Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 88
dicembre 1980 - gennaio 1981


Rivista Anarchica Online

Comunidad
di Carla Cacianti

Dell'eccezionale esperienza della Comunidad del Sur, iniziata a Montevideo nel '55 e definitivamente stroncata dalla repressione militare uruguayana quattro anni orsono, abbiamo già trattato sulla rivista. Nel marzo '77 ("A" 54) abbiamo pubblicato una lunga intervista con Carla Cacianti, una compagna che dal novembre '74 all'aprile '75 ha vissuto dal di dentro quell'esperienza di vita comunitaria libertaria.
Costretti a lasciare l'Uruguay, quelli della Comunidad si sono perlopiù trasferiti prima in Perù, quindi in Svezia. È qui che Carla è tornata a trovarli di recente; con due di loro - Ruben (uno dei fondatori della Comunidad, venticinque anni or sono) e Silvia - ha tracciato un bilancio della loro esperienza, di questi ultimi duri anni sradicati dalla loro terra, ma soprattutto della loro voglia di costruire continuamente un nuovo modo di vivere.

Carla - Credo che prima di parlare del presente sarebbe il caso di dire alcune cose fondamentali della Comunidad del Sur. Ruben, tu che sei uno dei "fondatori" della Comunità, come era strutturata e quali erano i suoi principi di fondo?
Ruben - La Comunità si costituì soprattutto per l'esigenza di un gruppo di militanti di ridurre la distanza tra l'ideologia e la propria realtà personale. Il proposito era che le differenze economiche e sociali, che esistevano anche tra compagni, fossero superate da una prassi di vita in cui le nostre idee si realizzassero. Mettemmo in pratica l'autogestione della nostra base economica.
Ma ci rendemmo subito conto che non era sufficiente, e che bisognava affrontare tutti gli altri aspetti della vita quotidiana. Fondamentalmente bisognava creare un ambiente sociale minimo in cui i nostri figli potessero vivere i valori libertari per i quali stavamo lottando, che potessero ricevere delle immagini della società che volevamo costruire e non solo del mondo borghese, da cui si suole sfuggire solo con i discorsi.

Carla - Quando si parla di questo, molti compagni in Italia mi chiedono se non è negativo dare un'immagine di qualche cosa che all'esterno non esiste. Ossia di una società completamente diversa dalla società borghese, completamente diversa dalla realtà con cui dovranno fare i conti fuori della Comunità.
Ruben - Penso che questa è una obiezione completamente sbagliata. È assolutamente impossibile vivere al margine della società dominante; dappertutto ci si imbatte in immagini della società competitiva, capitalista, statale: tutto è dominato e organizzato in funzione di questi valori. L'unica cosa che noi possiamo fare è dare un minimo di immagini perché il bambino abbia la possibilità di scegliere.
Scegliere alla pari: non è la stessa cosa parlare di libertà e avere un'esperienza di vita. L'esperienza dell'autoritarismo, dell'oppressione, ce l'hanno gli adulti come i bambini, che inevitabilmente vivono in questa società, per cui è ingenuo supporre che si possa creare un ambiente che isoli i bambini.
Noi abbiamo sempre fatto in modo che il contatto col mondo esterno fosse molto vivo, però da una posizione critica e vissuta nella prassi, non intellettualizzata. Un bambino ha bisogno di pensare sulla base di elementi reali, che conosce. Poi dopo può elaborare una teoria, ma sempre sulla base di una pratica. In altri termini credo che tutti, in qualunque situazione di vita o di lotta, anziché pensare contro il sistema dovremmo vivere una prassi contro il sistema.

Carla - Concretamente, qual'era l'organizzazione della Comunità?
Ruben - La Comunità attraversò diversi periodi. Il più complesso fu quando arrivammo ad essere una cinquantina di persone, tra adulti e bambini. In questo periodo eravamo già installati in uno spazio fisico di circa due ettari nella periferia di Montevideo, dove si dava la combinazione di un ambiente urbano con certi aspetti semi-rurali. In questo posto avevamo le abitazioni, articolate in maniera abbastanza complessa, perché per esempio i bambini e gli adolescenti vivevano in gruppi portando avanti una loro esperienza autogestionaria, ma collegata con tutti gli altri aspetti della Comunità. Sempre lì, naturalmente, avevamo i servizi comuni: cucina, lavanderia, biblioteca, asilo. E anche alcuni settori della produzione: un laboratorio d'artigianato, un orto e un allevamento di polli.
La tipografia, che dei vari settori della produzione era quello che coinvolgeva il maggior numero di persone, era invece nel centro della città. Ogni settore produttivo era organizzato in forma cooperativa e aveva una propria assemblea come organo decisionale, ma le decisioni di fondo venivano prese dall'assemblea generale a cui partecipavano assolutamente tutti, a qualunque settore produttivo o di servizio stessero lavorando. Un altro aspetto importante era la rotazione, soprattutto durante il processo di integrazione e di educazione. Il principio era che tutti dovevano avere una buona conoscenza dei vari aspetti della vita economica, sociale, politica del gruppo, in modo che in un'assemblea ciascuno sapesse cosa significava educare, produrre, consumare, che cosa era la militanza, in base ad una propria esperienza, in modo che la partecipazione fosse reale e non formale, in modo che nessuno subisse passivamente le decisioni degli "esperti", come avviene in una struttura verticale. Questo non vuol dire che la gente stesse continuamente cambiando luogo di lavoro, si ruotava sino ad avere una certa conoscenza poi ci si concentrava in una certa attività, a seconda dei propri interessi.

Carla - La comunità ha vissuto in Uruguay circa vent'anni, dal '55 al '75. A causa della repressione sempre più violenta fu costretta ad andarsene. Vuoi raccontare brevemente le tappe di questo processo?
Ruben - La repressione in Uruguay è sempre esistita, ciò che cambiò furono i livelli e i metodi repressivi e la capacità di resistenza alla repressione. Da una parte il gioco di potere tra gruppi armati ed esercito venne sempre più alla ribalta e una realizzazione che cercava di modificare le basi sociali di tutta l'esistenza sembrava perdere di significato. Dell'altra la repressione diretta: perquisizioni, arresti, torture.
L'ultima volta che fummo arrestati tutti, in blocco, ci diedero una specie di ultimatum: o ve ne andate o noi continueremo con questi metodi fino alla vostra sparizione. Decidemmo di andarcene in Perù, pensando che le condizioni fossero più favorevoli, tratti in inganno dalla propaganda della così detta "Rivoluzione delle forze armate peruviane", chiamata autogestionaria, libertaria, socialista.
Silvia - Tratti in inganno dalla possibilità che lì si potesse sviluppare qualche cosa, ma non certo pensando che questa fosse una rivoluzione.
Ruben - Sì, certamente. Il doppio gioco della situazione frustrante in Uruguay, con una relativa promessa in Perù ci fecero prendere la decisione di trasferirci. In Perù molto presto ci rendemmo conto che il "cambio" era puramente ideologico e maneggiato in termini burocratici. La mancanza di conoscenza dell'ambiente sociale, la mancanza di radici culturali e soprattutto le difficoltà legali, fecero sì che ce ne andassimo anche di lì. Penso che anche questo fa parte della repressione. Creare una vita nuova non è possibile con tanti problemi di sopravvivenza e tanta insicurezza, anche fisica. Tutto ciò significò anche la perdita di compagni, la destrutturazione sempre maggiore del gruppo.
Finalmente arrivammo in Svezia. Soltanto una parte di noi, perché altri compagni, per ragioni simili, andarono in altri paesi. E qui stiamo tentando di costruire, in funzione della realtà svedese, le stesse idee, anche attraverso nuove forme.

Carla - Che tipo di problemi avete avuto all'arrivo in Svezia, in un ambiente culturale e sociale così diverso?
Silvia - La nostra idea iniziale era che avesse più senso andare in Italia o in Spagna, a causa delle somiglianze culturali e linguistiche. Ma partendo dall'America Latina non abbiamo avuto l'opportunità di scegliere. Siamo potuti venire in Svezia anche perché c'erano già altri compagni venuti prima di noi che ci aiutarono a venire qui, e dovevamo fermarci un periodo per regolarizzare la nostra situazione legale, documenti, ecc.In questo periodo iniziammo ad avere una serie di rapporti e a stringere vincoli con persone e gruppi che si muovevano nella nostra stessa direzione. Ci rendemmo anche conto che non aveva molto senso continuare a perder tempo andando da un paese all'altro, e che potevamo portare avanti la nostra lotta in Svezia come altrove, a partire dalle condizioni date e da quelle che noi stessi potevamo contribuire a creare.
Ruben - In Svezia ci sono molti esiliati latino-americani, e si parla molto del problema di mantenere la propria cultura. Ora, si suppone che tutti noi siamo stati espulsi dall'America Latina perché ci opponevamo alla cultura dominante, pertanto anche laggiù, in qualche modo, eravamo degli esiliati, e stavamo lottando per creare condizioni nuove.
Per cui io penso che il problema culturale vero non è tanto quello della lingua o delle abitudini culturali, quanto quello dei contenuti, di una nuova forma di vita. Ed è questa la cosa che è importante mantenere e trasmettere.
Silvia - Come sai nel nostro gruppo e tra la gente che ci circonda ci sono sempre state le più diverse nazionalità. In Uruguay, nella Comunità sono passati brasiliani, argentini, spagnoli, cileni, italiani, ed anche ora nel gruppo ci sono svedesi e latino-americani di diversi paesi e qui in casa in pochi giorni ci sono stati compagni dei più diversi paesi. Si può dire che la nazionalità è poco più di un caso.
Ruben - Il miglior esempio della cultura uruguayana dominante è il regime militare che è ora al potere. Noi avevamo una posizione contro-culturale lì, così come ce l'avevano i compagni di altre nazionalità nei loro paesi e che ora sono qui. E qui è la stessa cosa. I compagni svedesi con cui lavoriamo hanno una posizione contro-culturale e stanno cercando di reinventare tutto daccapo, cercando una nuova forma di vita, e per far questo è necessario trasformare la società, che ci perseguita, ci tortura, o ci vuole trasformare in semplici consumatori.

Carla - Quali sono gli altri gruppi in Svezia che agiscono a livello contro-culturale, e quali sono i contatti che avete con loro?
Silvia - In Svezia c'è un movimento contro-culturale piuttosto grande. Dal mio punto di vista buona parte di questo movimento è a un livello troppo "contestatario" e poco creativo, rimane un po' troppo ai margini, anche se è vero che in questa società è difficile avere una posizione forte e creativa e nello stesso tempo sopravvivere. Comunque c'è anche gente molto attiva. I temi sono soprattutto quelli dell'anti-nucleare, dell'energia alternativa, dell'ecologia, della produzione alternativa, di un'alternativa globale di vita. Noi stiamo lavorando con una decina di altri gruppi alla creazione di un centro contro-culturale in una grande casa nel centro di Stoccolma, si chiama Kapsylen.
Ci sono due gruppi di teatro, uno di ceramica, uno di tessuti artigianali, uno di architetti, tre di musica, uno di fotografi, un laboratorio fotografico, una biblioteca ecologica che è un centro di informazione. Noi abbiamo lì una macchina da stampa offset, con cui stampiamo manifesti e altro materiale, e una rivista che produciamo con altri compagni latino-americani, e che coincide con la base ideologica del nostro gruppo; è bimestrale e in lingua spagnola, ma pensiamo di fare presto anche un'altra pubblicazione in svedese, insieme ad altre persone.
Uno dei gruppi teatrali che lavora a Kapsylen svolge un'intensa attività, usando il teatro come strumento politico, gran parte dei loro spettacoli sono per la strada. Vivono in comunità e le loro basi ideologiche sono molto simili alle nostre. Abbiamo con loro rapporti molto forti a tutti i livelli. A Skognäs, un gruppo con cui abbiamo molti contatti, vive nel nord del paese, lavora a livello agricolo e di allevamento. È un grande gruppo, sono più di 40 fra adulti e bambini. Hanno suscitato grosse mobilitazioni nella zona su problemi di ordine ecologico e politico. Ci sono poi molti altri collettivi, sopratutto in campagna, con cui i nostri rapporti diventano sempre più costanti. A Skognäs si è svolto recentemente un grosso incontro del movimento alternativo con la partecipazione di tutti i paesi scandinavi. I temi dell'incontro erano: la lotta urbana, la lotta non-violenta, l'energia alternativa, la pedagogia non-autoritaria, ecc.. Questo incontro rientra in una serie promossa da Community Action, che è un movimento alternativo piuttosto forte in tutto il Nord-Europa, non solo in Scandinavia.

Carla - Questo è ciò che si chiama qui "movimento alternativo". Esiste invece un movimento anarchico in senso più stretto qui in Svezia? O esistono solo situazioni isolate?
Silvia - Sì, certamente esiste un movimento anarchico, anche se forse non agisce come movimento in quanto tale.
Ruben - Per noi, tanto in Uruguay come qui, non è mai stato particolarmente significativo autodenominare la nostra esperienza come anarchica, anche se buona parte di noi si definivano e si definiscono anarchici. Per noi l'importante erano i contenuti di questa esperienza, e in genere la pratica sociale che si ha nei luoghi di lavoro, di studio, nei nuclei di base.
Il nostro rapporto col movimento anarchico si dà nella misura in cui coincidiamo nelle azioni concrete, con la partecipazione che a distinti livelli hanno i componenti del gruppo. In Svezia, fra l'altro, la situazione è più complessa che in America Latina, perché esiste un diffuso movimento libertario. I valori libertari sono presenti in molti aspetti della realtà svedese, confusi con altri movimenti, con altre idee. Ritengo molto importante lavorare in questa situazione aperta e non solo in situazioni di punta.

Carla - Tornando alla situazione del gruppo qui in Svezia, quali sono i progetti per il futuro?
Silvia - Il progetto che stiamo portando avanti segue fondamentalmente la pratica che abbiamo avuto a Montevideo, nel senso che è un progetto di vita globale. Se dovessi esemplificarlo con un disegno farei un cerchio diviso in tre settori, in cui in uno c'è il lavoro, inteso come base economica, in un altro c'è l'ideologia come proiezione delle nostre idee verso l'esterno, e nel terzo l'educazione sia in senso pedagogico che intesa come nostra crescita personale. Per quanto riguarda il lavoro i progetti concreti sono una casa editrice e una tipografia, tutte e due sotto forma di cooperativa, totalmente autogestite e con una propria economia. La casa editrice pubblicherà libri di contenuto ideologico nell'ambito dell'anarchismo, letteratura e poesia, libri per bambini. Quindi da una parte sarà uno strumento di diffusione della nostra presenza, dall'altra sarà il maggior cliente della tipografia, evitandoci così, almeno in una certa misura, di dover accettare lavori con cui non siamo d'accordo. Anche altri compagni che entreranno in cooperativa, pur lavorando in uno specifico, faranno parte di questo piano più generale in cui c'è l'educazione, l'ideologia, la vita di tutti noi.
Ruben - Vale a dire che per noi il lavoro non ha come unico fine la produzione, ma anche darci delle basi economiche che ci permettano poi di sviluppare tutta una serie di altri aspetti come il lavoro con i bambini, la nostra formazione, la considerazione per gli aspetti più personali come i problemi del gruppo di lavoro o le difficoltà interpersonali. Per noi un progetto autogestionario microsociale o un progetto di società alternativa autogestionaria deve mirare soprattutto a che la differenza tra il lavoro e altre attività sia minimizzata, che il lavoro sia anche un momento creativo, e non che il lavoro sia uguale a sacrificio come nel lavoro salariato.

Carla - Mi sembra importante sottolineare questo aspetto. Così come l'attenzione ai rapporti umani, è un elemento che è sempre stato presente nel gruppo. Anche quando era molto più numeroso, a Montevideo, nella cooperativa tipografica il rapporto tra compagni non iniziava e terminava col lavoro, bensì era un rapporto molto più ricco, di scambio e di crescita comune.
Ruben - Certamente. È anzi necessario un gran numero di partecipanti. Non si può creare un'alternativa sociale con un numero ristretto di persone. Quelli che siamo ora, nove componenti del gruppo, più un numero fluttuante di partecipanti alle varie attività, è ancora troppo poco. Dobbiamo aumentare numericamente, questo facilita la crescita qualitativa del gruppo e anche quella dei rapporti esterni, nella prospettiva di arrivare, secondo l'idea di Kropotkin, ad una comunità di molte comunità. È da questo punto di vista che si può capire ciò che stiamo facendo. Creare un'alternativa di lavoro, creare un'alternativa di vita, una rete di rapporti intercomunitari, vincolarsi ai movimenti alternativi. Un modo complesso di creare un'esperienza comunitaria e nello stesso tempo essere un fattore di cambio nel sociale.