzarla, o il PR, in effetti "presente" sì, ma in tutt'altre sedi
(parlamentari, soprattutto). La "cacciata del radicale" sarà stata forse un po' maleducata, ed un
pochino esagerata; ma nei mesi successivi l'atteggiamento di questo gruppo politico ha dato
senz'altro ragione a chi la operò. Manifestazione alla quale si registrò, invece, la decisa
opposizione del "Coordinamento Romano
di Lotta all'Eroina", comprendente la "Commissione Eroina Roma Sud" (Alberone), ed i
Collettivi degli ospedali "Policlinico", "San Camillo", "San Filippo", e "Sant'Eugenio", oltre ad
altre vaghe "Strutture Territoriali" gravitanti nell'orbita dell'Autonomia. Scambiando quella manifestazione per
un fatto "elettorale" (non si capisce con quale criterio: gli
slogans erano semmai contro le elezioni), ed aggiungendo la pesante accusa secondo la quale si
sarebbero volute "strumentalizzare" le morti di mercato (quando tra i promotori vi erano madri di
tossicodipendenti morti), essi intendevano colpire le proposte di "legalizzazione", fornendo alle
stesse peraltro anche critiche degne di nota, che andremo poi ad analizzare), e delle quali, tra
l'altro nessuno dei presenti si era mai fatto carico direttamente, e senza rendersi conto
sostanzialmente delle possibilità aperte dalla presenza del "morfinaggio autogestito", e dal ruolo
importante che esso avrebbe potuto rappresentare nello stimolo alla formazione di un possibile
schieramento antagonista, teso al superamento di quella reale barriera (questa sì imposta dalle
istituzioni, dagli ospedali, e dal mercato) calata fra tossicodipendenti e "rivoluzionari". La possibilità
di avvicinare l'intervento diretto, con la morfina, alla più vasta estensione del
fronte delle strutture di base (se autogestite), l'eliminazione (almeno parziale) delle condizioni di
debolezza politica (divisione, ricatto, tempo dedicato alla sola ricerca di stupefacenti), che
impediscono ai giovani proletari tossicodipendenti di lottare, non sono state minimamente prese
in considerazione da questi paladini della lotta... alla legalizzazione. Ed ignorate erano anche le
posizioni di almeno parte della cooperativa, tendenti proprio a smitizzare "l'impossibilità" di
sconfiggere "la sostanza forte", ricomponendo gli interventi "su di essa" all'interno dei settori
proletari coscienti, per la duplice via della sensibilizzazione sulle responsabilità reali di tutte
le
forze del dominio (secondo un più vasto discorso politico) e della prassi dell'azione diretta sia
sul piano del bisogno "indotto" (ma reale), e del quale comunque non si voleva diventare
semplici "appagatori", o "controllori", che su quello delle altre necessità primarie.
i primi contrasti col "movimento"
Ma vagliamo attentamente (tramite un confronto con un documento della "Commissione Eroina
Roma Sud") le posizioni di questi compagni. Andiamo per ordine. Il documento esordisce
dicendo che l'eroina è "principalmente uno strumento di controllo sociale", e che i
tossicodipendenti sono costretti dai costi altissimi ad uno "sbattimento quotidiano" che
"praticamente li impegna come se fosse un lavoro". Denuncia poi "la pessima qualità dell'eroina
tagliata, in modo tale da causare morte e malattie", e definiscono la condizione generale di chi ne
fa uso di "estrema ricattabilità da parte dello stato", ricattabilità determinata "dalla repressione e
dalla criminalizzazione". In una analisi critica rivolta alle organizzazioni rivoluzionarie, riguardo
al loro porsi rispetto ai tossicodipendenti sia nell'atteggiamento di "esclusione" ad essi rivolto che
in quello di "recupero", il documento continua affermando che bisogna riflettere su questo
"partendo dalla constatazione che la maggioranza di chi si buca fa parte di quel "proletariato
giovanile" che ha espresso, e può esprimere, livelli di conflittualità e di lotta tali da preoccupare
seriamente il sistema". E che quindi è "necessario porsi il problema non certo del recupero
(logica che prevede - sempre secondo loro - una staticità, dei dogmi che non bisogna avere)
ma
della riattivazione, che non potrà esserci se non si dà nuovo impulso alle lotte, sulla base di
un'analisi che colga in primo luogo il senso dei profondi mutamenti interni alla classe e che
critichi costruttivamente le nostre strutture ed il nostro modo di organizzarci". E fin qui potrei sottoscrivere tutto.
Ma aggiungerei volentieri che, oltre a fare attenzione ai
profondi mutamenti interni alla classe (e la diffusione delle tossicodipendenze fra gli sfruttati è
certamente un elemento che salta agli occhi e che dovrebbe proprio far comprendere, a questo
proposito, quanto sia necessario ormai "scendere" sul piano della tossicomania per combatterla),
ed a criticare le nostre strutture e il nostro modo di organizzarci, bisognerebbe anche criticare le
indicazioni fin qui seguite dalle organizzazioni "di classe" in genere, nel rapportarsi alla
tossicodipendenza, in modo di far maturare il discorso in maniera più "squisitamente" politica,
allargandolo anche a molti altri campi d'intervento sul sociale. Pare infatti che non si riesca (altro
che casualmente) ad uscire dal doppio binario "assistenzialismo-purismo". Il documento in questione continua
poi dicendo che ormai la scelta dell'eroina "avviene quasi di
conseguenza, ed è quasi una tappa obbligata nella vita, soprattutto nei proletari più
giovani".
Tutte cose queste, quindi, che i compagni dell'Alberone (CERS) riconoscono con acume, e dalle
quali mi sembra esca con evidenza la necessità di un intervento il più diretto possibile.
Ma cosa
trattiene allora, a questo punto, dall'intervenire direttamente con "la sostanza"? E cosa spinge gli
estensori del documento a criticare iniziative che contemplino anche questa pratica? Mi sembra di capire che,
il primo dubbio che li spinge a prendere le distanze, riguardi le
"capacità autoorientative" dei tossicodipendenti, rispetto a tutta una serie di costrizioni, e di
manipolazioni, operate su di essi dal potere. Infatti cito letteralmente: "va detto che è
fondamentale, nel momento in cui un tossicodipendente vuole uscire dall'eroina, il concetto che
si ha di questa (e che gli stessi consumatori hanno) come una sostanza forte, che possiede
l'individuo, e che quindi è difficile smettere di usare se non si è aiutati dal tecnico.
È quindi
ovvia la delega che viene data all'istituzione sanitaria, e il conseguente aspetto
psicologico che
ne consegue. Infatti se l'accettazione dell'eroina come bisogno può essere considerato un rifiuto a
questa società (noi diciamo sbagliato e indotto da ciò che la società ti nega) questo rifiuto
tende
ad essere recuperato, o almeno normalizzato psicologicamente dall'istituzione sanitaria, o socio-sanitaria (centri
sociali, comunità terapeutiche, cooperative, ecc.). Comunque quest'ultimo
aspetto è ben lontano dall'essere funzionale anche se è nei progetti dello stato". Ed
è qui che
cominciamo a divergere dall'Alberone, perché ogni centro sociale, cooperative, ecc., siano
istituzionali o no, viene posto sullo stesso piano. Per quanto sia importante rilevare i motivi che
mettono i medici su un piano di superiorità nei confronti dei tossicodipendenti, bisogna pur
chiarire che ciò è dovuto anche a fattori "oggettivi". Cioè al peso che le
strutture dei vari "istituti
di cura", comunità pseudo-religiose o pseudo-democratiche (vedi circoli della "allegra" gioventù
di sinistra egemonizzati dal PCI, ecc.) hanno, ed alle valenze politiche che ne contraddistinguono
l'azione, (e che non hanno niente a che vedere con potenziali strutture di base), da una parte, ed
all'obiettiva situazione di debolezza rispetto alla conoscenza della medicina (che diventa poi
debolezza di fronte alle crisi di astinenza e spesso anche alla morte), dall'altra. Perché allora non
cercare di ribaltare in qualche modo queste "debolezze", tramite l'azione diretta (e non
assistenziale) di centri di base? Anzi proprio visto che è "ovvia la delega che viene data
all'istituzione sanitaria, e il conseguente aspetto psicologico", e dal momento che "il rifiuto della
società insito nell'eroina tende ad essere recuperato, o almeno normalizzato psicologicamente
dall'istituzione sanitaria o socio-sanitaria (centri sociali, comunità terapeutiche, cooperative,
ecc.)", se non si vuole fare un discorso tutto individualistico, e teso quindi al rifiuto di ogni
"centro sociale", in astratto, o perché si nega ogni possibilità di validità a qualsivoglia
struttura
alternativa (ed una di queste potrebbe essere anche il "Comitato dell'Alberone" contro l'eroina),
perché, invece di lanciare "anatemi" tesi a colpire a "destra" ed a "sinistra" con la stessa
"intensità", non si apre un dibattito su cosa un "centro sociale" dovrebbe essere, e su come si
dovrebbe rapportare l'emarginazione giovanile, essendo questa un dato di fatto? Personalmente
ritengo che queste debbano essere le questioni da porsi, dopo di che, se dibattito ci deve essere,
che ci sia! Ed allora si potrebbe andare a vedere se, ogni volta che si realizzano dei "centri sociali", essi
debbano subito essere "bollati" come un qualcosa di istituzionalizzante (sia pure "in buona
fede"), solo perché prendono in esame dati di fatto e cercano di interpretarli per agire
concretamente sulla realtà, (ed allora ogni "struttura", a questo punto potrebbe seguire la stessa
"sorte", oppure se vanno bene valutate le spinte di fondo che ne animano i componenti, ed i fini
sociali che si prefiggono in prospettiva e nell'immediato, ed i correttivi atti a mantenerli. Bisogna
fare attenzione a non cadere in forme "logiche" manichee, in questo senso, perché altrimenti si
corre il rischio di classificare immediatamente (e senza dubbio alcuno) ogni discorso terapeutico,
sociale nel senso della rivalutazione della socialità, sociologico, come discorso
istituzionalizzante. E questo sarebbe pericoloso oltre tutto anche ai fini dell'analisi in generale,
dal momento che si rischia di condannare e stigmatizzare ogni sperimentazione come
"reazionaria", e di rivalutare quindi, di concerto, ogni forma di dogmatismo. Mentre, specie
quando si ammette che il progetto statuale di recupero in questo campo è "ben lontano dall'essere
funzionale", allora ancora con più forza dobbiamo individuarne le contraddizioni, al fine di
contrastarne l'evoluzione, e non ci si può, ancora una volta, limitare a lanciare segnali d'allarme e
"generiche" esortazioni verso gli sfruttati, quando poi ci si priva degli strumenti atti ad invertire
la linea di tendenza. Quando ad esempio non si ipotizza l'utilizzazione di compagni medici, nel
concreto, e ci si limita a lanciare "anatemi" contro i "tecnici".
come uscire dal tunnel?
Fin qui, comunque, è facile capire. Spinte verso la sfiducia in ogni "attività di recupero" (termine
quanto mai ambiguo) oggi sono più che legittime, visti i livelli esistenti (ed anche a causa della
carenza di dibattito su questioni così importanti). Sono invece di più difficile comprensione
affermazioni del tipo: "visto che la crisi d'astinenza dura soltanto tre giorni, raggiungendo il
massimo di sintomatologia nella terza giornata, per poi diminuire, chiunque può controllarla
facilmente" (frase contenuta nel documento dell'Alberone), perché ciò è falso. Infatti,
se è vero,
(come specificano anche loro) "che esistono delle sostanze morfino-simili prodotte all'interno del
nostro corpo, o del nostro stesso cervello, (encefaline, endorfine, ecc.), le quali si ritiene abbiano
a che fare con il tono dell'umore e con la percezione ed il controllo del dolore da parte del
cervello", e che questo porta a chiarirci "come la dipendenza diventa la conseguenza di un
processo fisiologico molto ben conosciuto dalla scienza medica, che fa che ogni qual volta si
somministri dall'esterno una sostanza che il nostro organismo produce in tassi autoregolati, si
causa un blocco nella sede di produzione di questa, proprio come succede per gli ormoni", e che
proprio "come accade con il cortisone, se ne sospendiamo bruscamente la somministrazione,
provochiamo una sindrome di carenza, perché la ghiandola che lo produce è bloccata, ed ha
bisogno di alcuni giorni per ritornare ad un regime di produzione normale", e che così si spiega la
sindrome d'astinenza; è invece difficile con tutto cioè demimetizzare "la cosiddetta schiavitù
della droga", "uno dei più grossi stereotipi impostici". Infatti bisogna aggiungere che, anche se il
"recupero" è possibile, e in senso strettamente medico forse tecnicamente più facile di quanto
ci
hanno abituati a pensare, esso richiede tempi lunghi e grande impegno. Non è vero che due o
dieci giorni di disintossicazione forzata bastino a cancellare la dipendenza fisica, e che "ricadute"
siano dovute a motivazioni solo psicologiche. L'equilibrio fisiologico abbisogna di almeno 6
mesi per ripristinarsi senza la droga. E anche questo dato vale solo per quanto ci consentono di
accertare gli insufficienti controlli di cui disponiamo. Ed anche se in alcune circostanze crisi
d'astinenza vengono affrontate da diversi tossicodipendenti (nelle carceri soprattutto) senza che
essi alla lunga ne riportino gravi danni, le crisi d'astinenza possono essere gravissime e
dolorosissime (e arrivare fino alla morte). I sintomi sono: tremori, pelle d'oca ("tacchino freddo"
è l'espressione in gergo inglese), sudorazione profusa, lacrimazione e rinorrea, vomito anche
ematico, diarrea, dolori addominali e muscolari con contrazioni paurose, convulsioni, midriasi,
depressione respiratoria e cardiocircolatoria, e non possono, nella stragrande maggioranza dei
casi, essere affrontati "con una serie di farmaci anche tra i più comuni che li curino al loro
apparire" come affermano all'Alberone. Ed i trattamenti repressivi carcerari (basati appunto su
interventi di questo tipo) lo dimostrano (vedi l'alto tasso di suicidi). Per quanto riguarda poi
l'eroina pura, è vero, come scrivono i compagni di cui si parla, che la
sua tossicologia è praticamente nulla, anche per somministrazioni a lungo tempo e in dosi forti.
Ed è altresì pressoché certo che si può affermare che, qualora "venga somministrata
in dosaggi
farmacologicamente controllati, tagliata con sostanze non nocive, non determina importanti
alterazioni di organo", e che, "esistono in realtà droghe molto più potenti dell'eroina, di cui per
motivi culturali non conosciamo gli effetti per il nostro organismo, anche se ci circondano e ne
facciamo uso giornalmente (alcol, psicofarmaci, ecc.)", come è assolutamente certo che lo stato
consente (e stimola) molte altre forme di suicidio e di omicidio. È certamente legittimo chiedersi
"come mai invece l'eroina viene vissuta sia dai consumatori che dalla gente come la sostanza che
uccide, che rende criminali, che permette di sopravvivere, ma ti possiede inesorabilmente, e che
lo stato, per nascondere il suo fine (diffonderne l'uso come mezzo di controllo sociale, ed
emarginare i "drogati" per meglio controllarli) ne giustifica la diffusione attribuendo ad essa il
ruolo di sostanza "forte", ma comunque non si può fare per l'eroina tagliata lo stesso discorso
che per l'eroina pura (la quale se tagliata giova certamente di più ai fini della riuscita di questo
intento). Lo stato, certamente, si giova di questa "qualifica" concessa all'eroina: a) per indebolire
chi vi soggiace e per farne veicolo della più generale ideologia della passività; b) perché
come
sostanza "forte", viene ritenuta difficile da combattere, e quindi se ne giustifica "la diffusione"; c)
perché tramite il "fascino" del proibito, se ne garantisce la "appetibilità"; d) perché serve
come
veicolo di consenso per i suoi apparati repressivi e di divisione fra i proletari "diversi" (in realtà
in maggioranza disoccupati con grande carica antagonista), e quelli ligi alla "normalità", e poi,
come abbiamo già visto, perché rende più difficile il tentare di uscirne "da soli". Ma se
è vero che l'eroina tagliata è molto più pericolosa (e sappiamo chi ne fa le spese), allora
cosa proporre? Non è realistico pensare che si possa eliminare l'eroina esortando alla lotta i
tossicodipendenti sui "bisogni proletari" di casa, salario, ecc.; o creando, semplicemente, dei
"centri d'aggregazione" che non contemplino anche un intervento specifico a partire dalla
sostanza (in modo da "espropriare" le istituzioni del loro monopolio in questo senso). Invece il
tutto può diventare molto più facile se si parte dall'assunzione della condizione di maggiore
debolezza espressa da questo strato (che comunque non fa "classe" a sé, e ciò non è
importante),
per far "discendere" la "prassi" delle organizzazioni degli sfruttati al suo livello. Né ci si può
basare sul volontarismo, chiedendo essenzialmente uno sforzo di volontà ai tossicodipendenti
(magari in nome "dell'integrità della classe"); cosa che può essere eticamente ineccepibile
se
basata sull'esempio, e quindi se "richiesta" agli stessi "individui rivoluzionari", tesi a dare
esempio di sé. Ma non è proponibile, anche per una questione etica e morale, se tesa alla
comprensione del reale, oltre che per motivi "politici", se rivolta incondizionatamente "alle
masse" degli sfruttati, in quanto l'approccio con essi deve necessariamente partire "dal basso",
cioè dalla concreta situazione esistenziale. E deve quindi essere semmai "il rivoluzionario" a
mettersi nei panni del "lavoratore", dell'emarginato, ecc., quando ad elaborare delle linee di
intervento (se non vuole che risultino estranee e semplicemente "avanguardiste") che abbiano
perlomeno la presunzione di essere aggreganti (e non dico libertarie), cercando anche con
umiltà
la comprensione dei fenomeni "dal di dentro" quando si interviene, (cosa sia meglio e cosa sia
giusto). Il sacrificio di vasti settori del sottoproletariato, consumato sugli altari dell'ideologia (o della
"linea politica"), ha significato storicamente anche il sacrificio dell'intelligenza del
"rivoluzionario". Se così preso "l'ideologismo", nel senso di mito dell'ideologia, intesa come
insieme dogmatico, con "verità" ormai tutte stabilite, (e non volendo con questo assolutamente
allinearmi a quella sorta di conformismo attuale che condanna tutte le ideologie in quanto tali, ed
il loro grande contributo passato e presente alla causa della libertà) è uno degli ingredienti
indispensabili ad ogni buon cocktail tecno-burocratico, e perciò dai libertari attenti è sempre stato
ripudiato. Compito nostro è analizzare la realtà, tenendo presente naturalmente che in qualunque
campo si
incorre in errori, ma che sempre, quando si vuole "incidere" bisogna calarcisi (facendo sempre
attenzione a che i nostri mezzi rimangano antiistituzionali ed antiautoritari come i fini che ci
proponiamo) e per far sì che "il movimento" pretenda e si estenda nella società,
coscienti che
non esistono ricette magiche valide per ogni situazione, ma che è essenziale operare sui "bisogni"
direttamente, a partire dagli stessi, per farne veicolo (e sperimentando con la pratica, e
"aggiustando il tiro" gradualmente) di maturazione sociale finalizzata alla rivoluzione, ed
all'autogestione effettiva (noi diremmo all'anarchia).
istituzioni e legalizzazione
Un altro settore importante del documento dell'Alberone riguarda le varie proposte di
legalizzazione. Come questi compagni dicono subito, ogni proposta di legalizzazione (come tutte le
proposte
istituzionali, aggiungerei) si pone come soluzione medica (in questo caso) ad un problema che
medico non è, riproponendo in sé immancabilmente la congettura secondo la quale i
tossicodipendenti sarebbero, prima di tutto, dei "malati". Per quanto riguarda "il dettaglio", tutte
le proposte finora presentate falliscono, in sé, in pieno, i presupposti che dicono di prefiggersi:
tutela sanitaria e sociale dei consumatori e lotta al mercato nero. Si parla infatti, innanzitutto, di eroina
distribuita solo ai tossicodipendenti in corso di cura, o a
quelli accertati, e la "Commissione Eroina Roma Sud" ha ragione in questo quando dice che tutte
e due questi tipi di proposte non abbatterebbero il mercato nero, perché lascerebbero alla
mercè
di questo tutta quella grossa fascia che usa saltuariamente l'eroina, o che non vuole giustamente
legarsi all'istituzione, e poi in quanto, per venire "dichiarati" tossicomani (e quindi "meritevoli"
di eroina pura) i consumatori dovrebbero passare necessariamente attraverso lo stesso mercato
nero, con tutto ciò che questo comporta. Si raggiungerebbe quindi, solamente un'altra forma di
istituzionalizzazione del mercato nero, mentre la "tutela sanitaria" verrebbe ristretta solo al fatto
di evitare la morte di soggetti che hanno molte probabilità di avere già contratto le patologie
collaterali all'eroina tagliata. Vi è poi un'altra tendenza che prevederebbe la distribuzione di eroina
a tutti i consumatori,
tramite la quale si potrebbe ottenere un effettivo abbattimento del mercato clandestino, e quindi
una conseguente tutela sanitaria, fermo restando però la considerazione "tossicodipendente
uguale malato". Ma (si aggiunge nel documento) questa ipotesi è generalmente scartata perché
viene ritenuta pericolosa, in quanto "potrebbe produrre un allargamento del consumo", (cosa
assurda a sostenersi, se, come abbiamo visto, è l'unica che può incidere sul mercato clandestino,
e che quindi può fortemente demotivarlo). Si può affermare, quindi, che tutte le proposte di
legalizzazione rappresentano (per lo stato) una
razionalizzazione dello strumento di controllo sociale eroina, perché ottengono la non
estinzione
del fenomeno, e in particolare, del mercato nero, e una maggiore possibilità di controllo, tale da
eliminare le contraddizioni esplosive all'interno del tessuto sociale, quali ad esempio le morti. "Si
tratterebbe quindi di provvedimenti che non cambierebbero sostanzialmente la situazione, ma
la modificherebbero solo nel senso di diminuire le contraddizioni più eclatanti, affinché da una
parte non si prenda coscienza del fenomeno, e si deleghi con maggior fiducia alle istituzioni la
soluzione del problema, e dall'altra si istituzionalizzi, e normalizzi il tossicodipendente come
nuovo soggetto sociale, e come se non bastasse tutto questo c'è da aggiungere che la
legalizzazione porterebbe ad un controllo molto più costante ed ossessivo da parte delle
istituzioni, giustificato strumentalmente dalla necessità di non allargare il consumo attraverso i
centri. Questo controllo è quello che passerebbe attraverso schedatura con i tesserini (noti
probabilmente anche al Ministero degli Interni), obbligo di frequenza, quindi dipendenza dal
centro, ecc.". Fin qui, grosso modo, le posizioni contrarie alla legalizzazione espresse dalla "Commissione
Eroina Roma Sud"; posizioni che in linea di principio non posso che condividere. Non troverà
invece la mia partecipazione il loro eccessivo entusiasmo per quello che definiscono "lo slogan
liberalizzazione", e che poi, lo vogliano o no, per quanto mi risulta viene recepito come un
obiettivo di lotta. Ritengo infatti che, non solo legislazioni "legalizzatrici", conservino in sé, oltre ai
limiti formali,
anche quelli sostanziali di essere appunto degli "strumenti legali" (e quindi consegnati nelle mani
esclusive del potere, ed alla mercè delle sue arbitrarie interpretazioni); ma anche quelle
"liberalizzatrici". A meno di non fare un discorso "liberale" di "stato di diritto", infatti, (e sempre
al di là dei limiti formali, che anche per una eventuale proposta di liberalizzazione potrebbero
essere molti, a carattere monopolistico o di libero mercato, ed usati ai fini, se non del controllo,
magari del consenso, che ne è l'altra faccia della medaglia), ben sappiamo che nell'autorità del
legislatore sta anche la capacità di gestire e manovrare secondo i "sacri dettami", se questa
autorità gli viene riconosciuta. Il punto, quindi, semmai è un altro, e va ricondotto nel suo luogo
preciso, dove risiede lo scontro sociale. Al "Movimento", quindi, sta il ritrovare la capacità di
gestire (e di creare) le contraddizioni del "sistema", qualora ne sviluppi la forza necessaria, ed in
base ad essa, fare "battaglie politiche" che gli consentano più libertà, più agibilità
degli spazi
sociali, più capacità di rinfocolare la volontà antagonista ed offensiva. Una delle ragioni
per cui non sono mai stato propenso a che la cooperativa "Bravetta '80" si
schierasse esplicitamente a favore di leggi "innovatrici", è senz'altro questa. Lo scopo delle
iniziative di base è quello di pretendere gli spazi utili con la lotta, non di favorire più o meno
"nuove" normative. Nel caso specifico, noi dovremmo imporre, con azioni ad ampio respiro, la
non schedatura dei tossicodipendenti, la possibilità di autogestire le terapie, e di reperire le
sostanze al di fuori di ogni costrizione burocratico-repressiva. Ed anche ai più aperti
provvedimenti dello stato noi risponderemmo con scetticismo, non riconoscendo la legittimità
del controllo di stato su questo come su nessun'altro problema, ma volendo investire nel
problema del controllo sociale unicamente le strutture di base autogestite. In questo senso la
nostra lotta è contro il controllo dei centri istituzionali, e per l'autocontrollo di massa, per la
frantumazione dei ruoli dirigenti attribuiti ai "tecnici", per l'abbattimento degli stereotipi creati
intorno al "problema droga", che è comunque un problema "che scotta" nelle mani del potere.
Insomma, al di là dei limiti formali, non ci si può illudere in nessun caso, che, se
lasciato nelle
mani "dell'autorità statale" il dato delle tossicodipendenze, come altri, possa essere mai risolto.
Ed in questo stanno i veri handicap di "legalizzazione" e "liberalizzazione". Per quanto mi
riguarda, pur vivendo l'esperienza di "Bravetta", in maniera "conflittuale" (cosa che mi porta
spesso, insieme ad altri compagni, a sollevare critiche anche di fondo, a determinate "carenze" e
"contraddizioni interne"), ritengo che, oggi, la pratica del morfinaggio non istituzionale (o non
semplicemente dovuto alla "professionalità" dei medici) va difesa, e semmai estesa. Ben lungi dall'essere
semplice veicolo di "legalizzazione", e per di più "strisciante", il
"morfinaggio" può infatti rappresentare quell'importante "mezzo" di "riavvicinamento" fra le
componenti del "proletariato giovanile" segnate dalla tossicodipendenza, ed i compagni che
coscientemente intendono incidere su questa realtà partendo da prospettive antagoniste allo stato
e allo sfruttamento (ed a tutti i loro "fiancheggiatori", veri responsabili del "fenomeno"), al fine
di tentare di "rigenerare" le grandi potenzialità di lotta più volte espresse da questi strati, la
"prescrizione" di morfina, in centri antagonisti ed autogestiti da "compagni" e
"tossicodipendenti", lungi dall'essere proposta come il mezzo determinante, unico e totale, per
uscire dalla dipendenza, proposto ad "utenti" succubi e spersonalizzati, deve servire, anzi, una
volta stabilito "l'approccio", e tramite la riproposizione globale della lotta per una migliore
qualità della vita e l'aggregazione tesa a conseguire obiettivi più allargati e di crescita,
a
demistificare ogni forma di "medicalizzazione" del problema. Da un punto di vista "medico" e
psicologico una azione condotte in questo senso non può venire tacciata di favorire la
perpetuazione del meccanismo dell'assuefazione, così come dal punto di vista politico; in quanto
tesa a rimuovere sia le definizioni ipocrite e ghettizzanti imposte dal potere ai consumatori (sue
vittime) che gli elementi di debolezza immessi dal mercato. Il permanere di elementi favorevoli all'esistenza del
mercato nero ed alla strategia della droga, è
connaturale all'esistenza dello stato e dello sfruttamento, ed è illusorio illudersi che sia
possibile
eliminarli con legislazioni più o meno avanzate (quali la legalizzazione o la liberalizzazione). Per
eliminare le cause strutturali culturali ed economiche che sottintendono al permanere di queste
condizioni è quindi necessario un mutamento radicale e profondo in senso rivoluzionario. Non
esistono paliativi. Quindi l'intervento diretto sociale e "terapeutico" (intendendo con ciò il
momento della "prescrizione e della discussione della terapia", quindi il lato essenzialmente
"tecnico" del momento globale dell'intervento) del quale si devono far carico tutti i componenti
delle strutture di base ed i tossicodipendenti interni ed esterni ad esse e tutti coloro (lavoratori,
disoccupati, emarginati) che riconoscono validità all'azione dei "centri", senza delegarne i
momenti decisionali ai "tecnici" od ai "politici", va ricondotto come tutti gli interventi diretti sui
"bisogni proletari" gestiti in prima persona dagli sfruttati, al di fuori di ogni logica puramente
rivendicazionista e/o istituzionale e viceversa, all'interno della più ampia strategia
egualitaria. Perché ciò sia possibile vanno battuti tutti i tentativi istituzionali tendenti a
concentrare ogni
possibilità terapeutica nelle unità sanitarie comunque essi si presentino, onde impedire il
monopolio degli organi di governo nell'indicare le terapie da seguire. I centri socio-sanitari
autogestiti dovranno tendere a conquistare la massima autonomia nella possibilità di scegliere le
terapie in base alle proprie indicazioni generali e in modo di poterle individualizzare al massimo.
Vanno perciò combattute tutte le tendenze ad imporre limiti di gestione, limiti al numero dei
tossicodipendenti da poter seguire, limiti imposti da piani terapeutici inamovibili nel generale
come nel particolare, controlli restrittivi dei margini di libera scelta. Ad esempio, i
tossicodipendenti devono poter essere in grado di effettuare tentativi di scalaggio, senza che ciò
gli comporti l'impossibilità di risalire nel dosaggio, e di concordare la terapia secondo loro libera
scelta, perché è impensabile che terapie imposte senza tener conto delle reali necessità e
disponibilità degli interessati possano sortire effetti positivi, e perché vanno sconfitti i tentativi di
rendere i centri autogestiti simili a quelli ospedalieri. Questo ed altre cose vanno tenute estremamente presenti,
inoltre va fatta una dura battaglia
contro ogni forma di schedatura.
l'ideologia della droga
Se il fine dei centri di base (di aggregazione e di lotta) è quello di lottare contro la diffusione
dell'eroina e delle droghe pesanti, e di tentare di eliminare perlomeno quegli elementi di
debolezza volutamente introdotti all'interno del "proletariato giovanile", allora essi si devono
porre anche il problema della vigilanza contro il mercato nero nei quartieri in cui operano, che va
combattuto con il massimo della controinformazione possibile, con il ricreare nel tessuto
antagonista la consapevolezza della sua pericolosità ed il massimo della mobilitazione ad esso
contraria, e con la smitizzazione delle forme indotte di ogni pseudo-cultura ad esso funzionale.
Se è vero infatti che il ruolo di sostanza "forte" attribuito all'eroina giova alla sua diffusione ed
allo stato (come abbiamo già visto), è altresì vero che, all'interno della sinistra, determinati
miti
definibili "della liberazione con la droga", ne hanno "ideologicizzato" l'assunzione, intesa come
veicolo di "rifiuto totale" e di condizione esistenziale "alternativa", e che tale ideologizzazione
(mimando certo "massimalismo", sempre "di sinistra") ha preparato il terreno al concetto di
necessarietà dell'esperienza droga, e spesso dell'esperienza "forte" con la droga, come
momento
massimo del rifiuto dell'esistente. Inoltre, così come è necessario esercitare l'attenzione per
sconfiggere la strategia della droga forte nel suo complesso, la critica va rivolta anche all'interno
dei centri, qualora si ripresentassero tendenze a reintrodurre forme di mercato delle sostanze,
anche di quelle ricettate. Questo significa, tenendo conto delle particolari condizioni sociali e
personali dei consumatori, evidenziare ugualmente una prassi di correttezza politica
indispensabile. E questo non tanto per creare delle discriminanti precise (tranne che in casi
particolari), quanto perché è necessario veicolo di chiarezza ai fini del lavoro svolto e
indispensabile ingrediente di ogni rapporto sincero. Autogestione significa responsabilità
reciproca: le strutture di base autogestite non sono istituzioni, e devono comunque rifiutare i
ricatti di queste tendenti a quantificarne i risultati ed a classificare i tossicodipendenti come
"devianti" responsabili della propria situazione e come cavie di una qualsivoglia
"sperimentazione".
anche il P.C.I. si muove
Nel periodo immediatamente successivo alla prima manifestazione eravamo venuti a conoscenza
di un piano di finanziamenti a "strutture" occupantesi del problema delle tossicodipendenze, ed
in particolare la giunta "di sinistra" stava stanziando 500 milioni ad un certo Don Picchi. Tutta
l'opera "riabilitativa" svolta da Don Picchi era interna alla teoria "del tacchino freddo" secondo la
quale è meglio lasciare che "i drogati" se la sbrighino da soli, arrivando ad eccessi quali il rapare
a zero i drogati che siano ricaduti nel buco ed altre pratiche repressive. Iniziativa sorta sulla scia
del clientelismo DC e patrocinata dal Vaticano simile ad altre tanto ipocrite quanto
colpevolizzanti, e nelle quali spesso domina l'interesse speculativo. In seguito alle proteste della
cooperativa, e temendo polemiche, la giunta operò una revisione, e facendo scendere la somma
stanziata per Don Picchi da 500 a 400 milioni "favorì" le altre iniziative, fra le quali anche
Bravetta '80 che si vide assegnare un finanziamento di 20 milioni il luogo dei 10 destinatigli
inizialmente. Ad ogni modo si decise ugualmente di occupare l'assessorato alla sanità del
Comune e di praticare la ricettazione al suo interno, per protestare contro la mancata concessione
di locali, il che rappresentava già un salto di qualità dal momento che si passava dagli incontri
formali alla rivendicazione. Ad ogni modo mentre non si potevano creare ancora le cooperative
di lavoro (perché i fondi non erano ancora acquisibili) si continuò a non dare abbastanza rilievo
allo sviluppo di strutture di lotta, cosa che avrebbe restituito al particolare lavoro svolto quella
"incidenza globale" che avrebbe meritato, oltre ad una maggiore e più matura coscienza critica,
meno incline ad accettare la corte delle istituzioni e del PCI. Intanto in questo partito cominciavano a ribollire
le acque dopo che, "a certi livelli" si era capito
di essere rimasti indietro, e di correre il rischio di "perdere il treno". Veniva infatti di lì a poco
costituita un'altra cooperativa di nome "Magliana '80", che oltre ad adottare un nome simile al
nostro ne copiò le modalità di intervento, e il cui apparire sulla scena venne salutato da un coro
di ovazioni da parte della stampa comunista, che la presentò subito come l'iniziativa "più matura"
presente "sul mercato". Il PCI poneva così un'ipoteca che avrebbe potuto, al momento opportuno
smussare le nostre eventuali "esagerazioni" e che gli dava la possibilità di mettere un argine alle
polemiche interne manifestatesi soprattutto nella FGCI. Certo è che "l'etica dello scalaggio"
insieme a quella della regolamentazione istituzionale era sempre stata uno dei principali motivi
di attrito con coloro che, dopo aver seguito la nostra opera da vicino, furono poi fra gli elementi
determinanti nella formazione di "Magliana '80", nata chiaramente per effetto di un calcolo
politico, cioè della comprensione della necessità di intervenire in un settore fino ad allora rimasto
scoperto (in quanto considerato "terreno da radicali"), lasciato solo appannaggio dei vari, e
deserti, circoli culturali, in coerenza con la politica repressiva, demagogica e paternalistica usata
nei confronti dei giovani. È evidente quindi come il passaggio dalle prime chiuse posizioni all'apertura
vera e propria di un
centro come "Magliana '80", che pratica la ricettazione di morfina, operato nel corso di pochi
mesi, appaia quanto mai "forzato". Così come la contemporanea adesione data dalla FGCI alla
legge di cui parlavamo prima e che l'accomuna al PDUP-MLS-DP, ecc., e che prevede la
"depenalizzazione" dell'uso delle droghe leggere (solo i derivati della cannabis) oltre alla
"distribuzione controllata dell'eroina". In questa legge (oltre al dato di fondo che la
contraddistingue in quanto tale) vi sono alcuni punti particolarmente ambigui. Per esempio essa
proibisce la "costituzione, a qualsiasi titolo, di centri specializzati per il trattamento delle
tossicodipendenze", e prevede la distribuzione tramite ricettazione nelle "normali strutture socio-sanitarie (U.S.L.)"
e attraverso "medici di base", ma impone che venga "evitata qualsiasi forma di
distribuzione che produca forme di concentramento e di aggregazione di utenti". I dosaggi sono
poi concepiti "solo in misura tale da prevenire la fase di malattia del tossicodipendente, cioè la
sindrome di astinenza", e dovrebbero limitarsi "ad impedire il manifestarsi di quei sintomi legati
alla dipendenza fisica, per impedire abusi e speculazioni", ma anche per ricreare il clima dello
scalaggio forzato con tutto quel che ne consegue. Esclude comunque tutte quelle forme limitative
dei diritti civili (testimonianza obbligatoria, ricovero coatto, soggiorno obbligato di fatto, ecc.)
previste dalle vigenti disposizioni della legge 685 del '75. Ma torniamo agli "equilibri interni" della cooperativa.
È infatti in questo periodo che cominciano
a venire prepotentemente "a galla" le differenti posizioni sul come rapportarsi alle istituzioni,
sulle forme di lotta da adottare, ecc.. E mentre qualcuno tenta (senza successo) di far aderire
ufficialmente la cooperativa alla legge di "iniziativa popolare", altri riportano il dibattito sul
"mantenimento" attaccando questo discorso "ad ogni piè sospinto", e cercando di "propiziare"
l'accettazione di una regolamentazione. Ed è in particolare questo il punto al quale la cooperativa
cederà maggiormente: infatti, ad un convegno organizzato dall'ARCI (con la partecipazione di
Ingrao e Lombardi) alcuni soci avanzeranno pubblicamente la proposta di un tesserino regionale.
Ed anche se questo rappresentò una forzatura rispetto al resto dei compagni, in quanto il dibattito
non era stato assolutamente esaurito, e i favorevoli al tesserino e erano tutt'altro che la
maggioranza, non determinò alcuna decisa opposizione (al di là di quella di due-tre compagni) e
rivelò come fosse drammaticamente scarso il livello di partecipazione e di chiarezza interna. E
tutto ciò avvenne dopo che si erano spese decine di riunioni in cui venivano "stigmatizzate" le
forme di controllo istituzionale (necessariamente usabili anche in funzione repressiva) e la
necessità di attuare solo quelle forme di controllo che potessero partire dal basso (ad esempio per
cercare di evitare la doppia ricettazione ci si faceva consegnare dai medici gli elenchi di quelli
che avevano in cura). Ma comunque, invece degli apporti e delle illusioni, arrivò, nel giro di
poco tempo, e a causa delle ripercussioni dovute alle ricettazioni della cooperativa sul mercato
nero, (causate anche dall'allargamento della riattazione praticata da molti altri medici, anche per
motivi di semplice lucro), quasi ad ammonire, una bomba ad alto potenziale, che semidistrusse i
locali dove lavoravamo, ed alla quale si rispose con una manifestazione nel quartiere. Intanto la pratica del
"morfinaggio" autogestito, inteso come veicolo di lotta alla diffusione
dell'eroina, si andava sempre più allargando, e si potevano contare molte altre realtà simili alla
nostra in Italia. Il "caso" esplode quando a Firenze venne arrestata una dottoressa (Sandra
Tretola) "rea" di essersi insubordinata alle norme della Regione. Un'altra cosa positiva da ricordare, è
senz'altro l'adesione che la cooperativa "Bravetta '80" diede
alla manifestazione indetta dal "Movimento" romano in P.zza Santa Maria in Trastevere per
protestare contro l'assassinio di Alberta Battistelli, consumato pochi giorni prima in quella piazza
da un vigile urbano, nell'ambito della campagna "Roma tranquilla" inaugurata dal Comune
"democratico". Alberta Battistelli era infatti, tra l'altro, una tossicodipendente, ed l'essere presenti
in piazza in quell'occasione (come invece non fece la "Magliana", del resto assente anche a
Firenze) significava denunciare la "solita" maniera di rapportarsi nei confronti degli emarginati
che ha accumunato spesso i "democratici" ai più reazionari, e farci carico in qualche modo delle
condizioni generali di vita del "proletariato giovanile" nel suo complesso.
il decreto aniasi
Dopo aver suscitato aspre polemiche da parte della destra quando, all'inizio del suo mandato
sembrava volesse addirittura riprendere le posizioni di Altissimo e "liberalizzare" a tutto spiano,
Aniasi, dopo aver fatto credere persino che nello spirito del suo decreto (molto meno
liberalizzatore) rientrasse, seppur regolata in maniera indegna, anche la morfina, aveva invece la
sola intenzione di far sparire anche questa sostanza. La scelta del solo metadone orale e la
somministrazione giornaliera nei presidi socio-sanitari e nelle farmacie non potevano che
sollevare una forte opposizione. Il fatto di puntare tutto sul metadone risultava infatti
assolutamente ridicolo, considerati i risultati fallimentari fino ad allora raggiunti da questa
sostanza e sottintendeva necessariamente una netta garanzia data alla stabilità del mercato
dell'eroina. Inoltre l'assunzione giornaliera prevista per i tossicodipendenti li costringeva ancora
una volta a ruotare intorno al giro quotidiano medico/farmacia, e ad escludere ogni altro
interesse. L'istituzionalizzazione globale, negante ogni altra possibilità di sperimentazione
alternativa e l'esclusione della morfina dalla farmacopea concludevano il quadro, in barba a tutti i
risultati raggiunti. Ma questo decreto ha sollevato una valanga di proteste, che oltre a provenire
da centri come il nostro, sono sorte un po' dovunque, e che hanno coinvolto via via tutte le forme
di sperimentazione in corso fino ad interessare le stesse regioni, sentitesi completamente
scavalcate nelle proprie autonomie locali (in particolare la regione Toscana che aveva già avviato
l'uso della morfina, la regione Lazio, ecc.). Il ministro è stato bersagliato di critiche a tal punto che si
è visto costretto, nel tentativo di
salvare il decreto nella sua interezza (tentativo poi risultato vano) a temporeggiare in modo
squallido, facendo seguire sortite propugnanti una riapertura nei confronti della morfina, a nette
opposizioni di principio (giustificate dal fatto di voler colpire il mercato "grigio" della morfina,
bontà sua, o cose del genere) spalleggiato in questo da alcuni organi di stampa che ogni tanto
pubblicavano notizie del tipo "per la terapia antidroga consentita la morfina" (Il Messaggero,
17.9.'80). Tutto ciò si inseriva naturalmente in un discorso completamente interno ai giochi di potere
cui
sono usi i nostri simpatici governanti. A questo proposito, al progressivo coinvolgimento dei
socialisti in livelli "avanzati", ed a concessioni politiche da questi regalate alla DC, agli interessi
legati al metadone, alla socialdemocrazia tedesca ed alle speculazioni delle multinazionali, ha
fatto spesso eco l'ambiguità dei radicali, trasformatisi per l'occasione in accesissimi difensori di
Aniasi, nell'ambito del sostanziale ruolo di sostegno da loro fornito al governo. È capitato più di
una volta, anche in manifestazioni pubbliche, che esponenti di questo partito (ex-extraparlamentare) venissero a
proclamare la loro assoluta convinzione sulla buona fede del
ministro, che avrebbe loro dichiarato "personalmente", ed in più occasioni, che non si sarebbero
dovuti preoccupare perché avrebbe con un colpo di scena finale, degno del mago Zurlì,
reintrodotto la morfina all'ultimo momento. Gli stessi radicali, nello stesso tempo non si sono fatti
comunque scrupoli nell'ammettere che per quanto riguardava la somministrazione giornaliera
(riproposizione del ruolo di malato cronico) non potevano che essere d'accordo, e che ritenevano
i tossicodipendenti "incapaci di autogestirsi". Nell'ambito delle iniziative da noi prese contro il decreto posso
ricordare in particolare una
ricettazione al ministero della Sanità ed un'altra al Comune, una manifestazione nazionale
tenutasi a Roma della quale fu vietato il corteo e una tenda a Piazza Venezia per tutto il periodo
antecedente alla sua entrata in vigore. Sicuramente ricollegabile alle noie date al governo, arrivò anche
per la cooperativa il momento
della "resa dei conti". L'operazione partì durante il periodo della battaglia contro il decreto per la
perquisizione dello studio della dottoressa Franca Catri (che ha sempre funzionato anche da sede
legale della cooperativa) ed al sequestro di tutti i documenti concernenti l'attività svolta
nell'ambito della ricettazione di morfina ai tossicodipendenti, con conseguente avviso di reato,
"configurato" nei pretestuosi presupposti di "prescrizione ad uso non terapeutico di morfina".
Alle minacce, telefonate anonime, e simili, si aggiungeva così per questa campagna anche la
criminalizzazione. E questo è il punto più squallido di tutta la vicenda; la legge prevede infatti
un richiamo specifico
al reato di "spaccio", per una simile imputazione, come se si trattasse di un'attività a scopo di
lucro. La "rivincita" reazionaria è avvenuta in una situazione politica particolare, e sarà terreno
di
scontro decisivo per le prospettive dei movimenti autonomi di base che agiscono sul terreno delle
tossicodipendenze. Si vedrà allora quale tipo di appoggio daranno a queste iniziative tutte quelle
forze "democratiche" ed istituzionali che ne hanno condiviso negli ultimi tempi l'operato, e si
vedrà anche se il movimento dimostrerà di aver compreso l'importanza della lotta, che pur tra
mille ambiguità (ma nelle quali volendo si può vedere chiaro) e difficoltà, è stata
portata avanti
fino ad oggi. Comunque dopo due mesi (come su accennato), Aniasi è stato costretto a rimangiarsi il
decreto,
là dove, nell'art. 1 ha dovuto aggiungere: "per il trattamento degli stati di tossicodipendenza da
oppiacei è consentito anche l'impiego... di preparati galenici di morfina cloridrato fiale", anche se
"a solo uso sperimentale nei programmi esplicitamente autorizzati dai servizi... competenti per
territorio, ed alle condizioni indicate", (la qual cosa si è appresa all'ultimo momento da un
telegramma del ministro di venerdì 10 ottobre, un giorno prima dell'entrata in vigore del decreto)
ed il cui testo, come si può ben vedere rimanda la decisione sulle modalità di impiego della
morfina appunto agli uffici regionali. Parlare infatti delle restrizioni in atto oggi significa parlare delle regioni:
sono queste che in tutto
il primo periodo del dopo-decreto hanno creato il massimo delle difficoltà. In particolare per
quanto riguarda i disagi "burocratici" per il rilascio dei certificati di tossicodipendenza, per aver
delegato agli ospedali per un lungo periodo la decisione dei piani terapeutici impostata a causa di
ciò secondo la logica della terapia a termine e dello scalaggio forzato, della riduzione dei margini
di individuazione, e fondamentalmente per avere poi reintrodotto la norma della ricettazione
giornaliera anche per quanto riguarda la morfina. Tutto ciò significa ridurre enormemente gli
spazi di autonomia dei centri di base e condizionarne l'operato.
Per quanto riguarda i finanziamenti, gli sono finalmente stati concessi i primi 20 milioni.
Ma in quale prospettiva verranno usati non si sa con precisione. È ora quindi più che mai
necessario, da parte della cooperativa, rinsaldare legami con strutture di lotta che già agiscano sul
generale terreno dei bisogni (e che abbiano chiaramente caratteristiche autogestionarie), cosa già
in parte intrapresa, grazie alla costituzione di liste di disoccupati collegate a più vaste realtà di
movimento, anche se c'è da dire che all'interno di "Bravetta '80" rimangono delle forti chiusure
(espresse in particolare da alcuni) nei confronti delle pratiche antagoniste e del dialogo col
"movimento", tese a limitare l'azione dei compagni più sensibili a queste tematiche.
e adesso?
Ho già accennato a quali siano secondo me i pericoli a cui "Bravetta '80" va incontro,
all'inquinamento interno previsto da quella logica che vede i movimenti "di base" come semplici
"interlocutori" delle istituzioni, o come necessari "complementi" delle stesse; e che rischia di
stravolgerne i significati di fondo. Pericoli di settorializzazione, e scollegamento con la globalità
delle richieste e delle tematiche antagoniste, organizzate o meno. Le ingenuità sul "reinserimento"
tramite sovvenzioni (vedi disoccupazione diffusa, politica dei
sacrifici, ecc.) e loro possibile convertimento "naturale" in isolette "rosse" o alternative. Proposte
culturali e terapie di gruppo che, se scollegate da pratiche di lotta sono solo "surrogati" di una
precisa ideologia, dietro la quale si nascondono neutralizzazione sociale e ghettizzazione. Le
istanze di liberazione e di nuovi rapporti, che sono in parte, all'origine, della condizione di
tossicodipendenza, sono risolvibili principalmente in un processo che, riconvertendo il flusso
delle finalità della vita da individuali a collettive, renda possibile la formazione, ancora parziale,
di soggetti sociali liberi e che ponga all'ordine del giorno nuovi rapporti anche fra questi soggetti.
Ed è necessario a questo proposito che vengano sconfitte anche le divisioni fra tossicodipendenti,
e la logica (diffusa-indotta) interna ad essi, dell'assistenzialismo fine a se stesso conservatore del
"vizio". È infatti un campo, quello delle tossicomanie, che ripropone per ovvi motivi tutta una
serie di problematiche che vanno comprese a fondo e che portano in primo piano la "naturale
diffidenza" di questi strati, subito espressa nella disillusione e sfiducia verso i "gruppi" e l'azione
politica; l'estraneità ai meccanismi della lotta sociale, che viene spesso ritenuta inutile, e le spinte
"all'autoemarginazione". Cose queste dalle quali maturano tutte le difficoltà a trattare su un piano
individualizzato e di correttezza, dovute anche in gran parte alle remore diffuse fra i compagni. È
necessario quindi restare distanti anche da concezioni quali ad esempio "tossicodipendenza è
bello", "droga è meglio", e simili tentazioni nelle quali si rischia, all'opposto, di cadere;
approccio assolutamente sfavorevole. In ogni caso si sono sviluppati degli embrioni di autoorganizzazione e di
aggregazione fra i
tossicodipendenti, soprattutto nei comitati nati durante il "caso Aniasi", dai quali è sorta come
predominante la ricerca di motivazioni reali perché valesse la pena di uscire dal giro dell'eroina
e
dall'autovalorizzazione dello stesso (sudditanza ai meccanismi del mercato che rendono i
consumatori spacciatori essi stessi e quindi interni alla riproduzione del valore della merce, a tutto profitto degli
investimenti operati dal grosso traffico), motivazioni che necessitano di sbocchi sul piano della
rivalutazione dell'esistenza, e dell'abbattimento delle condizioni coercitive generali.
METADONE
Dal punto di vista medico è ormai scontata la maggiore tossicità del metadone rispetto alla
morfina ed alla stessa eroina pura, poichè il metadone oltre ad avere effetti particolarmente
devastanti sul metabolismo (si può assumere anche ogni 24 ore, ma è noto che i tempi di
permanenza in circolo sono molto più lunghi), provoca nell'assunzione orale, prescritta anche dal
protocollo del decreto Aniasi, stati di sofferenza dell'apparato digerente (gastriti, ulcere, ecc.)
spesso intollerabili per i tossicodipendenti, a tal punto da farli tornare all'eroina, vanificando ogni
forma di recupero dal mercato. Inoltre una lunga assunzione di metadone provoca un blocco delle
endorfine quasi totalmente irreversibile. (Le endorfine sono sostanze endogene prodotte dall'ipofisi che hanno
il compito di bloccare le
sensazioni dolorose. Una assunzione prolungata di oppiacei, quali morfina, eroina, metadone,
provoca il blocco della produzione naturale di queste sostanze sostituendosi ad esse. Si hanno
allora, sospendendo le assunzioni di droga, i sintomi tremendamente dolorosi della crisi di
astinenza. Ma, mentre con l'eroina e con la morfina a dosi decrescenti è possibile con relativa
facilità ritornare ad una normale produzione di endorfine, questo processo è estremamente
più
lento e difficile quando la sostanza usata è il metadone. Produce tossicità per il fegato. Dato in
soluzione alcoolica "tira" l'alcool (collegamento
psicologico) e molti diventano alcolizzati. È un analgesico con proprietà di indurre dipendenza
fisica e tolleranza (produce una dipendenza circa 4 volte maggiore di quelle della morfina e
dell'eroina). Dietro la sua produzione vi sono naturalmente grossi interessi: in particolare la ditta Wellcome
(pare sia a maggioranza di proprietà del Vaticano). Prodotto e usato verso la fine della seconda
guerra mondiale dai tedeschi; nomi commerciali:, Physeptone, Dolophine, Butalgin, Amidone,
Miadone. Rintracciabili in Italia: Eptadone (Tosi-Milano), fiale / Mephenon (Spemsa-Firenze),
fiale / Physeptone (Wellcome-Pomezia), confetti, fiale.
EROINA
Scoperte in Germania nel 1898 dalla Bayer, che la lancia subito sul mercato, propagandandola
per una "gamma" vastissima di malattie (praticamente per tutti gli usi). Viene usata anche nella
disassuefazione da morfina (!). Quando si scopre (ma la Bayer lo sapeva sin dall'inizio) che è
ancora più "rischiosa", e viene ritirato dal commercio, gli "assuefatti" si contano già a centinaia
di migliaia. La Bayer "inventerà" poi, nello stesso campo degli "antidolorifici", l'aspirina, che,
come è noto ha moltissime controindicazioni.
OPPIO
L'oppio, ricavato dal papavero, è conosciuto almeno dal 4000 a.C.. Le sue preparazioni (tinture,
sciroppi ecc.) vengono elaborate dal 1500 in poi. I derivati chimici sono scoperti solo nell'800.
(La morfina, la codeina, la narceina, la narcotina, ecc.). A loro volta, i derivati chimici dell'oppio
permettono la trasformazione in altri derivati semisintetici, con diverse variazioni chimiche, di
numero praticamente illimitato: l'eroina (diacetilmorfina), idromorfone, ecc..
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