Rivista Anarchica Online
Il mito della violenza
di P. F.
Lotta rivoluzionaria e progetto libertario. Alcuni settori della sinistra rivoluzionaria dimostrano una fiducia mitica nella violenza - Non
metodo, ma mezzo di lotta da usarsi con criterio: la concezione anarchica della violenza, contro
le suggestioni della non-violenza ad oltranza e della violenza "rigeneratrice" - Tolleranza e
pluralismo: due aspetti centrali per il ruolo degli anarchici nelle lotte rivoluzionarie e nel "nuovo
movimento"
A sei anni dai suoi primi episodi, la lotta armata si è ormai inserita come un dato costante nella pratica
di una parte non secondaria del movimento rivoluzionario. Negli ultimi mesi, in particolare, vi è stato
un netto aumento nel numero e nella varietà degli episodi di lotta armata in Italia: ferimenti di giornalisti,
di capi-reparto, di direttori responsabili del personale, di dirigenti locali della Democrazia Cristiana,
assalti armati a sedi delle forze conservatrici e padronali, uso delle armi contro le forze repressive dello
Stato nel corso di manifestazioni di piazza, ecc.. Nel complesso, quella violenza armata che nel '71 era
usata sistematicamente solo dai primi nuclei delle Brigate Rosse viene oggi praticata - seppure in forme
diversificate - non solo dalle altre formazioni clandestine (o quasi) che alle B.R. si sono aggiunte, ma
anche da una parte (non certo clandestina) del "nuovo movimento".
Contro chi? Per che cosa?
Sulla questione della lotta armata abbiamo già avuto numerose occasioni per esprimere la nostra
opinione: noi non condividiamo la scelta strategica della lotta armata attuata in Italia dalle B.R., dai
N.A.P., ecc.; così come, nonostante l'ancor più difficile contesto sociale, non condividiamo la strategia
portata avanti dalla Rote Armee Fraktion nella Germania Federale. Ciò non significa che rigettiamo tutto
il loro operato: alcune delle azioni di cui i loro militanti sono stati protagonisti hanno suscitato in noi
piena adesione, non solo emotiva. Pensiamo, per esempio, al clamoroso rapimento del giudice
conservatore Sossi, con il quale le B.R. contribuirono a mettere in luce la vulnerabilità e le molte
contraddizioni interne del regime. Oppure al ferimento del dott. Mammoli, responsabile medico delle
carceri di Pisa nelle quali, il 5 maggio 1972, fu rinchiuso e cinicamente lasciato morire l'anarchico
Serantini: questa azione è stata rivendicata da Azione Rivoluzionaria, una formazione i cui comunicati
denotano un'impostazione libertaria, che nettamente la distingue sul piano ideologico dagli altri gruppi
rivoluzionari armati, tutti rifacentisi al marxismo-leninismo (seppur variamente interpretato).
Più in generale, va sottolineato che molti militanti di queste organizzazioni si sono guadagnati e si
guadagnano la stima e la solidarietà di tutti i rivoluzionari per il loro comportamento deciso e fiero
sostenuto di fronte a sbirri, giudici e secondini, cinici esecutori della repressione statale. Tutto ciò,
comunque, non può modificare la nostra critica alla strategia della lotta armata.
Il primo punto al quale bisogna sempre risalire è, naturalmente, quello relativo al fine che ci proponiamo:
la costruzione di una società anarchica. Tutta la nostra opera è tesa a spingere il popolo, con la
propaganda e con l'esempio, sul terreno dell'azione diretta, condizione essenziale per la realizzazione del
nostro fine: in quest'ottica, a noi pare che non si possa distinguere l'attacco allo Stato dalla
contemporanea necessaria presa di coscienza rivoluzionaria da parte degli sfruttati. Pertanto, una
strategia composta di azioni che da questi non siano capite e che quindi non servano a spingerli sul
terreno dell'azione diretta non può trovarci d'accordo.
Alcuni settori della sinistra rivoluzionaria sembrano avere una fiducia quasi mitica nella violenza, tant'è
vero che le organizzazioni che sono scese sul terreno della lotta armata vengono ritenute le più
rivoluzionarie, proprio per la maggiore violenza che caratterizza la loro pratica. Accade inoltre che lo
scontro con l'apparato repressivo dello Stato venga spesso giudicato di per se stesso positivo, quasi che
il livello di violenza raggiunto negli scontri sia l'indice per valutare la coscienza rivoluzionaria dei
partecipanti. A questa mentalità non è estranea la martellante propaganda proveniente da ampi settori
della cosidetta area dell'autonomia, che anche grazie alla propaganda ed alla pratica della violenza di
piazza hanno costruito il loro (relativo) successo. A spiegare questo nuovo (almeno nel recente
panorama socio-politico italiano) e diffuso uso della violenza nelle lotte sociali contribuiscono molti altri
fattori, quali l'emarginazione di ampi settori giovanili, l'aumentata presa di coscienza delle contraddizioni
della nostra società, la sempre più accentuata "totalitarizzazione" dello Stato e la conseguente
progressiva chiusura degli spazi rivoluzionari: questioni complesse, alle quali in questa sede non
possiamo che accennare rapidamente.
Contrariamente alle posizioni prima citate, noi non abbiamo alcuna fiducia mitica nella violenza. Non
crediamo assolutamente che la violenza in quanto tale sia il mezzo valido per il raggiungimento del
nostro fine: essa è uno dei mezzi necessari (a volte, ma solo a volte, indispensabile) per aprire la strada
alla costruzione di una società anarchica. L'anarchia, comunque, non sarà mai il risultato di uno scontro
unicamente (o prevalentemente) militare tra le forze dello Stato da una parte e quelle antistatali dall'altra:
noi anarchici non siamo in guerra privata contro lo Stato. L'esperienza storica, infatti, insegna che sul
piano puramente militare lo Stato riuscirà sempre vittorioso dallo scontro con le minoranze
rivoluzionarie, per quanto agguerrite esse siano. L'unica possibilità di cui i rivoluzionari possono disporre
è l'attiva partecipazione popolare alla lotta; e questo è tanto più vero per gli anarchici, per i quali questa
presenza del popolo non può essere strumentale (com'è invece per i partiti e gruppi marxisti, che del
potere vogliono impadronirsi per dominare nuovamente le masse) ma deve diventare sempre più estesa
e profonda. È per questo che una lotta rivoluzionaria che non si caratterizzi in senso decisamente
libertario non può che trovarci sempre fortemente critici.
Anti-violenza e non-violenza
Pur non sottovalutando la possibile efficacia che, in determinate situazioni, possono offrire le tecniche
di lotta non-violenta (spesso dimenticate o disprezzate dalla maggior parte dei rivoluzionari), noi non
siamo non-violenti. Siamo cioè convinti che la violenza sia necessaria ed a volte indispensabile per
rovesciare questo sistema basato sullo sfruttamento e sull'oppressione (cioè sulla violenza), per stroncare
la resistenza dei padroni e per sgombrare il cammino rivoluzionario da tutti gli ostacoli che si
frappongono al raggiungimento del nostro fine.
In quanto anarchici, comunque, non possiamo che essere anti-violenti: noi rigettiamo la violenza, la
vogliamo estirpare dalla società, perché in essa riconosciamo la più odiosa manifestazione del principio
d'autorità. Sappiamo che, se usata senza criterio, essa felicemente si accompagna alla sopraffazione,
all'intolleranza, al fanatismo. Necessaria ed a volte indispensabile per la nostra lotta, dunque, la violenza
può ritorcersi contro i nostri principi, soprattutto qualora da mezzo si trasformi in metodo esclusivo di
lotta, in costume di pensiero e di vita. Non si deve dimenticare che è proprio per abolire del tutto la
violenza che noi ci riteniamo costretti purtroppo a servircene come mezzo di lotta. Nessuna fiducia
mitica, bensì solo le necessità pratiche della rivoluzione sociale spingono gli anarchici ad usare la
violenza quando ritenuta utile ed opportuna.
È capitato, e capita, invece, che nel corso della lotta il criterio necessario nell'uso della violenza venga
meno e si abbiano pertanto fenomeni degenerativi che non possono non preoccupare gli anarchici: ciò
è tanto più grave quando ci si riferisce all'uso di armi (cioè strumenti di morte) ed alle tragiche
conseguenze che possono derivare da un loro uso sconsiderato. Basti citare, in proposito, la tragica fine
di un ragazzo arso vivo nel corso di un assalto armato da parte di un gruppo di autonomi contro un bar
di Torino, "L'Angelo azzurro", giudicato un abituale ritrovo di fascisti: sta di fatto che la vittima delle
molotov con i fascisti non aveva niente a che fare. Non basta liquidare il caso definendolo "un tragico
errore": è necessario meditare bene sulle conseguenze umane e politiche che un uso sconsiderato della
violenza può provocare.
Non saremo certo noi, comunque, ad accodarci ai falsi piagnistei orchestrati dalla stampa di regime e
delle forze che lo sostengono, pronte a deprecare la violenza ed a "criminalizzare" i rivoluzionari proprio
per difendere quella "democrazia" che si basa sulla quotidiana violenza sociale. Non ci confonderemo
mai con gli appelli alla democrazia ed alla pace sociale che quotidianamente ci rivolgono sindacalisti,
preti, parlamentari, padroni e burocrati di ogni specie: il loro tanto sbandierato "rifiuto della violenza"
è quanto di più gesuitico vi sia oggi in Italia. Non dobbiamo perdere occasione per chiarire che è
dall'altra parte, dalla parte dello Stato, dei padroni e della loro "democrazia", che sta la violenza, che
si annidano i violenti ed i criminali: i covi che andrebbero chiusi - se avessimo la loro mentalità - sono
Palazzo Madama, il Quirinale, il Vaticano, il Viminale, ecc..
La necessità della lotta e della propaganda, però, non possono esimerci dal valutare con serenità e
fermezza le azioni compiute dai rivoluzionari, cercando di mettere in luce - come stiamo cercando di fare
- i pericoli e gli errori che inevitabilmente ci allontanano dalla rivoluzione sociale.
Tolleranza e pluralismo
È in questo contesto che va considerata la nostra attenzione verso il problema della tolleranza. Impedire
sistematicamente che gli altri, che la pensano diversamente da noi, diffondano la loro stampa, propugnino
le loro idee, parlino in pubblico, non può fare parte della nostra pratica costante. Il diritto d'espressione
degli "altri" ha per noi il medesimo valore del nostro diritto a dire la nostra opinione: la libertà degli altri,
in via di principio, arricchisce la nostra, non la limita. È per questo che protestiamo quando la libertà
viene limitata, quando il diritto d'espressione viene bandito, anche se ad esser colpiti direttamente
dall'autorità non siamo noi né movimenti a noi vicini.
Certo, le necessità pratiche della lotta giustificano a volte un comportamento incoerente con quanto
appena affermato: impedire un comizio fascista può assumere a volte il significato di testimonianza della
volontà antifascista del popolo e di rifiuto di una provocazione. Così, disturbare il comizio di un
dirigente sindacale può essere un efficace strumento per mettere in luce l'esistenza di un preciso dissenso
nei confronti della linea sindacale. Parimenti, l'aver impedito al deputato Mimmo Pinto di prender la
parola durante la manifestazione tenutasi in maggio a Pisa per ricordare il quinto anniversario
dell'assassinio di Serantini, è stato il mezzo più efficace per respingere l'imposizione dei dirigenti di Lotta
Continua, che volevano a tutti i costi imporre il loro oratore accanto a quello anarchico: l'intervento del
deputato Pinto avrebbe infatti stravolto il carattere antistatale della manifestazione.
Di eccezioni deve però trattarsi, chè la nostra regola deve essere quella di garantire il massimo di libertà
per tutti, compresi i nostri avversari. Nessuno spirito masochista né una mancanza di senso pratico ci
spinge a ciò: siamo anzi convinti che da questa pratica della tolleranza, che ci deve distinguere
nettamente dagli autoritari (per loro natura intolleranti) l'anarchismo abbia a guadagnare in consensi e
in efficacia. Il principio della tolleranza, affermatosi con la cultura illuministica e sventolato dalle
rivoluzioni liberali, deve finalmente trovare nella pratica dell'anarchismo quella sua applicazione concreta
che il liberalismo, propugnatore dell'esistenza dello Stato, non ha potuto né mai potrà garantire.
Per quanto riguarda più specificamente il campo rivoluzionario, noi non pensiamo che tutto quanto
diverge dalle nostre opinioni vada sempre inesorabilmente combattuto e sconfitto. Proprio perché
anarchici, noi rifiutiamo i dogmi, le affermazioni indiscutibili, l'autorità dei capi: soprattutto - ed è questo
che qui ci preme sottolineare - non pensiamo che esista una sola via, la Via (quella giusta, quella
indiscutibile) verso la rivoluzione sociale. Noi riteniamo che il movimento rivoluzionario debba basarsi
necessariamente su di una molteplicità di pratiche e di teorie, che rispecchiano anche i diversi settori della
vita sociale e degli interessi umani. I compagni ed i gruppi percorrano fino in fondo il cammino che si
sono scelti, ma non pensino affatto che la rivoluzione sarà tanto più prossima quanto più gli altri avranno
le medesime opinioni e faranno le medesime azioni. È necessario che nessuno, pur se razionalmente
convinto della superiore validità della propria analisi e della superiore efficacia del mezzo da lui adottato,
si ritenga depositario della Verità: per il semplice fatto che la linea giusta, valida per tutti, non esiste.
Ciò che invece esiste e che ci caratterizza rispetto a tutti gli altri, è la metodologia libertaria, la pratica
libertaria di lotta; e, con essa (dentro di essa), la nostra volontà di costruire l'anarchia. Questa
metodologia libertaria ammette e comprende molteplici campi d'azione ed anche diverse tecniche di lotta:
dall'esperienza delle comuni agricole alla pubblicazione di libri e giornali, dall'attività di un asilo libertario
all'organizzazione di lotte operaie, dalla lotta armata clandestina contro i regimi totalitari alla pratica del
"nuovo movimento" dei non-garantiti.
L'anarchismo e il "nuovo movimento"
È proprio dal "nuovo movimento" che ci viene una conferma dell'attuale validità di questa nostra
impostazione rivoluzionaria basata sul pluralismo e sullo sperimentalismo. Vi si riscontrano, infatti,
quella stessa sensibilità antiburocratica, quel rifiuto della Verità con la "V" maiuscola e delle ideologie
complete e perfette, quella grande voglia di sperimentare nuove forme di vita e di lotta che costituiscono
da sempre parte viva ed integrante dell'anarchismo.
In questo momento soprattutto, è necessario che i compagni, partecipando alle lotte ed ai dibattiti in
corso nell'area rivoluzionaria, sappiano cogliere tutte le sollecitazioni provenienti dall'area libertaria del
"nuovo movimento" senza alcun rifiuto aprioristico. Si pensi, per esempio, alla tematica sollevata dalla
crescita del movimento femminista: l'anarchismo, sul piano teorico, già riassume in sé le istanze positive
espresse da quel movimento ed anzi, integrandole in un più generale progetto di rivoluzione sociale, le
potenzia; in pratica, però, pensiamo che molti atteggiamenti, non solo individuali, oggi presenti tra i
compagni vadano ridiscussi (criticamente si, ma non elusi) alla luce delle più valide istanze espresse dal
movimento femminista. Ferme restando le nostre critiche all'ideologia separatista e "corporativa" che
caratterizza tanta parte del movimento femminista e che contrasta, a nostro avviso, con la logica e con
le necessità della rivoluzione sociale. E, come il femminismo, numerosi altri sono i temi aperti alla
discussione ed all'intervento dei compagni: la lotta anti-nucleare, la liberazione sessuale, l'anarco-sindacalismo, il personale/politico, l'obiezione di coscienza totale, l'intervento libertario nelle scuole,
l'antipsichiatria, ecc..
Comune denominatore della presenza anarchica nelle lotte devono essere la metodologia libertaria ed
il rifiuto di qualsiasi transazione riformista. Da parte di alcune organizzazioni marxiste (da Autonomia
Operaia a Lotta Continua) è in atto un tentativo, a volte sottile a volte grossolano, di strumentalizzare
il "nuovo movimento", di cancellarne la matrice libertaria, di riportarlo nell'alveo delle loro rispettive
"strategie politiche". Agli anarchici spetta il compito di denunciare tutte queste manovre e di operare
perché il "nuovo movimento" sappia solo scrollarsi di dosso tutte le dirigenze che pretendono di guidarlo
e di rappresentarlo. Purtroppo, già alle giornate anti-repressione tenutesi a Bologna in settembre si era
potuto constatare che alcuni gruppi anarchici si erano accodati alla politica burocratica delle
organizzazioni marxiste, tutte intente a spartirsi la torta. È bene che su questo terreno non vi siano
confusioni.
Con altrettanta chiarezza vanno combattute le ritornanti deviazioni riformiste che inevitabilmente
affliggono i movimenti rivoluzionari giovani e compositi. Le lotte debbono restare sul terreno della lotta
anti-statale, al di fuori e contro le istituzioni: è necessaria una continua opera di chiarificazione sul ruolo
svolto dal parlamento, dagli enti locali, dal sindacato, dai partiti e dai gruppi neoriformisti della sinistra
ex-extraparlamentare. Mentre queste forze si mobilitano tutte "in difesa della democrazia" e si servono
dello spauracchio fascista per dar credibilità alla mobilitazione a sostegno dello Stato, sta alle forze
genuinamente rivoluzionarie - ed agli anarchici innanzitutto - smascherare continuamente la
mistificazione del regime democratico, denunciando le profonde ingiustizie e disuguaglianze della nostra
società.
È un compito non facile: il dibattito si presenta complesso, la lotta aspra e non certo di breve durata.
Eppure noi crediamo che proprio dalla varietà e dalla molteplicità delle tematiche, delle opinioni e delle
esperienze di lotta, il movimento anarchico deve saper trarre la capacità di inserirsi sempre più
profondamente nel tessuto sociale. Illudersi che un uso esasperato della violenza o la scelta strategica
della lotta armata possano accelerare il corso rivoluzionario significa non tener conto dell'indispensabile
presa di coscienza rivoluzionaria da parte degli sfruttati: senza la quale non vi può essere rivoluzione
libertaria.
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