Rivista Anarchica Online
LETTURE
a cura della Redazione
Bakunin, di E. H. Carr, Mondadori, Milano 1977, pp.479, lire 8.000.
Approfittando del clima di 'revival' dovuto al centenario e sulla scia del successo editoriale di quel
folkloristico collage che è L'Anarchia di Tarizzo, Mondadori lancia sul mercato italiano a quarant'anni
di distanza dalla prima edizione inglese (Londra, 1937), il Michael Bakunin di Edward H. Carr,
notissimo studioso di storia russo-sovietica, oltre che di diplomazia internazionale.
Niente di meglio, del resto, del volume di Carr, per sfruttare l'occasione dell'anniversario e la
rinnovata curiosità che l'anarchia, i suoi 'ismi' e le sue figure sembrano suscitare nel lettore italiano,
soprattutto se in confezioni accurate, illustrate, eleganti ma non troppo, un po' "cultura", un po'
pettegolezzo (classico esempio del genere rimarrà il Tarizzo) e care quel che basta per non sfigurare
nelle librerie da salotto. Il solido mestiere di storico e la scioltezza della narrazione, i "fatti personali"
e le "idee", la realtà e il romanzo - ingredienti base per un libro di successo - si ritrovano
puntualmente nel Bakunin di Carr. Un quadro perfetto, a prima vista, soprattutto sotto il profilo
vendite, se non fosse per due piccoli particolari. Primo: alcune delle ipotesi del Carr sono state
completamente rovesciate dalla scoperta di nuovi materiali e documenti. Secondo: anche quarant'anni
fa, il volume non si segnalava certo per accuratezza, precisione ed onestà, malgrado l'uso copioso delle
fonti russe (forse proprio per questo).
A pochi mesi dalla pubblicazione del libro, infatti, Max Nettlau gli dedicava una recensione, apparsa
in quattro puntate (5 gennaio - 18 febbraio 1938) nel londinese "Spain and the World", in cui elencava
con minuzia la lunga serie di errori in cui "professor Carr" era incorso e che avrebbe potuto evitare
leggendo attentamente sia la grande Biografia del Nettlau stesso sia L'Internazionale di Guillaume.
Basti citare l'inconsistenza dei capitoli dedicati all'Italia, ai soggiorni fiorentino e napoletano, ridotti
a sequenze domestico-salottiere, senza nessun accenno alla attività politica di Bakunin, alla
pubblicazione de La situazione del 1866, all'associazione Libertà e Giustizia con rispettivo giornale,
ecc. E ancora l'evidente mancata conoscenza, da parte del biografo di opere fondamentali come il
Mazzini e Bakunin di Nello Rosselli, uscito nel 1927, e il Bakunin e l'Internazionale in Italia del Nettlau,
apparso a Ginevra nel 1928.
Anche il periodo ginevrino (1868-69) risulta estremamente lacunoso e sembra che il Carr abbia letto
solo distrattamente la ricostruzione di Guillaume (che, tra le altre cose era nato a Londra e non al
Locle, e non era quel "maestro" sprovveduto e provinciale che lo storico inglese tenta di accreditare).
Piuttosto grave, poi, il fatto di ridurre la sezione ginevrina dell'Alleanza a Bakunin stesso e a "qualche
intimo suo" (il riferimento a Guillaume in nota sembra inoltre far risalire l'affermazione a
quest'ultimo), mentre in realtà, come precisa il Nettlau, l'Alleanza aveva raggiunto la rispettabile
consistenza di 106 membri. Nessuna meraviglia, quindi, che il Nettlau definisca l'opera di Carr come
una "trappola", come "un romanzo persuasivo" e il Bakunin che ne esce come una figura dovuta più
all'immaginazione dell'autore che ad una seria ricostruzione storica.
Ma non è tutto qui. Negli ultimi anni le ininterrotte ricerche di Arthur Lehning, di Michael Confino
e di altri, hanno dimostrato senza ombra di dubbio come il Catechismo del rivoluzionario, considerato
da molti e dal Carr stesso, opera a quattro mani di Bakunin e Necaev, sia attribuibile in realtà solo
al Necaev. E, recentemente, la scoperta a Stoccolma, da parte del Furlani, di un manoscritto del 1864,
sembra chiarire definitivamente come il momento del passaggio bakuniniano all'anarchismo risalga
a prima del suo arrivo in Italia, ribaltando così i tempi della storiografia tradizionale.
Naturalmente il Carr del 1937 non è responsabile di questi ultimi errori, ma il Carr che lascia
ristampare in Inghilterra il volume nel 1975 e lo lascia tradurre in italiano nel 1977, lo è
indubbiamente, malgrado i suoi 85 anni.
Quanto all'editore, non è un delitto pubblicare libri che, anche se a torto, sono ormai considerati dei
classici e pubblicarli nella versione originale. Ma nel caso specifico non si tratta di letteratura (ma
anche qui si fanno le edizioni critiche) e il meno che ci si potesse aspettare era una seria introduzione
che rendesse conto dello stadio degli studi su Bakunin e un apparato di note che correggesse
puntualmente gli errori e colmasse le lacune. In Italia, in fondo, qualche specialista di Bakunin e di
anarchismo esiste ancora, anche se, sfogliando il catalogo Mondadori, non si direbbe.
La società contro lo Stato (Ricerche di antropologia politica) , di Pierre Clastres, Milano 1977,
Feltrinelli Editore, pagg. 163, lire 3.300.
Pubblicato per la prima volta in Francia presso Les Editions de Minuit tre anni or sono, La società
contro lo Stato si presenta come un'antologia comprendente undici saggi di antropologia politica già
pubblicati dall'autore su diverse riviste specializzate.
Pierre Clastres è già noto ai lettori della rivista Interrogations per avervi pubblicato un saggio sul n.7.
Nato nel 1934, ha studiato filosofia ed etnologia. Ha soggiornato a lungo presso le ultime tribù indiane
del Paraguay, del Brasile Centrale e del Venezuela, pubblicando i risultati del suo lavoro nei libri
Cronique des Indiens guayaquis e Le Grand Parler (Cronaca degli indiani guaiachi, il gran parlare).
Ricercatore presso il CNRS, è considerato "l'erede libertario di Lévi-Strauss".
Indubbiamente gli scritti di Clastres rivestono una grande importanza, sia per la competenza
approfondita e diretta della materia trattata (l'organizzazione della vita sociale presso i cosiddetti
primitivi) sia per il taglio nettamente libertario che li informa. A sostegno di questa nostra convinzione,
ci sembra interessante esaminare l'ultimo degli undici saggi pubblicati nell'antologia in oggetto, che
è poi quello che dà il titolo all'intero volume.
Clastres inizia con un'affermazione lapidaria: le società primitive sono società senza Stato. In polemica
con le consuete interpretazioni storicistiche - prima tra le quali e per molti indiscutibile, quella marx-engelsiana - secondo le quali lo Stato sarebbe il destino di qualsiasi società, al punto che le società
senza Stato non possono essere considerate che i primi gradini (i più bassi, da ogni punto di vista)
dello sviluppo sociale, in polemica con queste interpretazioni - dicevamo - Clastres espone la sua
concezione in merito alla positività dell'anarchia che caratterizza molte società cosiddette primitive
(anche se, in verità, Clastres non si serve mai del termine "anarchia" e preferisce parlare sempre di
"società senza Stato"). Non si tratta, per Clastres, di una valutazione astratta o di un "pregiudizio"
politico-ideologico, ma della logica conclusione derivante dalle sue esperienze dirette e soprattutto
dalla sua profonda rimeditazione di quelle.
Innanzitutto Clastres mette in discussione il significato tutto negativo che accompagna l'espressione
"economia di sussistenza", riferita naturalmente alle società cosiddette primitive. Per fare ciò Clastres
ribalta molti luoghi comuni ed alcune delle basi stesse sulle quali si fondano le ideologie dominanti
contemporanee.
"L'idea di economia di sussistenza - scrive Clastres (p.140) - implica l'affermazione che le società
primitive non producono eccedenze, perché ne sono incapaci, interamente occupate, come sarebbero,
a produrre il minimo indispensabile alla sopravvivenza, alla sussistenza. Immagine antica, e sempre
efficace, della miseria dei Selvaggi." osserva a questo punto Clastres che, per spiegare questo fenomeno,
si è sempre addotta come "scusa" il loro sottosviluppo tecnico, la loro inferiorità tecnologica. "Come
stanno in realtà le cose? Se per tecnica si intende l'insieme dei procedimenti di cui si servono gli uomini
non tanto per procurarsi il dominio assoluto della natura (questo vale solo per il nostro mondo e il suo
demente progetto cartesiano, di cui solo adesso si cominciano a misurare le conseguenze ideologiche),
ma per assicurarsi una padronanza dell'ambiente naturale adattata e relativa ai loro bisogni, non è più
possibile parlare di inferiorità tecnica delle società primitive, le quali dimostrano invece una capacità di
soddisfare i loro bisogni almeno pari a quella di cui va fiera la società industriale e tecnologica."
Più sotto Clastres nota acutamente che "due assiomi sembrano guidare l'evoluzione della civiltà
occidentale fin dalle sue origini: il primo stabilisce che la vera società si sviluppa all'ombra protettiva
dello Stato; il secondo enuncia un imperativo categorico: bisogna lavorare." Sviluppando queste sue
considerazioni - indubbiamente rivoluzionarie e libertarie - l'autore attacca a fondo l'etnocentrismo
dell'antropologia "classica" - in altri termini, la pretesa degli studiosi occidentali di "giudicare" le
società diverse dalla nostra secondo i valori e gli schemi ideologici qui dominanti. Nessun cedimento
al mito del Buon Selvaggio si riscontra nel suo pensiero, in nessuno dei suoi scritti: la critica che
Clastres muove implicitamente all'intera società tecnologica non si nutre alle fonti torbide di un
reazionarismo alla Solgenitsyn (con la sua mistica della vita contadina), ma affonda le sue radici in
un'analisi precisa e dettagliata delle diverse forme di vita sociale tra le popolazioni da lui conosciute
e studiate, nonché sul rifiuto delle ideologie autoritarie correnti.
Clastres afferma che "la principale divisione della società, quella che fonda tutte le altre, comprende,
senza dubbio, la divisione del lavoro, è la nuova disposizione verticale fra la base e il vertice, è la grande
censura politica fra detentori della forza, sia quella guerriera o religiosa, e soggetti a quella forza. La
relazione politica del potere precede e fonda la relazione economica di sfruttamento. Prima di essere
economica, l'alienazione è politica, il potere è prima del lavoro, l'economico deriva dal politico,
l'emergere dello Stato determina l'apparizione delle classi." Quando Clastres afferma tutto ciò, come non
sentir risuonare nelle sue parole quelle di Bakunin, nel corso della sua lucida polemica con Marx sulle
origini dello Stato e della disuguaglianza sociale?
Nel dilagare del marxismo, "cultura" e religione dei nuovi padroni, "incontrare" studiosi come Clastres
non è certo un fatto di poco conto.
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