Rivista Anarchica Online
Il fantasma di Marilyn
di Luciano Lanza
I suoi occhi, la sua bocca, il suo corpo avevano fatto sognare milioni di uomini. Maggiorata,
simbolo del sesso, amante ideale... quante definizioni le avevano trovato i pubblicitari, gli
opinion-makers. Un mito che la grande macchina hollywoodiana aveva imposto e che milioni di
uomini avevano vissuto in modo partecipato, cullati da quell'immagine così carica di
sex-appeal.
Poi la morte improvvisa. Il mito viene soppiantato. Altri miti prendono il suo posto. Sono
immagini completamente diverse: occhi profondi, visi dolcissimi, corpi eterei. Ma oggi quel mito
degli anni cinquanta si ripropone intatto, immutato. Marilyn Monroe (è di lei che sto scrivendo) ritorna.
Posters, articoli frivoli, saggi seriosi,
biografie, servizi fotografici. Un vero e proprio revival. L'immagine un po' stereotipata con calze
a rete e sorriso invitante si ripropone con la stessa verve di quasi trent'anni fa. Perché? Oggi
come
ieri l'immagine Marilyn è solo un prodotto pubblicitario oppure risponde a dei requisiti legati alla
nostra cultura sessuale? Segno del riflusso o archetipo sessuale dimorante nella nostra libido? Senza troppo
addentrarci nei sentieri impervi e contraddittori della psicanalisi rimaniamo al fatto
di costume, al dato facilmente verificabile perché apparente. Quindici/venti anni fa - rileva
Jacques Laurent, autore di "Le nu vetu et revetu" - i fantasmi sessuali prevedevano corpo con
reggiseni e giarrettiere. Un fenomeno solo del passato, anche se recente? No, ci spiega Marie
Françoise Hans che ha curato l'inchiesta "Les femmes, la pornographie, l'erotisme": "ho notato un
ritorno di massa di calze, reggiseni, slip di raso... indumenti che vanno letteralmente a ruba,
almeno qui a Parigi". Il problema si fa un poco più chiaro. Si è quasi tentati di fare un parallelo
tra la giarrettiera e Marilyn. Un parallelo solo apparentemente contorto (essendo uno un oggetto,
l'altra una persona) perché sia la giarrettiera sia Marilyn sono vissuti non per la loro fisicità, ma
per il loro valore simbolico. Entrambe sono dei simboli che la cultura produce assegnandogli una
funzione erotica. Il "fantasma sessuale" si materializza, esce dalla fumosa astrattezza per fissarsi
su un'immagine reale. Ma in questo processo di materializzazione il fantasma sessuale, proprio
perché si compenetra in un'immagine definitiva, limitata, circoscritta, perde le sue valenze non
dette i forse indicibili, in definitiva si riduce, rendendo unidimensionale ciò che era
multidimensionale. Il processo, però, non è solo in una direzione, ma circolare e così
dall'immagine reale riparte una
corrente opposta che ritorna all'astratto, e in questo astrarsi si carica di nuove valenze in una
circolarità che si arricchisce sempre più. Tutto questo lascerebbe supporre che l'immaginario sia
sempre più ricco del reale, ma non è affatto certo, anzi molti sostengono (ad esempio l'amico e
compagno Flecchia) che l'immaginario è sempre riduttivo rispetto al reale. Posto in questi termini
il problema è irresolubile se non includiamo tra le categorie del reale il divieto, il proibito. Le
regole sociali contemplando il divieto pongono una limitazione all'esplicarsi dell'attività umana e
forse è proprio dalla percezione del proibito che si sviluppa l'erotismo. L'immaginario erotico in
quest'ottica è contraddittorio, nasce dal divieto, ma nel contempo si pone in antagonismo con il
divieto e vuole superarlo attraverso la rappresentazione fantastica. Anzi, la sua esistenza è data
proprio da questa contraddizione, rimane all'interno della contraddizione, essendo questa la sua
linfa vitale. Parlare di un immaginario erotico libero o liberato è quindi un nonsenso perché i
termini si escludono vicendevolmente. Impossibile poi riuscire a districarsi nel groviglio
culturale, nella sovrapposizione temporale che i vari tabù sessuali hanno sedimentato nel nostro
inconscio. Solo operando in modo arbitrario, e non vero, riusciamo ad operare una distinzione,
tutta fittizia, tra immaginario erotico "liberato" e immaginario erotico "represso". Oggi non ha forse più
molto senso domandarsi se il proibito è una categoria eteroimposta o
autoimposta, quello da cui dobbiamo partire (dato che vogliamo rompere il proibito per inoltrarci
nel liberato) è che siamo capaci di pensare solo in termini di delimitato, di definito, di
circoscritto, cioè di proibito. Osserviamo la realtà circostante. La liberazione sessuale di questi
ultimi dieci/dodici anni ha messo in crisi molte convenzioni, ha rotto molti schemi, ha avviato
una sempre più crescente uguaglianza tra i sessi. Le premesse sono ottime, sviluppando il
paradigma dovremmo giungere alla soppressione dei tabù imposti dalla asfissiante cultura catto-comunista,
e invece vediamo che la generazione post-sessantottesca non ha più (se non in
minima misura) quei tabù ma ne ha altri, cioè il suo codice comportamentale è formulato
secondo un nuovo delimitato, un nuovo definito, un nuovo circoscritto, cioè un nuovo
proibito. L'esempio può far suscitare qualche perplessità, sono molte le obiezioni che si possono
fare, ma
qui quello che mi preme rilevare è che nonostante i nostri sforzi per liberarci assistiamo ad una
costante riproposizione del proibito, quasi ad indicare l'illusorietà delle nostre aspirazioni. Il
drammatico (se vogliamo usare questo termine enfatico) è che non rompiamo il proibito, ma lo
spostiamo, liberalizziamo una direzione e ne proibiamo un'altra. Non sappiamo rappresentarci
senza il proibito, qualunque esso sia. Infatti l'erotismo cambia di segno, assume altre sembianze,
ma non è scomparso, anzi curiosamente si ripropone nei suoi aspetti esteriori con gli abiti della
donna anni quaranta/cinquanta (chi scrive è un uomo e pertanto riesce a parlare di erotismo solo
in termini di segni femminili, scusate l'incompletezza). Ma quel tipo di abbigliamento non fa
subito pensare anche al soggetto che l'indossava allora, con tutte le sue nevrosi, le sue paure, le
sue incertezze? Si potrà obiettare che i creatori di moda sono in gran maggioranza uomini e che a
ben guardare, forse sotto sotto c'è un po' di revanche maschilista che vorrebbe di nuovo
ruolizzare, ricodificare ciò che il femminismo sta cercando di decodificare. Certo è possibile. Ma
del fenomeno si può fare una lettura opposta. Quindi vedervi una ricerca di specificità femminile
che non sapendo quali percorsi intraprendere si rifugia in collaudati, e soprattutto rassicuranti,
modelli del passato. E così il nostro erotismo ripercorre i suoi viaggi fantastici partendo
nuovamente da giarrettiere, calze a rete, gonne con lo spacco, ecc.. Un vicolo cieco, o meglio, un
continuo girare su se stessi, un riproporsi di fatti già accaduti. Che niente niente abbia ragione
quel burlone di Gian Battista Vico? Ma qual è lo sbocco, ma c'è un'uscita? Certo se l'erotismo
nasce dal proibito (inteso evidentemente nel senso più ampio) l'uomo liberato
saprà fare a meno dell'erotismo, anzi teoricamente non dovrebbe nemmeno percepirlo. Non so se
la prospettiva sia allettante perché questo benedetto/maledetto erotismo è comunque un frutto
dolcissimo. Ma non solo un frutto dolcissimo, anche una componente tutt'altro che secondaria
della capacità di astrazione dell'individuo. Quindi una componente della cultura e del far cultura
dell'uomo. Non è quindi azzardato ipotizzare che l'immaginario erotico è stato e continua ad
essere momento di sviluppo della cultura perché superamento della natura. Quando l'uomo
preistorico inizia a pensarsi eroticamente si scinde dalla sua condizione animale.
L'accoppiamento non è più determinato solo dalle esigenze fisiologiche, ma anche (e poi sempre
più) dalla sua cultura sessuale. Così i rapporti perdono la loro animalità perché
mediati
simbolicamente dall'immaginario erotico che li riveste di una nuova dimensione. L'erotismo, la
cultura del sesso, è dunque superamento della condizione animale. Se è l'homo faber che eleva il
livello materiale dell'esistenza è l'homo eroticus che compie quel grande salto nella dimensione
qualitativa della vita. Ma allora l'erotismo è bene? È male? È giusto? È sbagliato?
Non lo so. E in
questo momento non mi interessa trovare una risposta univoca. Per troppi anni ho avuto la
pretesa di giudicare, di valutare, di sentenziare, di vagliare, di separare l'essenziale dal superfluo,
per poi arrivare a constatare una cosa tanto ovvia: la realtà è molto più complessa di come
amiamo rappresentarla e le dichiarazioni di principio servono a enunciare i problemi, non a
risolverli.
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