Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 80
febbraio 1980


Rivista Anarchica Online

Da due anni ho una figlia e tanta voglia di parlarne
a cura della Redazione

Parto? Bambini? Genitori? Sino a qualche tempo fa queste parole, all'interno del movimento rivoluzionario, erano quasi tabù. In fondo la stragrande maggioranza dei compagni si sentiva troppo figlio/a per poter pensare di diventare "genitore" a sua volta. Ma il tempo passa e con gli anni è venuto per tutti, o quasi, anche il momento di fare i conti con la vita di tutti i giorni, al di là delle vie più o meno obbligate della militanza, e fra questi "conti in sospeso" uno è quello dei figli.
In questi ultimi anni molti compagni sono diventati "genitori", hanno vissuto l'esperienza del parto, stanno sperimentando ogni giorno cosa vuol dire avere un figlio/a con tutto ciò che questo comporta in tentativi ed esperienza. Sino ad oggi tutto questo era rimasto un fatto "privato", ma per chi come noi non crede alla separazione fra "privato" e "pubblico" esso è un altro tema su cui discutere, sperimentare, confrontarsi ed è per questo che abbiamo pensato di dare il nostro contributo a questo tema col servizio che segue curato dalla compagna Rosanna Ambrogetti di Forlì.
Abbiamo creduto utile dare la parola innanzitutto a Rosanna stessa che ha vissuto l'esperienza del parto e sta ora vivendo l'esperienza del figlio, corredando le sue riflessioni con alcune interviste: la prima ad un ginecologo compagno (Pippo Tadolini) che opera in un paese delle Marche all'interno della struttura ospedaliera; la seconda ad un insegnante (Laura Budroni) che lavora in una asilo-nido con bambini di età dai tre mesi ai tre anni; la terza infine, ad un compagno (Gianni Cerasoli) che assieme ad altri - per ora pochi - sta portando avanti il progetto "Colonia Harmonio", che può esser un tentativo di pedagogia alternativa, o almeno il tentativo di un rapporto diverso con i bambini.

Da due anni ho una figlia e da due anni e mi porto dietro la voglia di parlare di questa mia esperienza con qualcuno. Voglia finora quasi mai soddisfatta, perché da parte mia c'è sempre stato il timore che i miei interlocutori non fossero realmente interessati a condividere con me questa cosa. Scriverne è più facile: nessuno mi interrompe e solo chi è interessato mi seguirà sino alla fine. Ma non è solo per soddisfare questo mio bisogno di parlarne che mi interessa scriverci sopra.
È anche il bisogno di spezzare una lancia a favore di questo argomento, cosa questa piuttosto difficile ed inaccettata. Infatti i religioso "partorirai con dolore" è stato fatto proprio dalla stragrande maggioranza delle persone per cui se una donna racconta la sua brutta esperienze in proposito è capita e aiutata. Se viceversa ne parla in toni positivi e sereni è guardata come la marziana del momento, quasi con incredulità e sufficienza. Innanzitutto c'è da dire che la mia (anzi la nostra!!!) è stata una gravidanza voluta e non un "incidente" accettato a posteriori. Penso sia impossibile dire i motivi razionali che ci hanno portato alla decisione di avere un figlio: è molto più facile trovare i motivi del contrario. È altrettanto vero che per quanto ci si ragioni sopra se non ci si lascia prendere dalla paura e semplice "voglia" non si arriva mai a deciderlo. Questa premessa per poter far capire meglio quale era il mio stato d'animo durante il periodo della gravidanza. Ero felice, ma nello stesso tempo temevo di scontrarmi con l'incomprensione delle mie compagne e dei miei compagni. Nonostante aleggiasse già nell'aria il nuovo slogan coniato dalle femministe "mamma è bello", pensavo fosse ugualmente difficile essere accettata. Invece non è stato così. La definizione "stato interessante" non potrebbe essere più azzeccata. Tutti si sono interessati, hanno chiesto, hanno seguito la mia gravidanza!
In questo stato di grazia ho aspettato il parto. Avevo dalla mia parte, cosa per niente di poco conto, il fatto di avere scelto questa esperienza, di non essere sola, di volere a tutti i costi cercare di viverla bene sino in fondo. La mia è stata una bella gravidanza, senza grossi problemi. Tutto questo mi ha permesso di esorcizzare la paura del parto; tutto questo ed assieme a questo la lettura di libri, l'aver seguito un corso per il training-autogeno e tante altre cose ancora. Quando "è arrivato il momento" ero molto tranquilla.

All'ospedale

Avrei voluto partorire in casa. L'ospedale secondo me, probabilmente per esperienze bruttissime che ho avuto in passato, è l'ultimo luogo dove si dovrebbe andare, soprattutto per una cosa non necessariamente legata al dolore ed allo stato di malattia. Purtroppo da noi è ancora impensabile l'equipe medico-infermieristica che si sposta e segue "a domicilio" il parto. In altri luoghi questo già succede, noi ci siamo ancora troppo lontani per cui non è attuabile neanche un surrogato. Quindi ospedale per forza.
Avevo scelto un piccolo ospedale della zona e lì avevo già seguito un corso di preparazione al parto; in questo ospedale lavorava anche mio ginecologo per cui ero riuscita a "pretendere", superando la soggezione in cui sempre ci tengono i medici dall'alto della loro scienza, un certo trattamento: il mio obiettivo era il famoso "parto senza violenza", ovviamente mediato con la realtà di una sala-parto ospedaliera con personale a me estraneo e con esigenze che scavalcano sempre i bisogni individuali. L'impatto è stato ugualmente brutto.
Eravamo riusciti ad ottenere, io ed il mio compagno, di essere assieme sia prima che durante il parto. Questa era già una cosa fuori dal normale: la loro norma è avere meno impicci e meno controlli possibili e cioè nessuno in sala parto. In quanto all'attesa, in sala travaglio, viene accettata favorevolmente la presenza della madre della partoriente o di un'altra donna: presenza che consente loro un'assistenza minima; quella dell'uomo molto meno: sono cose da donne e gli uomini sono di intralcio. La loro parte (dei medici, delle ostetriche, ecc.) è sempre molto sbrigativa e di routine. Entrano, visitano, escono senza mai soffermarsi a dire anche solo due parole alla "paziente". Se tutto procede regolarmente, come nel mio caso, si limitano ad aspettare. Se viceversa la cosa va per le lunghe, senza mai dare spiegazioni o chiedere il parere dell'interessata, cominciano una serie di "trattamenti" per accelerare il travaglio. Il tutto spesso, per non dire sempre, al solo scopo, niente affatto terapeutico, di sbrigarsi il prima possibile.
Per tornare a me, devo invocare la fortuna se sono riuscita a schivare tutte queste cose. Ho avuto un parto naturale, senza dolore. Sia ben inteso: ho detto senza dolore, non senza fatica. Il mio compagno era assieme a me, anche se fino all'ultimo hanno cercato di farci cambiare idea tirando in ballo possibili svenimenti e malori. Questo per noi è stato molto positivo per vari motivi: primo fra tutti quello di dividere il più possibile questa esperienza fino alla fine (ma dov'è la fine?). In secondo luogo perché il fatto che qualcuno potesse sostenermi nelle mie richieste in sala parto è stato determinante. Infatti sono capitata in un giorno in cui c'era tutto personale a me quasi sconosciuto e le mie "pretese" erano trattate con sufficienza. Solo il fatto di essere in due ci ha permesso di far valere i nostri desideri e non quelli del medico. Lo stesso medico che durante i corsi di preparazione ci faceva vedere bellissimi filmini di parti sorridenti, con il padre vicino, con il rispetto dei più elementari principi di un parto "diverso", mi ha detto in sala-parto: "Spero non si sarà montata la testa con tutte quelle storie che vi abbiamo fatto vedere al corso! Non è necessario seguirle alla lettera!". Niente più di questa frase poteva farci forza nella nostra convinzione che avevamo diritto di essere rispettati. L'ambiente quindi non era dei migliori, ma siamo riusciti a comportarci quasi come se fossimo stati soli. Ho tenuto mia figlia sulla pancia, l'abbiamo toccata e tenuta in braccio, il mio compagno ha seguito il suo primo bagno. Insomma l'abbiamo conosciuta subito tutti e due, ignorando i sordi brontolii del medico per il fatto che Franco, dopo avere infranto la regola dello svenimento, esagerava nel suo contrario: non aveva "schifo" a vedere, toccare, seguire me e la bambina in un momento in cui tutte e due eravamo ritenute impresentabili; la piccola non era ancora lavata e vestita ed io "non ero certamente un bello spettacolo", come spesso si sente dire di una donna che partorisce come se questa fosse la peggiore cosa che può capitare: la figa in disordine!! Quando tutto è finito ci si accorge pienamente di essere in ospedale: si ritorna subito ad essere un letto con un numero; lo stato interessante veramente finito: si viene sballottate, catalogate, visitate, nutrite, ma soprattutto ignorate. Arrivate a questo punto non si deve avere bisogno di niente di più di quello che ti danno, né tantomeno di parlare, chiedere, sapere. Già incalzano altre partorienti e bisogna dare meno fastidi possibile.
Chi esprime il desiderio di non allattare il proprio figlio viene considerata male, ma paradossalmente chi, con poco latte, chiede, insiste, nel tentativo di riuscirci è una che fa perdere tempo prezioso e viene liquidata sbrigativamente. Lasciano le donne talmente abbandonate a se stesse che per colmo di ironia, si arriva alla visita ginecologica prima di essere dimesse con una paura più forte di quella del parto. Vorrei sottolineare comunque che nonostante il roseo racconto anch'io sono stata colta dal panico di fronte al fatto che mi stava succedendo una cosa del tutto nuova e sconosciuta, se non nella teoria. Ho superato questo panico con la volontà di riuscire a tutti i costi nel miglior modo possibile. Ho poi capito nei giorni successivi quanto siano vere e comprensibili le esperienze negative che si raccontano in proposito. Ho sentito altre donne partorire, le ho sentite gridare, ho parlato con loro: ho verificato come la maggiore responsabilità di questo dolore sia l'ignoranza.
Il fatto che il destino naturale della donna sia quello di partorire giustifica automaticamente l'assenza totale di informazione, anche sui più elementari meccanismi che portano al parto. Ho anche notato che la gravidanza non desiderata si risolve spesso con un parto doloroso. Oserei dire che molto spesso (a parte ovviamente le molte eccezioni di casi realmente difficili) il dolore del parto, come i disturbi in gravidanza, non sono altro che una somatizzazione di ben altri problemi. Ebbene è proprio in questi casi, dove cioè le cose non vanno nel migliore dei modi, dove maggiormente le donne avrebbero bisogno di aiuto e comprensione, che il personale ospedaliero mostra il suo vero volto.
Ho sentito donne che piangevano e gridavano, ma sopra di loro si elevava sempre la voce ancora più forte del medico: questo individuo, che in fondo ha ben poca parte nella riuscita del parto, si arroga il diritto di protestare e strepitare se una donna si permette di esprimere dolore e paura. Ho sentito personalmente le solite frasi: "... adesso urla, ma prima...". È palesissima l'insofferenza dei medici nei confronti delle richieste di aiuto di tante donne. Tutto questo con l'ovvio risultato di peggiorare notevolmente le cose. Infatti se da una parte esiste l'ignoranza di molte donne su quanto sta succedendo loro, dall'altra permane l'atteggiamento irrisorio di tanti medici che fanno di tutto per sottolineare l'incapacità delle donne di affrontare serenamente il parto, ma nulla che possa servire a cambiare le cose. Questo è veramente grave. È talmente fondamentale, secondo me, il modo in cui si vive questa esperienza nei rapporti stessi che si instaurano da subito con il figlio/a, che svicolare di fronte ai problemi che questo comporta è una precisa responsabilità. Il cambiamento è difficile e se non sono le donne ad esigerlo, cominciando una pratica diversa, niente verrà loro "concesso". È fondamentale il rispetto della conoscenza del proprio corpo ed è in questo senso che bisogna cominciare a cambiare, rompendo l'abitudine secondo la quale ci si affida ciecamente e completamente agli addetti ai lavori, ritenendosi incompetenti. Autogestione quindi? Chissà! Perché intanto non proviamo?

E dopo?

Il ritorno a casa segna il vero cambiamento: c'è una persona in più, una persona sconosciuta con cui fare i conti. Ci si è presentato subito, prepotentemente, il problema di riorganizzare la nostra vita cercando di conciliare il più possibile le esigenze della bambina con le nostre, che permangono immutate. Non è facile, ma neanche impossibile.
Se poi si è realmente in due la cosa assume una dimensione realizzabile. Non voglio dire che tutto sia come prima. Anzi se si parte con questa convinzione le delusioni non mancano. Una delle cose che più volevo dimostrare a me stessa ed agli altri era l'infondatezza del concetto secondo il quale è la madre ad avere la responsabilità maggiore dei figli. Questo concetto è veramente ricorrente.
Lo stesso Marcello Bernardi che ha scritto, fra l'altro, un interessante libro sul bambino ("Il nuovo bambino") - e che è stato intervistato sulla nostra rivista ("A" 70: la fabbrica dei cretini) - pecca in questo senso tirando sempre in ballo come controparte del bambino la madre e non entrambi i genitori. Su questo punto avrei tante cose da dire, troppe forse per essere riassunte in poche righe. È vero soprattutto nel primissimo periodo di vita, è la madre ad avere un rapporto più stretto col bambino: è lei che lo ha portato dentro di sé e che costituisce il suo primo punto di riferimento; è lei che, allattandolo, soddisfa il suo primo bisogno; è lei che nei primi tre mesi (periodo in cui si sta a casa dal lavoro) passa più tempo con lui. Ma questo non significa necessariamente che debba sempre essere così. Ci hanno legate, noi donne, a questo senso del dovere senza limiti in nome dell'istinto materno. E i padri si sono adattati comodamente in questa situazione. Anch'io sinceramente ho sentito questo condizionamento in qualche momento particolare, ma la volontà comune a me ed al mio compagno di vivere diversamente questo rapporto è sempre stata più forte e l'esperienza ci ha dato ragione.
Spesso ci siamo trovati, naturalmente, senza forzature, a capovolgere i luoghi comuni per cui la madre accudisce ed il padre gioca, ma ancora più spesso abbiamo conciliato perfettamente queste cose: il fatto di poter contare ognuno sull'aiuto dell'altro ha fatto sì che stare con nostra figlia non sia mai stato un peso. Anzi in un certo senso con lei siamo tornati... ai giochi! In definitiva il rapporto madre-padre-figlio/a è quello che si vuole che sia, mai assolutamente precostituito come la nostra cultura vorrebbe. La migliore risposta ai nostri sforzi è quella di nostra figlia: ha con entrambi un rapporto bellissimo, diverso perché siamo diversi, ma paritetico. Ma se questo è stato per noi un primo relativo "successo", non altrettanto soddisfacente è stato un altro aspetto di questa nuova situazione: il rapporto con gli altri compagni. La vita con nostra figlia ci ha costretto a cambiamenti, prevedibili per noi, ma forse non altrettanto per gli altri. Soprattutto all'inizio c'è stata da parte nostra una diversa disponibilità verso i compagni, non tanto forse in termini quantitativi, quanto piuttosto qualitativi. Mi spiego: la minor disponibilità di tempo ci ha inevitabilmente portato a fare delle scelte di priorità: partecipare alla vera e propria "attività politica" ha significato non dividere più totalmente il tempo libero coi compagni. Questo a lungo andare si è trasformato in emarginazione, isolamento dagli altri. Ed è questo secondo me il punto che non quadra.
Non pretendevo certo che i compagni fossero disponibili a dividere con noi questa scelta, ma che dovessero accettarla per quello che è, sì: una scelta diversa da quella di tanti altri, ma libera quindi altrettanto valida. Sinceramente ho invece avuto l'impressione che non sia stato così; non so quanto abbia influito su questo il fatto che io, come già detto all'inizio, ero abbastanza prevenuta su questo: mi aspettavo cioè un atteggiamento critico da parte dei compagni. Il fatto è che, nonostante facciamo un gran parlare di cambiare i rapporti, se solo si esce dal cliché di vita "da compagni" si rischia di ritrovarsi soli e la tanto sbandierata libertà individuale, per una sorta di moralismo a rovescio, viene accettata solo se rimane entro certi schemi precostituiti. Questo ci ha deluso soprattutto perché la nostra non voleva e non vuole essere una scelta "individualistica", che ci separa dal resto dei nostri interessi: ci coinvolge come compagni ed è per questo che vorremmo che fosse aperta ad un confronto con gli altri.
Gli argomenti di discussione non mancano: se da una parte l'ipotesi della socializzazione completa dei bambini è tutta da verificare, dall'altra è però impensabile liquidare l'argomento come un problema esclusivamente individuale; tra queste due opposte "soluzioni" ci possono essere tantissime altre possibilità. Certamente la vita che ancora siamo costretti a vivere, non libera, non ci consente di verificare fino in fondo qual è la strada giusta da seguire, ma secondo me è essenziale fare dei tentativi, misurare anche su questo problema la nostra disponibilità ad una vita diversa, più "collettiva" se non nei suoi più ampi risvolti pratici almeno nella discussione e nel confronto su questo problema, anche se non ci siamo coinvolti come genitori. Questo almeno per ora non si è verificato, ma non vorrei eccedere in pessimismo. Sono vere le impressioni che ho riportato sopra, ma è altrettanto vero che io ho sempre la voglia di cambiare.
Questo è per me un argomento aperto alla discussione, ma soprattutto aperto alla sperimentazione: come ho già detto non esiste un modello universalmente valido da seguire. Anch'io sto imparando!!! Ma mi piacerebbe farlo anche con qualcun altro, oltre al mio compagno. Chiedo troppo?

Rosanna Ambrogetti

Donne e parto

Pippo, qual è l'atteggiamento, o i diversi atteggiamenti, delle donne di fronte al parto?

Innanzi tutto non c'è un atteggiamento davanti al parto: esso viene vissuto in maniera estremamente differenziata a seconda dei diversi tipi di donne: esiste una grande differenza fra donna giovane e quella anziana, fra quella al primo figlio e quella al secondo o al terzo; fra la donna sola e quella che al momento del parto può contare sulla compagnia di qualcuno; fra la donna "semplice" e quella "sofisticata"; dipende dal grado di cultura, di integrazione sociale ecc.. Comunque il dato di maggiore influenza sembra essere l'accettazione, non tanto del parto il sé, quanto del figlio.

Quindi secondo te si può ipotizzare una connessione fra l'atteggiamento di fronte al parto e l'andamento del parto stesso?

Senz'altro; è quasi una costante. L'accettazione o meno del figlio incide molto sul modo di affrontare il dolore del parto: il figlio non voluto, che ha fatto sbuffare in gravidanza fa sbuffare anche durante il parto.

E l'ambiente?

Anche questo, secondo me, è un fattore che incide moltissimo. In un ambiente tranquillo, piccolo, quasi familiare, con qualcuno vicino che segue più direttamente il parto la cosa viene vissuta con più serenità e sicurezza che non in un ambiente (il grosso ospedale) con tante donne contemporaneamente in travaglio in cui il personale è diviso fra tante partorienti e spesso sostituito da macchinari vari. Lo stato d'animo delle donne varia molto se inserite in queste due diverse situazioni.

D'accordo, ma non mi sembra che la dimensione sia sufficiente a giustificare le carenze dell'ospedale e dei medici.

Sì, questo in parte vero. Infatti è molto diffuso, a prescindere dalla dimensione della struttura ospedaliera, un atteggiamento tutt'altro che positivo dei medici e delle stesse ostetriche nei confronti delle partorienti: quasi una colpevolizzazione delle donne per il loro dolore. Questo comportamento è senz'altro deleterio poiché il fattore "calma" è essenziale nell'andamento del parto; e purtroppo è un atteggiamento diffuso anche ad altri campi, non solo in quello ginecologico.
Purtroppo i medici sono spesso preoccupati principalmente, ad esempio, di farsi una "casistica", nella prospettiva di consolidare la loro posizione. Non a caso usano due pesi e due misure: la "cliente privata" viene trattata con oggi riguardo (Ne va del prestigio personale!), mentre per la "sconosciuta" c'è una grossa indifferenza. E di conseguenza salta fuori come ogni medico agisca per conto proprio, come sia quasi completamente ignorato un lavoro d'équipe, come praticamente in ogni reparto chi decide è innanzi tutto il primario, senza alcun controllo diciamo, genericamente, dal basso. Secondo me comunque questa situazione si può modificare proprio partendo da un maggior controllo dall'esterno: con una maggiore educazione sanitaria, intesa qui nel senso di far prendere coscienza alla gente che la medicina pubblica è un "bene" al proprio servizio. Quindi educazione sanitaria da non delegare al medico, ma di cui appropriandosene. Certamente gli ospedali sono dei grossi carrozzoni che fanno acqua da tutte le parti e, secondo me, non dovrebbero essere più gli unici luoghi in cui si fa medicina, ma essere affiancati da una serie di altre strutture senz'altro positive. Nel campo ginecologico, poi, questo sarebbe ancor più facilmente realizzabile: ad esempio a livello consultoriale si riuscirebbe, con una gestione più diretta delle donne, ad ottenere molto.

Pippo, nonostante ciò che hai detto finora, mi sembra che tu rimanga sostanzialmente "medico". Allora, da medico, cosa pensi si debba e si possa fare da subito?

Principalmente ci vorrebbe l'impegno di tutti, medici e non, per "smedicalizzare" molte cose.
Le proposte pratiche sarebbero tante ed io credo che almeno in parte sarebbe possibile realizzarle, e forse qui sono in disaccordo con te visto che non sono anarchico, anche agendo a livello amministrativo. Oltre poi all'ambito strettamente ospedaliero è secondo me giusto non sottovalutare niente: dall'ostetricia domiciliare, al parto senza violenza ecc., senza però crearne nuovi miti. Certo è che la qualità di queste cose cambia in maniera direttamente proporzionale all'aumento della democrazia diretta, dell'autogestione possibile. Ma l'autogestione in questo campo non è realizzabile se rimane un fatto a sé stante: ciò è possibile se è in piedi un movimento di lotta per la salute; se il livello della lotta per la difesa della salute è alto, quindi miglioramento dell'ambiente ecc. E qui il discorso diventa enorme: arriviamo a parlare di ecologia, di modelli sociali... In definitiva esperienze importanti e significative sono possibili se la lotta è in piedi: quanto più ci si ammoscia, si delega, allora è ovvio che non si delega solo a livello politico, ma anche, a livello spicciolo, per quanto riguarda la propria salute.

Bambini, genitori, asili-nido

Laura, tu vivi con i bambini per motivi di lavoro, quali sono stati e quali sono i problemi che hai con loro?

Considerata la scarsa, anzi nulla, preparazione che mi è stata data dall'Istituto Magistrale non nascondo le difficoltà che ho trovato per "adattarmi" a bambini così piccoli, bambini di cui tanto si parla per quanto riguarda le pappine i pannolini ecc., ma di cui poco si discute per quegli aspetti e per quelle esigenze che non sono unicamente igieniche-sanitarie. Per cercare di instaurare un rapporto positivo con il bambino è senz'altro indispensabile il confronto con i genitori. Sarebbe necessario, quindi, conoscere l'ambiente in cui il bambino vive, il tipo di rapporto che ha col padre e la madre e con tutte le persone che in un modo o in un altro e entrano in contatto con lui. L'esigenza maggiore che spinge i genitori ad accettare il nido è determinata dal non avere possibilità diverse nel collocare il proprio figlio e l'asilo viene visto, molto spesso, come puro e semplice luogo di "deposito". In conseguenza di questo e dati gli orari di lavoro e dell'asilo, spesso vi è solo un rapporto saltuario fra insegnanti e genitore, un rapporto che si riduce ad un elenco di ciò che il bambino ha mangiato, sia fatto la "cacca", come si è ritrovato quel morso sulla guancia, ecc.. Uno dei tanti problemi è quindi quello di cercare di coinvolgere i genitori in ciò che avviene all'interno del nido; è infatti essenziale un buon rapporto famiglia-nido affinché il bambino non sia frustrato continuamente in due ambienti diversi fra loro e non comunicanti.

Secondo te cosa e quanto influisce il rapporto che il bambino ha con i genitori, e più in generale con gli altri, sul suo comportamento?

È ormai consapevolezza di tutti che ogni bambino sin dalla nascita riceve innumerevoli stimoli e risposte che lo inducono poi ad adottare un metodo di comportamento che può essere più o meno positivo in conseguenza del tipo di rapporto che riesce ad instaurare con i genitori e, visto come è strutturata la società, in particolare con la madre. È credenza comune che i primi mesi di vita del bambino siano come giorni di letargo e di estraniazione e vengono quindi considerati un periodo per il suo sviluppo di persona. Ma è questa una credenza profondamente errata ed a sostegno di questo si possono portare innumerevoli esempi che ho anch'io sotto gli occhi ogni giorno: in genere i bambini più "tranquilli" e più sereni sono quelle che sono allattati (al seno della madre e non) in un tempo maggiore e con attenzioni tattili, di gioco, ecc.; ancora: i bambini che sin da piccoli hanno maggiori stimoli visivi, sonori e possibilità più vaste di manipolazione sono poi più capaci, anche al di fuori del mondo da loro principalmente conosciuto, di recepire nuovi stimoli. In sostanza, soltanto se il bambino ha potuto sperimentare l'efficacia dei suoi segnali, cioè ha ricevuto risposte pronte ed adeguate, soprattutto nei primi mesi di vita ed ha goduto di rapporti affettivi ricchi di contatti fisici (ad es.: venir preso in braccio per essere nutrito, cambiato, consolato, ecc.) potrà sviluppare la fiducia nell'ambiente ed una certa sicurezza nelle sue capacità che gli permetteranno poi di sviluppare una autonomia ed una indipendenza maggiori. Se sin dai primi mesi di vita si possono riscontrare certi comportamenti che sono determinati dal rapporto fra bambino e genitori, si può senz'altro verificare ancora meglio quando il bambino è più grande, e cioè riesce ad esprimersi attraverso la parola, il disegno e la drammatizzazione. Penso che tutte le insegnanti della scuola materna abbiano potuto verificare come un bambino abituato ad avere in casa rapporti di una certa affettuosità (intesa qui nel senso più ampio del termine) sia poi più disponibile e fiducioso al contatto con persone fino ad allora estranee e come invece un bambino privato o comunque limitato in questo sia in genere più impaurito, o assuma comportamenti aggressivi e di difesa nel rapporto con gli altri. Inoltre, tanto per continuare a fare degli esempi, ho potuto constatare come i bambini, sin dai primi anni di vita interiorizzano il ruolo del papà e della mamma nella società ed all'interno della famiglia: in quello che dicono o nei disegni che fanno, anche i primi e più elementari, si trova il padre che lavora fuori casa, che legge il giornale, mentre la madre lava i piatti, stira ecc. dimostrando così come si siano già formati schemi mentali che poi difficilmente si riescono a mutare, permettendo così a questa società di riprodursi nella sua negatività.
Un argomento così vasto non può certo esaurirsi in quello che ho detto finora, ma vorrei ribadire quanto sia determinante il rapporto col proprio figlio fin dai primi momenti di vita, poiché questi sono fondamentali per la formazione del carattere e della personalità di un essere umano e come si possa indirizzare in un senso o in un altro i suo modo di concepire la vita, la sua possibilità di avere rapporti sociali più o meno soddisfacenti. Resta da vedere comunque come questa società dia poi la possibilità, a livello di tempo, di conoscenza, di serenità, ai genitori ed agli adulti che stanno con il bambino di avere con lui un rapporto positivo; e quindi, penso, le cose da dire sarebbero tante.

Progetto harmonio

Che cos'è e cosa si propone e da quali esigenze è nata l'iniziativa Harmonio?

L'iniziativa per una "Colonia anarchica estiva per bambini" nasce da un appello apparso tempo fa su "Umanità Nova". In quel piccolo annuncio Cristiano proponeva al "movimento" la discussione di una proposta pedagogica ancora non ben delimitata, ma che conteneva già alcuni elementi qualificanti sui quali ci si poteva confrontare. Ho già provato a specificare le esigenze ed i bisogni che portarono alla proposta ("L'Internazionale" n. 18 del 25/11/79 - ndr) riassumendole come "voglie": voglia di recuperare/rivendicare il nostro rapporto con l'infanzia; voglia di educare/educarci alla libertà ed all'autogestione; voglia di verificare la nostra disponibilità e "tolleranza"; voglia di arrivare ad una "liberazione" non formale in un mondo che libero non è mai stato e non sembra voler diventare...
Il neonato "progetto pedagogico" (poi battezzato Harmonio - Armonia in Esperanto) è nato con questi presupposti in un momento non certo dei più felici per impegno ed iniziative; un "momento" che sembra non voler ancora terminare!
Non è mia intenzione fare la cronistoria delle vicissitudini che hanno coagulato attorno ad Harmonio gli sforzi di pochi e l'adesione di molti, l'importante è, ora, proseguire nella definizione della colonia e continuare il dibattito sul ruolo pedagogico che con maggiore consapevolezza ogni anarchico si trova a svolgere ogni giorno. Sotto la sigla di "colonia" sta quindi la volontà di arrivare non solo a "quindici o venti giorni di esperienza autogestionaria per noi e per i figli dei nostri compagni", ma anche e soprattutto ad una riflessione critica sull'educazione e sulla rapporto con l'infanzia che si configura molte volte come rapporto con il nostro passato di "educati".

Io credo, e la mia esperienza in proposito me lo conferma, che sia molto importante sia per i nostri figli che per i genitori il rapporto che si stabilisce da subito fra di loro; ma anche (ed in maniera altrettanto importante) fra loro e gli altri. Da parte vostra, con questa iniziativa, come pensate di inserirvi in questo rapporto?

Vorrei parlarti di un fenomeno molto diffuso che contraddistingue la nuova impostazione del rapporto genitori-figli in questa "nostra" società sempre più tecnocratica e schematizzata/atomizzata. Se una volta la gestione dell'educazione dei figli era interamente delegata alla madre ed alla scuola ora le cose non sono così semplici. Entrano in gioco figure diverse che vanno dai nonni alle baby-sitter e che hanno la funzione di "decentrare" ed alleviare il peso enorme di un rapporto educativo sempre più frammentario e slegato. La famiglia nucleare minacciata nella sua struttura e nei suoi più intimi legami risolve le sue contraddizioni cercando di allontanarle investendo con i suoi problemi un numero crescente di strutture e persone. In questo modo invece di lottare per diminuire l'orario di lavoro ed avere più tempo disponibile per "vivere", si combatte per asili e servizi scopertamente al servizio dello stato e della sua ideologia, rifiutando lo scontro vero. Rischio la banalità affermando che moltissime volte non è possibile per un genitore - maschio o femmina che sia - impostare un sereno rapporto con i propri figli perché continuamente lacerato da turni massacranti e da contraddizioni fra il proprio "ruolo" e la propria identità reale. La colonia, in questo senso, non può risolvere niente, è chiaro, ma deve saper dare gli "strumenti" capaci di far raggiungere a tutti i genitori e bambini, "colonizzatori" e e "colonizzati", momenti di vita comunitaria vicini il più possibile ad una pratica anarchica. Sull'opportunità di lavorare nella colonia con ai fianchi genitori dei bambini penso siano da dire ancora moltissime cose: certamente si creerebbero situazioni di "squilibrio" fra i bambini (chi ha il padre o la madre presenti oppure no), ma d'altronde penso sia effettivamente possibile riuscire a "collettivizzare" il genitore coinvolgendolo nella pratica comune. Certo è che senza la sua disponibilità ben poco si può fare. Harmonio non vuole essere un campeggio all'avanguardia; bello e alternativo di fuori ma terribilmente sclerotico e "normale" dentro. È ora che i rapporti - e soprattutto quelli fra compagni - cambino realmente e non solo in superficie: la più grande "discriminante" del progetto è proprio la volontà di cercare insieme una "armonia" che da tanto tempo rincorriamo invano.

Altra domanda un po' provocatoria: vuole essere un impegno di ogni estate o qualcosa di più?

Proviamo ad immaginare per un attimo che il "progetto pedagogico Harmonio" assuma sembianze umane. Pensiamo ad un bambino di poco più che un anno. Ecco, in un ultimo sforzo di astrazione, rivolgiamogli la domanda che tu mi hai fatto......

Discorso a un bambino.

Se ti dicono sempre che sei Bravo, sta in guardia:
Qualcuno cercherà di sfruttarti.
Se ti dicono sempre che sei Intelligente, sta in guardia:
Qualcuno cercherà di eliminarti.
Se ti dicono sempre che sei Ubbidiente, sta in guardia:
Qualcuno cercherà di farti schiavo.
Se ti dicono sempre che sei Buono, sta in guardia:
Qualcuna cercherà di opprimerti.
Ma se ti dicono Studia, non temere:
Tu potrei fare un mondo senza scuole.
Se ti dicono Taci, non temere:
Tu potrei fare un mondo senza bavagli.
Se ti dicono Obbedisci, non temere:
Tu potrei fare un mondo senza padroni.
Se ti dicono Chiedi Perdono, non temere:
Tu potrei fare un mondo senza inferni.
Non credere a chi ti comanda, a chi ti punisce, a chi ti ammaestra, a chi ti insulta, a chi ti deride, a chi ti lusinga, a chi ti inganna, a chi si disprezza. Essi non sanno che tu sei ancora un uomo Libero.
(Marcello Bernardi)