Rivista Anarchica Online
Le comuni come rivoluzione
di A. R.
Forse le "comuni", oltre che sperimentare nuovi rapporti umani, potrebbero rappresentare
oggettivamente un'alternativa rivoluzionaria al sistema, a patto che cerchino ed attuino nuovi
rapporti economici e non restino legate a forme arcaiche di produzione.
Il termine "comune" viene usato per lo più per indicare forme di
associazione, generalmente giovanili,
impostate in modo non gerarchico, in cui i partecipanti mettono in comune i propri redditi per vivere
insieme.Non è di queste comuni che intendiamo parlare. Quelle che a noi interessano sono forme
associative non
di "vita", ma di produzione, cioè unità produttive, in cui i soci lavorano
insieme ad una attività
organizzata libertariamente. Così come le intendiamo, esse potrebbero rappresentare qualcosa
di più che,
semplicemente, una sorta di "preparazione" alla rivoluzione, lo studio e la sperimentazione di un modello
organizzativo, in piccolo, da applicare, in grande, all'indomani della rivoluzione: esse potrebbero essere,
piuttosto, un modo di fare la rivoluzione stessa.La rivoluzione, infatti, non ci sembra possa essere pensata
(e realizzata) come un mero problema di
distruzione e riorganizzazione dell'ordine sociale oggi esistente. A nostro
avviso si tratta di trasformare
la società, e il problema quindi è come fare per passare da questo sistema, diviso in classi,
ad un altro
basato, invece, sulla libertà e sull'uguaglianza. Come fare, cioè, a mettere in moto quei
meccanismi in
grado di spostare l'equilibrio dell'evoluzione sociale da forme sempre più avanzate di
sfruttamento a
forme sempre più avanzate di organizzazione libertaria. Si intende che tale operazione deve
essere
compiuta artificialmente, in quanto è chiaro che lo sfruttamento, da solo, non è in grado
di evolversi nel
senso da noi voluto, e questo, appunto, è il compito dei rivoluzionari.Il motivo di questa
considerazione, e in ultima analisi la base della "teoria delle comuni", risiede nel fatto
che mai nella storia è stato possibile vedere una trasformazione sociale che fosse puramente
organizzativa.
Le trasformazioni sociali fin qui avvenute, e sono parecchie, non sono state il semplice frutto di atti di
volontà degli individui o dei gruppi, che hanno deciso improvvisamente di prendere le vecchie
strutture
sociali e di ristrutturarle come faceva comodo a loro, ma sono sempre venute, per così dire, a
"rimorchio"
di nuove forme di produzione: nuove tecniche produttive, nuove forme di controllo, nuove fonti di
reddito, ecc. I nuovi modi di organizzazione sono stati portati da questi nuovi modi di produzione:
dapprima sono stati applicati solo ad essi, poi col prevalere economico della nuova produzione sulla
vecchia, si sono estese anche a quest'ultima. Ad esempio, si è passati da una produzione agricola
a quella
industriale, non semplicemente ad una riorganizzazione dell'agricoltura. La borghesia commerciale del
'200 ha spodestato la nobiltà feudale col prevalere del nuovo tipo di produzione (il commercio
prima e
l'industria dopo), e solo quando quest'ultimo si è affermato anche l'agricoltura feudale si è
modellata,
organizzativamente, a sua immagine.Non crediamo di poter sfuggire, noi anarchici, a questa legge. Non
crediamo che la semplice
"riorganizzazione" della società, risultata impossibile, se non accompagnata dall'introduzione di
un nuovo
tipo di produzione, per tutte le classi in movimento per il potere, debba essere possibile proprio a noi che
in movimento per il potere non siamo. Ed è per questo che diciamo che la rivoluzione è
un problema di
trasformazione sociale che è privo di senso se non ne vengono poste le basi economiche.
È da questa
esigenza che nasce il discorso sulle comuni. Dalla necessità, cioè, di trovare quelle
strutture produttive,
nuove, alle quali, più che ad ogni altra, può esser applicato il tipo di organizzazione
libertaria. Il che non
significa inventare astrattamente un modello di società da applicare alla realtà in un
imprecisato domani,
ma vedere, in concreto, a quale tipo di libertà (non a quale grado, sia chiaro)
è possibile arrivare
partendo dall'attuale situazione, perché necessariamente da questa situazione, lo si voglia o no,
si deve
partire.Ora, è chiaro che per far questo non basta esaminare la realtà dello sfruttamento
odierno, cercando di
scoprire in essa i germi di una trasformazione che, al contrario, essa è incapace di produrre, ma
bisogna
anche conoscere con esattezza lo scopo ultimo cui si mira, e cioè quelli che potremmo chiamare
i "modi"
generali che la teoria anarchica indica come adatti al fine di abolire lo sfruttamento. Ad esempio la
rotazione degli incarichi, visto che reputiamo ormai accertato che sia il monopolio delle conoscenze, e
quindi la divisione delle mansioni produttive in direttive e subordinate, la base principale di ogni
privilegio. Ma deve essere anche chiaro che tali "modi generali" non danno alcuna indicazione concreta
circa quello che, in pratica, si deve realizzare, o ne danno di assai scarse. Dire "rotazione degli incarichi"
non spiega in modo sufficientemente chiaro come dove e quando realizzare questa forma di
organizzazione. Ed invece questo è di importanza vitale, se vogliamo iniziare o tentare
perlomeno, il
processo che trasforma la società nel senso che noi vogliamo, cioè la rivoluzione.Porre
le basi economiche, oltre che semplicemente organizzative, della rivoluzione, dunque. Questo è
il
primo punto che ci spinge a postulare l'esigenza delle comunità di produzione libertaria,
cioè delle
comuni. Il secondo è la considerazione, ormai nota ma mai abbastanza divulgata, che l'attuale
stadio di
evoluzione della società di sfruttamento è di tipo feudale. In altri termini noi crediamo
che dopo il
processo di feudalizzazione agricola, in cui il controllo della produzione passò dalle borghesie
agrarie
greco-romane alla nobiltà terriera, sia ora in atto un secondo processo di focalizzazione del
privilegio, che
ha per oggetto la produzione industriale e la sostituzione al potere delle borghesie capitalistiche con una
nuova classe di tecnoburocrati, controllori della produzione. Tale processo è praticamente
concluso nei
paesi dell'est cosiddetto socialista, mentre è ancora in atto, ma molto avanzato, nelle democrazie
occidentali, sedicenti capitalistiche.Non è il caso di dilungarsi, in questa sede, sull'argomento.
Quello che, qui, ci preme far notare è che, se
non è il caso di considerare la rivoluzione, per quanto detto in precedenza, come un fatto di
distruzione
e riorganizzazione, a maggior ragione non lo è in una società di tipo feudale o in via di
feudalizzazione.
Dal punto di vista puramente insurrezionale, infatti, il feudo è praticamente inattaccabile, proprio
per la
sua struttura gerarchica e fortemente centralizzata. Alle lotte armate o comunque violente, il feudo ha
sempre risposto, oggi e ieri, con l'efficiente brutalità della repressione militare o poliziesca. Non
si può
sperare di batterlo su questo terreno.Al contrario, è sul piano economico che il feudalesimo,
può essere battuto, come dimostra la storia
passata. I primi borghesi del '200 non hanno messo in discussione l'ordine giuridico e lo "status quo
feudale". Ma il fatto che essi svolgessero attività commerciale tra un feudo e l'altro e la
necessità per i
feudatari di dipendere (a meno di farsi commercianti essi stessi) per la loro stessa sopravvivenza da tale
attività, ha posto in crisi le strutture feudali e ne ha decretato la morte. Noi non vogliamo
prendere
esempio dalla borghesia (che ha battuto il feudalesimo ma ha instaurato un nuovo sfruttamento), sia
chiaro. Ma il fatto è da tener presente perché indica una delle debolezze dei regimi
feudali, e cioè
l'incapacità di adeguarsi alle nuove forme di produzione e fonti di reddito.Nella sua opera di
sopraffazione economica del feudalesimo, la borghesia ha avvertito ben presto
l'esigenza di isolarsi dall'imposizione dell'ordine giuridico dell'epoca, per organizzare la propria esistenza
nel modo più rispondente alle necessità del tipo di produzione di cui era portatrice (la
produzione e la
vendita dei beni di consumo). Sono nati così i liberi comuni: aree organizzate, al di dentro, in
modo non
feudale, anche se immerse in un contesto sociale di tutt'altra specie. Dai liberi comuni la borghesia
è
partita alla conquista del mondo feudale, sia in senso economico, esportando all'esterno le merci prodotte
dentro di essi, sia in senso organizzativo, esportando il tipo di organizzazione sociale (il tipo di rapporti
tra uomo e uomo).Con questo arriviamo al secondo motivo per il quale si giunge a teorizzare la
validità rivoluzionaria delle
Comuni libertarie. Non basta la tensione sociale per mutare i rapporti di produzione. Quella c'è
già ed è
il frutto più del sistema di sfruttamento che dell'attività dei gruppi rivoluzionari. Se non
applichiamo le
nostre teorie organizzative ad una attività economica capace di espandersi, ad una produzione
nuova della
quale il "sistema" non ha ancora il controllo, non abbiamo che minime probabilità di successo.
Solo se
è possibile esportare un tipo di produzione capace di sopravanzare le altre esistenti è
possibile far
prevalere un tipo di organizzazione, e pertanto solo collegando l'organizzazione libertaria a una forma
di produzione concreta, che tale organizzazione renda razionale e migliore delle altre, è possibile
porre
le basi di una nuova società.Il libero comune medievale era un polo di attrazione, oltre che un
centro di espansione. Coloro che non
volevano più sottostare ai rapporti feudali fuggivano dai feudi e vi si rifugiavano, e questo
contribuiva a
mettere in crisi l'ordinamento feudale. Si sono avuti casi, è vero, in cui i feudatari, stanchi della
minaccia
alle proprie istituzioni rappresentata dall'esistenza dei liberi comuni, li hanno aggrediti e, in vari casi,
distrutti. Ma l'indispensabilità della funzione economica che essi svolgevano (ecco la produzione
più
avanzata) ha permesso ai comuni di risorgere e alla fine, sta di fatto, è stato il feudo a
soccombere. Anzi,
proprio l'impossibilità di fare a meno della funzione economica svolta dalle borghesie comunali,
ha
costretto le nobiltà feudali a modellarsi, pur di sopravvivere, a immagine borghese, concedendo,
a poco
a poco, anche nei feudi lo stesso tipo di organizzazione (di rapporti) esistente nei comuni. Questo per
contrastare l'esodo verso i comuni stessi. E questo è un esempio di come un nuovo modo di
produzione
ingloba e "trascina a rimorchio", sul piano organizzativo, il vecchio, come si andava dicendo all'inizio di
queste note.Questo, ripetiamo, non è un invito a prendere esempio dalla borghesia, ma piuttosto
un invito a mettere
a profitto gli insegnamenti della storia. Noi pensiamo che la comune possa avere, in senso libertario, la
portata che i comuni hanno avuto in senso borghese. Cioè che l'unione di modi di organizzazione
libertaria con mezzi di produzione avanzati e con possibilità di espansione economica, possa
portare
all'instaurazione di un nuovo ordine sociale, basato sulla libertà e sull'uguaglianza, così
come (purtroppo)
l'organizzazione mercantile della produzione e la logica del profitto hanno portato, insieme alla vendita
dei beni di consumo, al potere della borghesia e alla società capitalistica.In ultima analisi, noi
pensiamo che, oltre a queste giustificazioni, per così dire di d'ordine strategico e
storico insieme, le comuni abbiano anche il merito di venire incontro a quelle che sono le tendenze
obbiettive delle classi sfruttate, ed in particolare alla tendenza principale che ci sembra di scorgere nel
comportamento di tali classi, quella ad uscire dalla propria classe, ad abbandonarla. Tale
tentativo è
generalmente irrealizzato, tranne che, a volte, a livello individuale, solo perché mancano le
alternative
concrete allo sfruttamento. Uscire di classe, va bene, ma per andare dove? Si tenta allora di organizzare
in modo libertario la fabbrica, dove si è costretti a restare, ma è una lotta impari, senza
grandi speranze
di riuscita: i rapporti di produzione, in cento anni di lotte operaie e contadine, non sono mutati di un
millimetro. Ma se l'alternativa alla vita di fabbrica esistesse, allora l'esodo sarebbe possibile, e la Comune,
in questo senso, potrebbe essere la soluzione, soprattutto se considerata sotto il profilo della
possibilità
di espansione economica (moltiplicarsi delle comuni).Per concludere, ci sembra doveroso fare una
considerazione. Tutto quello che siamo venuti dicendo sta
in piedi a patto che sia possibile trovare il nuovo modo di produzione, quello adatto, più degli
altri, ad una
organizzazione libertaria. Esiste un tale modo di produzione? Non lo sappiamo, né l'esame della
realtà
che ci circonda ci permette di indicare con sicurezza una direzione piuttosto che un'altra. Ma resta pur
sempre il discorso di fondo: la rivoluzione ha bisogno, per avere successo, oltre che di basi organizzative,
anche di basi produttive.Il che significa che il nuovo modo di produzione, se ora non lo vediamo ancora,
dobbiamo cercarlo.
A. R.
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