Rivista Anarchica Online
Tramonto di un'illusione?
di R. Brosio
Un secolo di esperienze cooperative. L'incapacità del movimento cooperativo a negare e
di conseguenza ad eliminare la divisione gerarchica del lavoro
ha progressivamente ridotto le cooperative a delle aziende integrate nell'attuale sistema di sfruttamento
capitalistico-tecnocratico. L'opera fagocitatrice del fascismo è stata perfezionata dal regime
repubblicano e dalla
sua tecnocrazia.
Un secolo fa, l'organizzazione cooperativa suscitava notevole interesse
tra i rivoluzionari, che vedevano in essa
un mezzo di lotta concreta contro lo strapotere economico delle classi privilegiate e un'occasione per
sperimentare e costruire forme associative antitetiche a quelle basate sullo sfruttamento. Da allora, il
movimento
cooperativo ha fatto parecchia strada (nonostante rallentamenti e stasi occasionali) crescendo
quantitativamente
fino ad assumere oggi un'importanza notevole nell'economia praticamente di tutti i paesi industriali, oltre
che
di molti in via di sviluppo. All'Alleanza Cooperativa Internazionale (che non raggruppa certo
tutte le cooperative
del mondo) già nel 1965 risultano affiliate bel 551.000 società, con una produzione
propria valutata in più di
4.000 milioni di sterline e un giro di affari complessivo di oltre 40.000 milioni di sterline. In Italia (dati
del 1972)
le cooperative superano attualmente le 20.000 unità, se ci limitiamo a considerare quelle
raggruppate nelle tue
organizzazioni nazionali (la Confederazione Cooperative Italiane, democristiana, la Lega Nazionale
Cooperative,
comunista, e l'Associazione Generale Cooperative Italiane, repubblicana), ma superano ampiamente tale
dato
tenendo conto di tutte le società non affiliate a nessuno dei tre organismi. Le più
rappresentate sono certamente
quelle agricole e quelle edilizie, ma anche gli altri settori (consumo, produzione e lavoro, trasporti, ecc.)
sono
ugualmente numerosi. Nonostante questa
situazione, indubbiamente felice quantitativamente, l'interesse originario dei rivoluzionari non
si è mantenuto, anzi, è andato calando sensibilmente, e oggi non c'è più
nessuno, tanto meno fra gli anarchici,
che attribuisca al movimento cooperativo lo stesso valore eversivo di un tempo. Al contrario, esso appare
perfettamente "inglobato" dall'attuale ordine sociale e ne è diventato, se non proprio un pilastro,
per lo meno
un elemento di notevole importanza per la sua stabilità. I dati precedentemente riportati ne fanno
fede, visto che
lo sfruttamento non risulta essere affatto diminuito, in Italia o in altri paesi cooperativisticamente
avanzati. Quali sono le ragioni di questo
"tralignamento"? Di quali interessi sociali è oggi portatore il movimento
cooperativo? E' quanto cercheremo di stabilire in queste note, occupandoci, per comodità di
documentazione,
di ciò che è avvenuto nel nostro paese, ma convinti che, per molti versi, il fenomeno sia
il medesimo in tutto il
mondo industriale. Le prime cooperative sorsero
oltre un secolo fa, ed ebbero subito un carattere prevalentemente popolare: erano
una risposta delle categorie sociali meno abbienti alla sopraffazione quotidiana cui erano sottoposte da
chi
deteneva il potere economico, un tentativo di realizzare, con l'aiuto reciproco e la collaborazione tra
sfruttati,
delle condizioni di vita migliori, o comunque più sopportabili, di quelle offerte allora dalla
società. All'inizio furono soprattutto
associazioni di consumatori, che si formavano per l'acquisto a prezzi più convenienti
di generi di prima necessità: nel 1854, ad esempio, si era costituito a Torino, ad opera della
Associazione Generale
degli Operai, un cosiddetto Magazzino di Previdenza che rivendeva ai soci le merci acquistate, a prezzo
di costo,
maggiorato delle sole spese di amministrazione. In
seguito le cooperative si stesero, prendendo in considerazione altre esigenze, e sorsero associazioni di
lavoro,
di trasformazione dei prodotti agricoli, eccetera, arrivando poco a poco a coprire tutti i settori in cui
ancor oggi
esplicano la propria attività. Tale sviluppo fu particolarmente intenso nel periodo compreso tra
il 1890 e il 1915,
senza che l'originario carattere popolare si perdesse. L'impulso veniva, oltre che dalle esigenze obiettive
delle
classi povere, anche dall'interessamento dei militanti di varie dottrine politiche, anarchici e soprattutto
socialisti
prima, "cristiani" in seguito, che vedevano nelle cooperative un mezzo per risolvere i problemi degli
sfruttati in
armonia coi principi della propria idea. Alla fine del 1915 le cooperative di produzione e lavoro in Italia
erano
3022, quelle di edificazione 751, quelle agricole 1143, per un totale (comprendendo anche i settori
minori) di
7429 società. L'elemento caratterizzante
di tutte le prime cooperative fu la scoperta dei vantaggi della mutualità, cioè
conseguenti all'esercizio in comune di una determinata attività: siano essi
configurabili in una minor spesa di
acquisto, in una maggior retribuzione del lavoro, in una maggior valutazione dei prodotti, tali vantaggi
sono la
conseguenza diretta del fatto che gli acquisti, il lavoro, la vendita dei prodotti vengono fatti in
comune da un certo
numero di soci. Per fare un esempio, gli aderenti ad una cooperativa di acquisto risparmiano
perché, in virtù del
loro numero, si riforniscono da grossisti, saltando un anello nella catena di distribuzione delle merci e
quindi
anche il relativo aggravio di prezzo. Risparmiano, cioè, non perché costringono i
commercianti a vendere a prezzi
inferiori, ma solo in quanto possono rivolgersi ad un diverso tipo di commercianti (i grossisti) e questo
solo in
virtù dell'esercizio in comune dell'attività di acquisto. Con le debite modificazioni,
l'esempio può essere
facilmente esteso agli altri casi di cooperazione. L'organizzazione cooperativa, insomma, permette di
valorizzare
le condizioni in cui l'attività sociale viene svolta, senza per altro modificare le caratteristiche di
tale attività: il
consumo resta consumo, il lavoro manuale resta lavoro manuale, la trasformazione dei prodotti resta
trasformazione dei prodotti, con tutti i pregi e i difetti inerenti, ma vengono svolti in condizioni di
maggior
convenienza. Questo vantaggio della
mutualità, innegabile e capace di permettere notevoli miglioramenti tecnici delle attività
economiche, costituiva l'elemento caratterizzante delle cooperative nel senso che ne divenne ben presto
l'unico
fine per cui si costituivano. Al di là delle differenze di impostazione ideologica, i primi
cooperativisti nutrivano
tutti la fiducia che la mutualità fosse suscettibile di far sentire i propri benefici effetti non solo
all'interno della
singola associazione e limitatamente alla propria specifica ragione sociale, ma anche nei confronti di tutto
il
sistema in cui si trovavano inserite. L'espansione del movimento cooperativo (cioè l'esercizio della
mutualità)
avrebbe garantito, di per sé, un virtù delle proprie caratteristiche, l'elevazione dei ceti
meno fortunati, senza
bisogno di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza, senza bisogno di trasferire la propria sfortuna sugli
altri.
La mutualità non era quindi uno strumento al servizio di questa o quella dottrina politica, ma,
come si diceva,
il fine del cooperativismo considerato a priori coincidente con una determinata
impostazione teorica. Tale punto di partenza
ridusse ben presto a mere questioni formali le differenti origini ideologiche del movimento
cooperativo, unificandolo, di fatto, in un corpo solo, dotato di medesimi movimenti e di medesime
tendenze.
Inoltre, e questo è l'aspetto più importante, diventò la base di quel
"tralignamento" di cui si diceva all'inizio. La
fiducia nei vantaggi "rivoluzionari" della mutualità, infatti, era eccessiva e mal riposta.
Riprendendo il discorso
fatto in questo proposito, si può notare che l'esercizio in comune di una certa attività
modifica favorevolmente
le condizioni in cui viene svolta, ma non il significato sociale di essa.
Ciò che è subordinato, diretto, esecutivo,
sottoposto, resta tale, solo meglio compensato. In altri termini, l'origine prima dello sfruttamento,
cioè la
divisione sociale gerarchica del lavoro, non viene minimamente compromessa dall'espandersi del
fenomeno
cooperativo come tale, ma anzi ne riceve in qualche modo un consolidamento, dal momento che la
disuguaglianza
diviene più razionale e più sopportabile. Il maggior compenso che riceve lo sfruttato (o
il minor costo che
sostiene) non è ottenuto a scapito dei privilegi dello sfruttatore, non è sottratto ai suoi
profitti: è frutto soltanto
del modo usato dagli sfruttati per organizzare la propria attività, cioè il proprio
sfruttamento. Lo sfruttamento,
cioè la divisione "verticale" del lavoro, può rimanere prevalentemente (ma non solo)
"all'interno" all'azienda
(nella grandi società cooperative, soprattutto, organizzate secondo una gerarchia aziendale
tecno-burocratica),
oppure può esercitarsi prevalentemente per un meccanismo esterno (si pensi ad una piccola
cooperativa di
lavoratori manuali, di facchini ad esempio, che non hanno un "padrone" diretto - capitalista o tecnocrate
- ma
il cui lavoro rimane esecutivo, socialmente subordinato e remunerato ai livelli inferiori della scala dei
redditi)
anche se l'associazione consente magari ai soci di passare, per dire, dall'ultimo gradino al penultimo o
al
terzultimo. Se la pratica della mutualità
fosse stata abbinata ad una robusta concezione ideologica, che l'avesse usata come
strumento per la realizzazione di un fine egualitario chiaramente identificato, forse questo
difetto di fondo
avrebbe potuto essere "in prospettiva" superato. E' innegabile infatti il vantaggio tecnico della
cooperazione, ed
è rilevante il suo potenziale propagandistico, la sua capacità di dimostrare che la
fratellanza e la collaborazione
possono essere una base di organizzazione sociale per lo meno altrettanto valida che la competizione e
la
disuguaglianza. Inoltre, una rete sufficientemente estesa di cooperative libertarie potrebbe costituire una
sorta di
"infrastruttura rivoluzionaria", utile per sostenere concretamente il movimento degli sfruttati in
lotta. Tale caratterizzazione egualitaria, comunque
non si produsse. Al contrario, e forse proprio in mancanza di essa,
il movimento cooperativo si sviluppò ponendo sempre più l'accento sui vantaggi tecnici
della mutualità, e
organizzandosi di conseguenza, in vista, cioè, dell'esclusivo perseguimento del fine economico,
specifico di ogni
associazione. All'interno delle cooperative più grandi, per motivi di efficienza e
funzionalità, prese così a
riprodursi, come dicevamo poc'anzi, la medesima divisione, tra incarichi direttivi e subordinati, esistente
nell'ambiente "esterno". A questo processo di
spoliticizzazione sostanziale contribuirono in misura rilevante i partiti di impostazione
marxista e cattolica, che, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, esercitarono la maggior influenza
sul
movimento cooperativo. E molto sarebbe da dire su tale influenza, e sulla praticamente completa
identità di
vedute in merito, da parte di due sedicenti avversari. In ogni caso, si apriva così, per le
cooperative, la strada
dell'inserimento nel "sistema", che poteva assorbire senza pericoli, man mano che si modellavano
secondo le sue
esigenze. Col fascismo, l'opera di assorbimento
divenne istituzionale e razionalizzata. Nel 1926 fu creato l'ente Nazionale
Fascista della Cooperazione, che agiva come strumento di controllo burocratico. Alcune grandi
cooperative, come
l'Alleanza Cooperativa Torinese e le Cooperative Operaie di Trieste, vennero trasformate in enti morali
e
sottoposte al controllo diretto del potere esecutivo. Le altre persero ogni autonomia, essendo i dirigenti
in genere
designati dall'alto. Il regime faceva propri i regimi
mutualistici, usandoli di fatto per sopperire a quelle necessità cui non poteva far
fronte con i sistemi economici tradizionali. La cooperazione non era più l'espressione delle
esigenze delle classi
inferiori, ma la espressione delle esigenze del regime, che ne usava i vantaggi per i suoi propri fini. La
disponibilità
reazionaria del mutualismo è chiaramente dimostrata da quest'uso fascista del movimento
cooperativo. Sta di fatto
che esso ne ricevette un notevole impulso. Una rilevazione dell'ENFC, al 21 aprile 1938, ci informa
sull'esistenza
di ben 13.899 società, testimoniando contemporaneamente quanto ormai fosse diventata
importante la
cooperazione per la stabilità economica del regime. Il secondo conflitto mondiale rappresentò una stasi per l'evoluzione del movimento.
Ma le necessità di
ricostruzione del dopoguerra ne riproposero i vantaggi, la convenienza economica, la possibilità
di usarlo ancora
una volta come alleato del sistema. La costituzione della neonata Repubblica Italiana (art.45) riconosce
solennemente la "funzione sociale della cooperazione" e mette l'accento sulla mutualità. Lo stesso
fanno le
disposizioni che regolano la concessione di benefici fiscali alle cooperative, dettando norme precise
perché i
principi mutualistici vengano rispettati. Tutto ciò potrebbe sembrare una vittoria a qualche
ingenuo sostenitore
del carattere egualitario della cooperazione. Nella realtà, è la dimostrazione di quanto
sia definitiva l'opera di
assorbimento, da parte del sistema, sei principi più propriamente tecnici della cooperazione, di
quanto essa sia
diventata funzionale ai bisogni delle classi dominanti (al punto che, attraverso le proprie leggi, si
preoccupano
che non degeneri (per continuare ad usufruirne i vantaggi). In questo senso, lo stato "democratico" ha
completato
e reso più efficiente l'istituzionalizzazione del movimento cooperativo, iniziata dal
fascismo. D'altronde, se dal campo strettamente
legislativo ci spostiamo ad esaminare la realtà economica delle cose,
troviamo più di una conferma alle nostre considerazioni. Il carattere popolare delle cooperative
appare ormai
definitivamente perduto non solo considerando la funzione obiettiva che sono in grado di svolgere,
cioè il
sostegno che di fatto forniscono alla stabilità del sistema, ma anche la funzione soggettiva di
molte di esse, cioè
la loro ragione sociale. Accanto alle cooperative di sfruttati, che non sono altro che mezzi di coinvolgerli
nel loro
proprio sfruttamento, sorgono sempre più numerose le cooperative di sfruttatori, o comunque
di privilegiati, che
si associano per esercitare con maggiore efficienza il proprio predominio: cooperative edilizie, formate
da
impresari, cooperative di professionisti (architetti, ingegneri), cooperative di banche cioè di veri
e propri
capitalisti. Il che rivela quanto inquinato da interessi reazionari sia ormai il mutualismo, quanto poco
garantisca,
come tale, il perseguimento di fini che non siano il mantenimento della disuguaglianza e del privilegio,
quanto
poco, infine, ci sia da rallegrarsi che lo stato ne salvaguardi i presupposti e le
caratteristiche. Inoltre, anche volendo astrarre dal
ruolo che giocano nell'economia del paese, non va dimenticata la evoluzione
della maggior parte delle cooperative quanto ad assetto organizzativo interno. Abbiamo già
accennato alla
tendenza a riprodurre "dentro" la stessa divisione tra incarichi direttivi e subordinati che c'è
"fuori". Questo si
verifica specialmente nelle grandi società, che trattano un rilevante volume di affari e che hanno
un numero
elevato di soci. Qui, ad onta di tutte le migliori intenzioni mutualistiche, la assemblea dei soci ha un
potere
puramente fittizio. Chi esercitò il controllo sulla cooperativa è il consiglio di
amministrazione, formato da tecnici
ed esperti regolarmente stipendiati, come in una qualsiasi società per azioni. I soci sono chiamati,
una volta
l'anno, ad approvare o disapprovare un bilancio consuntivo, e non hanno nessuna
possibilità di partecipare alle
decisioni riguardanti le scelte future dell'impresa mutualistica, che vengono rimesse alla
discrezione degli
amministratori. Questi ultimi, proprio in virtù della posizione di netto predominio dirigenziale
di cui godono,
percepiscono spesso di retribuzioni elevate, che, di fatto, sono in aperto contrasto col principio stesso
della
cooperazione. La cooperativa diventa così un centro di formazione di un vero e proprio potere
di stampo
tecnoburocratico (con tutti i privilegi connessi) come nelle imprese e negli enti statali e parastatali (cui
le grandi
"cooperative" assomigliano sempre di più), come e più che nelle grandi imprese
tecno-burocratiche. Casi tipici di questa
degenerazione, sono tutte le cooperative di 2° grado, cioè le associazioni di cooperative. Il
potere dei dirigenti di consorzi come la COOP Italia, l'Intercoop, la Tecnoesport (controllati dal Partito
Comunista) e tante altre, per l'importanza nazionale e spesso internazionale di tali società,
è oramai palesemente
uscito dai confini delle cooperative, per confondersi con quello, ormai quasi totale, esercitato dai
tecnocrati del
capitale pubblico e privato sul paese nel suo complesso. Altro esempio, politicamente di segno opposto
al primo,
ma di identico significato, è la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari (Federconsorzi), potente
feudo
democristiano, centro di potere e di sottogoverno, fabbrica di voti, drammatica testimonianza del
"tralignamento"
del movimento cooperativo.
R. Brosio
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