Rivista Anarchica Online
Il Dio mitra
di Gianfranco Bertoli / Angelo Cinquegrani
Dal carcere di Nuoro
Sul "supplemento carceri" della rivista Controinformazione, uscito qualche mese fa, è stata
pubblicata la dichiarazione collettiva (ma non firmata) fatta da alcuni militanti di Azione
Rivoluzionaria nel corso di un processo a loro carico a Livorno. In essa veniva annunciato
l'autodissolvimento di A.R. ed il passaggio nell'area di Prima linea. Poiché, da allora, nessuna
voce dall'interno di A.R. ci risulta essersi pubblicamente espressa contro quel documento, se ne
dovrebbe dedurre che effettivamente esso rispecchia, almeno nella sostanza, il pensiero e le
scelte strategiche di quanti fino ad allora si erano proclamati membri di A.R.. Squallida fine,
questa di A.R., se solo si considera che nel loro primo documento programmatico - pubblicato
anche su "A" 63 - i militanti di A.R. si erano proclamati "anarco-comunisti". Già allora, presentando
quel loro primo documento, sottolineammo le profonde divergenze
nell'analisi e sopratutto nella strategia, individuando nell'esasperata mitizzazione della violenza e
della lotta armata gli aspetti più negativi della loro concezione. A quasi tre anni di distanza, i
risultati pratici indicano che fine abbia fatto chi allora sosteneva che "l'unica critica possibile è la
critica delle armi": gli ex "anarco-comunisti" teorizzano oggi l'Esercito di liberazione comunista. Sull'argomento
pubblichiamo in queste pagine ampi stralci di un documento che dal supercarcere
di Nuoro ci hanno fatto pervenire Gianfranco Bertoli ed Angelo Cinquegrani. Abbiamo ritenuto
opportuno pubblicare in apertura anche uno stralcio della lettera di accompagnamento di Bertoli,
in cui descrive la condizione di isolamento in cui la settaria intolleranza dei "comunisti
combattenti" lo costringe. Per gli stalinisti il carcere non fa eccezione: chi non si piega alla loro
egemonia (e ai loro vari fronti unici ed eserciti di liberazione comunista) va emarginato.
(...) Il ritardo con cui vi scrivo è dovuto al fatto che, per una ragione relativa ad una presunta
violazione del regolamento sono stato qualche giorno alle "celle di isolamento" e così non
potevo vedere Angelo col quale avevamo deciso di fare insieme il breve scritto che vi
mando. Questo "incidente" dei pochi giorni di "punizione" non è di per sé cosa
di importanza, certo ne
assume una ove si consideri che contribuisce a togliermi le pur minime possibilità di un ritorno
al circuito normale, d'altra parte non è che mi fossi fatto delle illusioni in questo senso.
Purtroppo, poi, questa situazione di dover stare ancora per chissà quanto tempo nell'ambito
delle "carceri differenziate" implica il protrarsi di uno stato di tensione continua a causa
dell'ormai consolidata ostilità aperta degli stalinisti e di tutti coloro che subiscono la loro
influenza. Essendo ormai diventati nel circuito speciale il "racket" più influente (grazie anche
alla disponibilità ad un allineamento più o meno conformistico di persone che pur considerano
se stessi come dei libertari e la storia di A.R. è "esemplare"), mi sono venuto a trovare (e Angelo
con me) in una situazione ove la scelta è solo quella tra continuare a rimanere in quello che si
può definire un "isolamento perpetuo" e quella di dare a quei signori la possibilità di nuocermi
fisicamente. Come poi in questi ultimi tempi abbiano cominciato a manifestare apertamente la loro
vocazione
di esecutori di opere di "giustizia" sommaria non occorre stare a parlarvene dato che i giornali
li leggete senz'altro e le cose avvenute a Torino, Cuneo e Fossombrone non vi sono ignote. Certo
quelle "azioni" sono state da loro motivate con la necessità di eliminare i "traditori", ma
sappiamo bene quale ampio significato possa assumere questa parola (come quella di
"controrivoluzionario", "nemico del popolo" o "piccolo borghese") nel gergo degli stalinisti. Per
i fanatici di qualsiasi "dogma" totalizzante, la critica, il dubbio, la semplice non-collaborazione
assoluta sono "delitto" e nella storia del dogmatismo fanatico e stupido (e pertanto malvagio) i
seguaci dello stalinismo possono ben stare al fianco con le "S.S." e con la "Santa Inquisizione".
Credo peraltro che quando uno arriva, come io sono arrivato, a compiere egli stesso degli atti di
tanta gravità, per le proprie convinzioni come ho fatto un giorno, arriva cioè ad uccidere, deve
anche accettare l'idea che per queste stesse convinzioni si possa venir uccisi. Ora, se quando ho
deciso di uccidere ho certo sbagliato, non credo invece che sia sbagliato accettare l'odio mortale
di coloro che sono i primi nemici di ogni idea di libertà, piuttosto che rinunciare alla coerenza
etica e pratica con le mie convinzioni. Altri vedono la cosa in maniera diversa e hanno scelto il
compromesso; è una questione che riguarda, in fondo, la loro coscienza. (...)
Gianfranco Bertoli
Già dal documento reso pubblico in occasione del processo di Parma, nel marzo '79, alcune
pericolose aporie del discorso progettuale di A.R. parvero emergere vistosamente quasi a
preannunciare le sconcertanti conclusioni enunciate attraverso il "comunicato al processo di
Livorno". Ben difficile, infatti, si rivelava il poter considerare compatibile la dichiarata identità di
"comunisti-anarchici" con la proposta contenuta in quel comunicato di una "unità operativa di
tutte le forze comuniste combattenti", ove si consideri come tra quelle che vengono oggi definite
"organizzazioni comuniste combattenti" esercitino un ruolo egemonico concezioni etiche ed
ideologiche ed un progetto politico-militare che sono del tutto opposti agli scopi per cui lotta il
movimento anarchico ed a qualunque progetto di società libertaria. Se è vero (e per gli anarchici
lo è) che esiste una stretta interdipendenza tra i mezzi e i fini che si adottano per perseguirli,
l'adozione degli stessi mezzi che sono adottati da chi persegue un diverso fine mette già in
pericolo l'obiettivo prefissato: ipotizzare poi addirittura l'unità operativa, l'adozione cioè in
comune di questi stessi mezzi, finisce con l'apparire allucinante. A voler essere benevoli, una simile proposta
può essere vista come il frutto di un'illusione
sincretistica nel quadro di una visione dicotomica ove l'unica discriminante considerata valida si
riduce alla accettazione della pratica della "lotta armata" in nome di un non troppo ben precisato
"comunismo", passando disinvoltamente sopra a tutto il resto. Non si vede poi come si possa
giungere a concepire l'idea di un possibile allargamento di tale "unità operativa" ai "collettivi di
base che praticano altri terreni di lotta" perché questi organismi se, come si dice, praticano una
loro specifica forma di lotta, dimostrano di per ciò stesso di essere frutto di una diversa
concezione di quelle che sono le attuali esigenze del conflitto sociale e di scelte che non sono le
stesse che ha fatto chi ha deciso di praticare la lotta con le armi. Anche qualora (ipotesi
discutibile) vi fosse tra questi "collettivi" e i gruppi armati che oggi operano in Italia un'identità
di intenti sugli obiettivi finali, tutto quello che potrebbe verificarsi sarebbe un passaggio, a livello
individuale o anche di gruppo, di membri di questi collettivi alla pratica del "lottarmatismo", ma
questo non potrebbe mai verificarsi da parte dei "collettivi" in quanto tali, perché se questo
dovessero fare si negherebbero e non potrebbero far altro che diventare essi stessi dei gruppi
clandestini oppure ridursi (prima di venire dispersi sotto i colpi della repressione poliziesca) a
puro e semplice supporto logistico ed area di reclutamento per i gruppi armati esistenti. Ciò
rappresenterebbe una scelta rovinosa perché dovrebbero, in ogni caso, rinunciare a priori proprio
a quei tipi di intervento nel sociale che costituivano la loro ragion d'essere. Che un discorso come
quello portato avanti per l'occasione da quei militanti di A.R. avrebbe un senso nella logica e
nelle prospettive di chi ragiona in termini di rapporto "partito-massa" (nel quadro cioè di
un'ottica di puro stampo leninista) ma divenga un assurdo quando viene fatto da chi si richiami ai
principi dell'anarchismo, pare cosa talmente evidente da non necessitare di una lunga
dimostrazione. (...)
L'occasione di quel processo (Livorno) è stata colta da parte di A.R. per rendere pubblica la
notizia dell'autodissolvimento dell'organizzazione stessa in un "comunicato" che per molti dei
suoi contenuti non poteva che lasciare ancora più sconcertati tutti quegli anarchici che, seppur
con sfumature diverse, o anche con qualche riserva critica sulle teorizzazioni e la prassi che
caratterizzavano A.R., hanno visto in loro dei compagni che si erano coraggiosamente impegnati
in una scelta di lotta, sulla cui opportunità si poteva concordare o discutere ma che era in ogni
caso degna di rispetto. Col documento di Livorno i suoi autori hanno inflitto un colpo doloroso a
tutti quei compagni che hanno dato loro stima ed affetto, perché se le intenzioni di chi quello
scritto ha composto fossero state quelle di accreditare l'insinuazione di chi aveva detto che il loro
anarchismo era una "etichetta" e che essa era "per di più falsa", non sarebbero potuti riuscire a
farlo meglio di come possa averlo fatto quel documento. Che in tutto quel testo non sia possibile
rintracciare il benché minimo indizio di una volontà di non rinnegare del tutto i principi
dell'anarchismo appare, è triste doverlo dire, inconfutabile. Altrettanto evidente poi che, nella
misura in cui i contenuti di quel documento rispecchiano fedelmente il pensiero e le attuali
convinzioni degli autori, essi si sono posti volontariamente nella condizione di non poter più
essere considerati come degli anarchici. (...) Quel documento inizia con l'annunciare l'autodissolvimento di A.R.
in quanto organizzazione
specifica, a causa dell'esser venute a mancare alcune delle ragioni particolari che presiedettero
alla sua nascita, e la decisione dei suoi membri di "riconfluire nel movimento da cui trasse
origine" (sia detto per inciso che, visto che più avanti si indica in un interlocutore privilegiato
l'organizzazione "Prima Linea" che anarchica non si è mai detta, il movimento da cui A.R.
avrebbe tratto origine parrebbe non essere identificabile nel movimento anarchico ma in un meno
precisato "movimento rivoluzionario"), precisando nel contempo che "non sono gli individui e le
loro tensioni progettuali che si dissolvono ma il tipo di relazione particolare che li legava ad
una struttura politico-militare", per giungere ad una conclusione finale consistente nell'affermare
che "il combattimento deve perdere la sua parzialità; per questo si fa urgente il dibattito
sull'Esercito di Liberazione Comunista essendo improrogabile il compito di costruire uno
strumento forte, centrale, unitario in cui concentrare le forze combattenti del proletariato". Ora una
siffatta tesi, che comporta un adeguamento alla concezione leninista del "centralismo
democratico", quando viene concepita da quelli stessi che nel loro "primo documento teorico" del
gennaio '78 davano come caratterizzante dei loro progetti di organizzazione ("... un modello noto
nel movimento rivoluzionario, sperimentato in Spagna negli anni '30 e adombrato nei
"collettivi", nelle "comuni" dei radicali americani: pensiamo ai gruppi di affinità dove i legami
tradizionali sono rimpiazzati da rapporti profondamente simpatetici contraddistinti da un
massimo di intimità, conoscenza, fiducia reciproca fra i loro membri. Sia che nascano su basi
locali, dall'incontro sperimentato e collaudato di varie storie personali, o su basi diverse, i
gruppi devono essere mantenuti necessariamente piccoli sia per permettere quelle caratteristiche
sia per garantirsi contro le infiltrazioni") e che due mesi più tardi parlavano di "propaganda
del
fatto come esempio per generalizzare l'azione diretta", se appare perlomeno sorprendente, induce
ad identificare quei "contenuti essenziali" che essi auspicano dover trovare la garanzia di
"continuare a vivere seppure alla luce delle nuove condizioni di classe e della riflessione critica"
come riducibili alla pura e semplice accettazione del principio della "lotta armata". Infatti, se una volta dovuto
riconoscere l'insuccesso della proposta iniziale così come era stata
formulata, si ritiene che conservare l'essenziale possa voler dire mantenere come punto fermo la
validità del ricorso alle armi anche rinunciando a quelle parti del progetto iniziale che
maggiormente lo qualificavano sotto il profilo organizzativo, facendone qualcosa di diverso dalle
varie ipotesi e proposte di "partito armato", ciò può far pensare che tutto il progetto di A.R. fosse
concepito come imperniato sulla convinzione della validità assoluta ed unica di quel particolare
tipo di lotta. L'argomentazione, quindi, sostenuta in precedenza secondo la quale la critica delle armi
veniva
considerata e vista come l'unica forza che può rendere credibile qualsiasi progetto, appare
rovesciata: è la "lotta armata" in sé che si fa progetto totale mentre le finalizzazioni che le
vengono attribuite si ridurrebbero a mezzi in funzione di fornirgli "credibilità". (...) Ora se è
naturale che una forte spinta emotiva a voler lottare con ogni mezzo contro un sistema
sociale disumano che tutti ci opprime, venga percepita da quegli individui che hanno
maggiormente sviluppati la sensibilità e lo spirito di rivolta contro l'ingiustizia, se è vero che
questo fa loro onore, se è anche possibile che questo stato d'animo sia presente, almeno
potenzialmente, in un numero di individui ben maggiore di quanto certe apparenze possono far
supporre, gli stessi scarsi risultati ottenuti dalla "propaganda del fatto" praticata da A.R.,
costringe a rendersi conto che non è così generalizzato e diffuso come chi si è riconosciuto
in
A.R. ha mostrato di supporre. Perché ogni tipo di propaganda (anche quella "attraverso i fatti",
dunque) possa rivelarsi efficace è necessaria l'esistenza della disponibilità psicologica a recepirla
tra coloro cui ci si rivolge, viceversa quando questa propaganda non produce i risultati
immaginati questo fatto dimostra la mancanza delle condizioni perché questi arrivassero. Così se
il progetto di "propaganda del fatto" parzialmente realizzato da A.R. si è dimostrato inefficace (al
punto di indurre la stessa organizzazione a sciogliersi) ciò vuol dire che quegli stati d'animo da
cui discende la disponibilità ad accogliere quel tipo di messaggio, non esistevano, o perlomeno
non avevano quella diffusione a livello di masse sfruttate che le analisi di A.R. davano per
scontata. Davanti a questa non allegra realtà i membri di A.R. hanno deciso di sciogliere una
organizzazione che rischiava altrimenti, a loro giudizio, di sopravvivere come una "sigla" fine a
se stessa e su questa loro decisione non è lecito esprimere dei giudizi in nessun senso. Quello invece
che può venir osservato criticamente è il fatto che essi si rifiutino di prendere in
considerazione l'ipotesi di possibili carenze ed errori contenuti già nelle teorizzazioni da cui ha
avuto origine la progettualizzazione e la genesi dell'organizzazione e credano di interpretare la
scarsa efficacità del progetto e della loro azione come frutto di inefficienze organizzative,
confondendo così "efficacia" ed "efficienza" e ricercando in quest'ultima, anche a scapito delle
componenti libertarie del progetto complessivo iniziale, una soluzione alla situazione che si è
venuta a verificare. La soluzione "efficientista" che hanno creduto di trovare è contenuta in quella
proposta (per molti versi stupefacente) di un dibattito sull'Esercito di Liberazione Comunista con
cui concludono il documento di Livorno e che ha il brutto suono ad un orecchio anarchico di una
riproposizione di quella "militarizzazione delle milizie", accettata (forse sarebbe meglio dire
"subita") dagli anarchici spagnoli nel '36 e che rappresentò la prima grave sconfitta politica della
rivoluzione spagnola, in nome di una "unitarietà" fittizia che portò più tardi, tra l'altro, alle
tragiche giornate di Barcellona. Una proposta del genere non avrebbe mai potuto esser concepita da degli
anarchici, se il germe di
una tale follia non fosse già stato contenuto in un qualche errore del progetto iniziale di A.R..
Questa tara originaria potrebbe forse venire individuata nell'essersi allora lasciati sedurre
acriticamente dal fascino di una "lotta armata" vista come un "toccasana" magico, valido in
assoluto e della cui efficacia essere tanto certi da poter giocare tutto su quella carta e quella sola. Concepire il
ricorso al mezzo delle armi non come uno dei tanti possibili mezzi che, nel quadro
di un progetto rivoluzionario, le circostanze e le situazioni specifiche possono a volte esigere,
altre sconsigliare, ma come "il mezzo", li ha potuti condurre in un certo senso ad una forma di
"essenzialismo" in cui l'idea della lotta armata finiva col costituire un essere metafisico, dal nome
appunto di "La Lotta Armata", determinato da una eutelechia positiva di cui è portatore a
generare suoi propri valori ed a condurre l'intera umanità ad una "salvezza" facilmente
raggiungibile attraverso la partecipazione, vista come funzione "mistica", alla sua "gloria". Assurta a mito (forse
sostitutivo di quello dello "sciopero generale" per i sindacalisti
rivoluzionari di un tempo), la "Lotta Armata" diventa qualcosa a cui è doveroso immolarsi ed
anche sacrificare, se necessario, quegli stessi ideali per i quali si era inizialmente deciso di
accettare di ricorrere alle armi. Ma in questo caso ci ritroveremmo nel mondo della "religiosità" e
in quella dimensione nulla vi è di impossibile, i miracoli e le "convinzioni" più inverosimili
fanno parte della norma. Può persino accadere che persone che si dicono, si vogliono e in cuor
loro sono ancora degli anarchici, possano abbracciare e far loro il sogno di un "esercito". (...)
Gianfranco Bertoli / Angelo Cinquegrani
Processo
Parma
Al tribunale di Parma si è svolto il 3 ottobre scorso il processo
contro i tre compagni del
"collettivo carceri" di Parma - Nella Montanini, Valeria Vecchi ed I. Z. - arrestati il 15
agosto, dopo il ritrovamento in casa della Vecchi di esplosivo e detonatori già confezionati in
bottiglie di shampoo e pacchetti di sigarette. L'accusa era di porto e detenzione di esplosivo e
di tentata procurata evasione, dal momento che esplosivo e detonatori erano diretti al
supercarcere di Nuoro. Nello stesso processo, infatti, sono stati giudicati anche tre detenuti in
quel supercarcere, tra i quali il compagno Horst Fantazzini. Le condanne sono state pesanti: 8
anni alla Vecchi, a Z. e a Fantazzini; 4 anni e 6 mesi alla Montanini; 5 anni a Cucinotta e
a Piccolo, gli altri due detenuti imputati. A ulteriore, piccola
ma significativa, conferma della disumana brutalità della repressione, va
citato il comportamento dei carabinieri in aula che si sono avventati sui compagni e le
compagne che cercavano di abbracciarsi e di baciarsi. L'amore per la vita - ha scritto in
proposito Horst Fantazzini in una lunga lettera pubblicata su Anarchismo - è, per questo potere
che ci vuole confezionati in esistenze di plastica, il più alto atto di sovversione
sociale. |
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