Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 32
ottobre 1974


Rivista Anarchica Online

Criminalità sociale e società criminale
di R.D.L.

La delinquenza, presentata come "ovvia" giustificazione della necessità di strutture sociali autoritarie non è che una inevitabile conseguenza dell'assetto sociale autoritario stesso, una sua malattia cronica inguaribile. Il furto legalizzato dello sfruttamento, la violenza istituzionale di classe, l'ingiustizia sistematica della disuguaglianza producono i furti e le violenze illegali, per reazione e ad imitazione della "criminalità legale".

Uno dei più importanti e mesti problemi che si presentano alla moderna indagine scientifica, come strettamente concatenati alla complessa ed incalzante questione sociale, è senza dubbio il fenomeno della delinquenza. (Pietro Gori).

Rapine, scippi, stupri, rapimenti, ricatti, omicidi... La delinquenza organizzata oppure occasionale occupa uno spazio crescente nelle cronache giornalistiche e nelle conversazioni quotidiane. L'escalation delinquenziale (gonfiata ad arte) viene presa a pretesto sempre più frequentemente per qualunquistiche richieste (e reazionarie offerte) di governi forti, di leggi repressive, di forze poliziesche più numerose ed efficienti, di giudici più crudeli...
All'altro estremo, tra extraparlamentari e libertari v'è un riscoperto interesse - non sociologico, ma attivistico - per il lumpen, per il delinquente "comune" visto con eccessiva approssimazione, come un proletario ribelle in pigiama a strisce cui basta appiccicare una patina di "politicizzazione" per farne un rivoluzionario...
Il tema della delinquenza non è nuovo per il movimento rivoluzionario e per quello anarchico in particolare. Ricordiamo qui solo il saggio di "Sociologia Criminale" di Pietro Gori. Già allora, il valente avvocato anarchico si proponeva anzitutto di analizzare scientificamente il fenomeno, pur con qualche ingenuità tipica della fase antropologica della scuola penale positivista, ricollegandolo all'intera problematica sociale. "La società prepara il delitto, il delinquente non fa che eseguirlo", mette il Gori a epigrafe di un capitolo del suo saggio. Viceversa per lungo tempo (e ancora oggi in larga parte dell'opinione pubblica) il delitto fu visto come un fatto strettamente individuale, il cui unico rapporto con la società era il danno che vi apportava. La criminalità era perciò ritenuta un fenomeno anomalo, estraneo al corpo sociale, che aveva le sue radici nei singoli esseri umani che commettevano reati e perciò ritenuti "malvagi".
L'addossare all'uomo, preso come entità astratta, la causa della criminalità, e un chiaro intento deresponsabilizzante del "potere" (in tutte le forme prese nella storia) nei confronti del delitto. Scindere criminalità e società vuol dire assolvere a priori le strutture sulle quali si basa la società, all'interno delle quali va invece ricercata la matrice della criminalità.
Eliminando qualsiasi contenuto valutativo e culturale del termine "delitto" (o "reato", o "crimine") esso altro non è che l'affermazione delle norme sociali. È un fenomeno che nasce in rapporto dialettico con l'amministrazione delle norme sociali, una delle funzioni fondamentali di ogni sistema, dai più semplici e primitivi ai più complessi. Legge e crimine sono dunque coetanei perché nascono da uno stesso processo: da una parte gruppi sociali che impongono delle norme di convivenza compatibili con la difesa dei propri interessi privilegiati e che diventano imperative per tutta la società; dall'altra gruppi sociali che non possono riconoscersi pienamente in queste norme. Le leggi quindi (non quelle norme vigenti anche nelle società più antiche, adatte puramente alla sopravvivenza del gruppo) sono l'espressione codificata (e imperativa per la società) dell'instaurarsi di un potere, di una avvenuta stratificazione sociale.
L'infrazione delle leggi, cioè la criminalità, è la risposta di quella parte di società che viene emarginata dai processi decisionali e i cui interessi non sono espressi nelle norme sociali. Lo stretto rapporto che esiste tra il delitto e società balza, ora, in evidenza, si tratta anzi di un rapporto causa-effetto: il delitto da fatto individuale diventa "fatto sociale".
È illogico negare questo rapporto causale quando la condotta antigiuridica "criminale" è presente, ed è stata presente, in tutti i sistemi sociali, con una tipologia dei reati differente nel tempo e nello spazio, ma analoga in sistemi socio-economici omogenei. Questo dimostra che a strutture e leggi simili si hanno risposte oppositive più rare e (cioè antagonistiche) di tipo antigiuridico, simili.
Riconferma ancora lo stretto legame con la società il significato transitorio e non univoco di "crimine".
Il delitto è tale per definizione, non già per sua natura intrinseca. Un gruppo dominante, dotato di potere, né dalla definizione in ogni società.
Il continuo avvicendarsi al vertice della piramide sociale di gruppi diversi ha, conseguentemente, portato ad un'evoluzione continua del concetto di delitto. Ogni nuova classe dominante porta nuovi interessi da difendere che esprime con diverse norme sociali, liquidando precedenti norme la cui utilità è andata scemando. Così dalla profanazione delle più intime sfere individuali, in auge quando il fatto "divino" dominava le relazioni umane, si passa alla difesa privilegiata dei beni materiali nelle società capitalistiche, al mito della proprietà privata e del denaro. E già vediamo, in taluni paesi più che in altri, una super-valutazione dell'aspetto pubblico, personificato nello stato, materializzato nei suoi funzionari, come la parte più "sacra" da difendere nei propri privilegi.
Il concetto di delitto è quindi una definizione culturale, legata ai valori sociali imposti dal gruppo dominante alla società. Non è un fatto oggettivo, nella semplicistica polarizzazione tra "male" (delitto) e "bene" (legge) proposta strumentalmente dal potere come la morale universale.
L'aspetto brutale della sopraffazione sociale viene infatti attutito da una parallela azione di socializzazione politica verso i valori del gruppo dominante, che diventano i valori culturali di tutta la società. Tanto maggiore ed esteso risulta il processo di socializzazione tanto più stabile risulterà un sistema politico. Se è pur vero che la condotta criminale è il dato tangibile della non avvenuta socializzazione (anche se tale affermazione è in parte inesatta) la condotta antigiuridica non viene sentita dalla società come un atto contrario al gruppo dominante, ma come un atto rivolto contro valori validi per tutto il corpo sociale, praticamente come una condotta antisociale. Questa interpretazione del delitto è il segno più evidente di come il gruppo dominante abbia trasmesso la sua cultura a tutto sistema, anche alle classi inferiori.
Questa confusione "culturale" fra morale dominante (istituzionalizzata nel diritto) e morale "tout court" (che fa bene il paio con la confusione fra stato e società) è un riflesso dell'effettiva necessaria commistione nel diritto, dei valori sociali universali (norme che tutelano l'individuo e la comunità) e di valori o pseudo-valori relativi alla disuguaglianza (norme a tutela degli interessi della classe dominante).
Il rapporto causa-effetto esistente tra società e criminalità non chiarisce però l'aspetto più importante di questo legame: perché ogni società ha prodotto la condotta criminosa. Le motivazioni sono state ricercate in molti fenomeni sociali, particolarmente di natura economica. Il più famoso criminologo marxista, A. W. Bonger, fa risalire al capitalismo ed alle sue strutture l'origine della criminalità.
Ma il delitto non è legato a nessun particolare sistema economico, è nato prima del capitalismo e resiste, oggi, in sistemi socio-economici completamente differenti.
La matrice originaria più o meno diretta, ma sempre valida della condotta criminale è, a nostro avviso, identificabile in un tratto costante di tutte le società: la disuguaglianza. Tutte le società hanno prodotto criminalità perché erano e sono società di dominanti che impongono e di dominati, che coscientemente o meno, rifiutano questa imposizione; perché erano e sono sistemi sociali che basavano e basano i rapporti interumani sullo sfruttamento; perché sono società strutturate in maniera gerarchica ed autoritaria che esprimono leggi che rappresentano gli interessi del vertice e ne difendono i privilegi.
In questa prospettiva possiamo affermare che la condotta antigiuridica non è appannaggio esclusivo dei gruppi sociali che meno possono far valere i propri interessi, le masse diseredate degli sfruttati relegati nei gradini più bassi della scala sociale: infrangere le leggi è un atteggiamento inevitabile legato alla mobilità sociale anche di gruppi più vicini al vertice del sistema od al vertice stesso seppure in misura e con modalità differenti rispetto alla "delinquenza" degli strati inferiori.
In tutti gruppi sociali e presente, cioè, il crimine come strumento "normale" di mobilità all'interno del sistema. Nelle società industriali assistiamo, anzi, ad una proliferazione dei delitti propri ai ceti privilegiati, i cosiddetti "delitti dei colletti bianchi", e allo stesso potere politico ed economico, come la corruzione, l'abuso del potere e dei privilegi derivanti dalle cariche ricoperte.
Tuttavia, trattandosi di società che si basano sulla disuguaglianza, più si sale nella scala sociale più sono protetti i ceti superiori anche dalle conseguenze penali delle loro azioni criminose. Negli U.S.A., ad esempio, solo il 2% della popolazione carceraria appartiene alla classe superiore, eppure l'incidenza della criminalità dei colletti bianchi è senz'altro più elevata. D'altronde una connotazione della criminalità desunta solo dalla popolazione carceraria, dai reati più perseguiti, porta ad una visione distorta della realtà criminale e viceversa ad una visione abbastanza esatta della disuguaglianza sociale: infatti se la criminalità è un patrimonio comune a tutti gruppi, le conseguenze penali sono sopportate più pesantemente dei ceti socialmente più deboli. Secondo recenti stime americane, negli U.S.A. solo una piccola parte dei delitti della classe superiore (per taluni il 4% per altri il 15%) comincia un iter giudiziario e ancora meno giunge ad una condanna finale.
Lo stesso modello culturale del "delinquente" ignora qualsiasi riferimento a tipi e delitti propri alla classe superiore. L'immagine comune del criminale, abilmente composta dalla cultura dominante e accettata dalla società, è quella di un sotto-proletariato intellettualmente poco sviluppato privo di istruzione e incapace di affermazione sociale anche ai gradini più bassi del sistema. È contro questo tipo di "delinquente" che la cultura fa convergere il disprezzo comunitario, il risentimento emotivo verso il criminale, la cui condotta antigiuridica viene percepita come antisociale.
Viceversa, un aspetto importante del comportamento dei ceti superiori sono quelle condotte, giuridicamente permesse, che hanno però un forte contenuto antisociale. Intendiamo tutte quelle azioni, come il danno derivato dall'inquinamento o l'evasione fiscale (in Italia), che non sono reati ma che portano un danneggiamento alla società certamente più grave della criminalità addebitata ai ceti inferiori. Tuttavia, se sono azioni moralmente riprovevoli, fanno parte di quei privilegi legati al potere su cui si basano le società diseguali e la cui presenza non può stupire. Più interessanti da rilevare sono, invece, le motivazioni che spingono i ceti superiori alle attività anti giuridiche. In realtà i meccanismi che spingono alla criminalità i ceti inferiori sono gli stessi che agiscono sui privilegiati.
La criminalità va dunque intesa in una prospettiva dinamica, come un moto dal basso verso l'alto, di contestazione parcellizzata verso il sistema, che nel suo insieme opera come contro-spinta alle cariche stabilizzatrici discendenti dal vertice.
Il noto sociologo Durkheim spinge questa interpretazione dinamica della criminalità sino a considerarla come "utile", in senso sociologico, allo stesso progresso storico della società per la sua continua opera di erosione.
Passando ad un esame diretto della casistica criminale, può a tutta prima sembrare forzata l'identificazione dell'origine sociale della criminalità nella disuguaglianza. Centrando la nostra attenzione, per semplicità, nei paesi industrializzati avanzati, risulta che i quattro quinti dei delitti commessi rientra nella categoria dei cosiddetti "attentati alla proprietà pubblica e privata", cioè reati facilmente riconducibili alla disuguaglianza ed alle aspirazioni di miglioramento sociale. Resta però un certo numero di atti anti giuridici che non sono diretti al conseguimento di nessun beneficio materiale: sono gli atti di violenza contro cose e persone, spesso tanto crudeli quanto "afinalistici" (senza scopo evidente).
Esaminando questi delitti, sì può cadere nella tentazione, suggerita dal potere, di considerarli espressione della malvagità del singolo esecutore; ma la causa di questa violenza va ancora una volta imputata alla società: una società violenta che basa i rapporti tra gruppi sulla sopraffazione e l'antagonismo. La stragrande maggioranza degli autori di queste azioni sono effettivamente membri dei ceti più diseredati (negli U.S.A. l'80% della popolazione carceraria appartiene al sottoproletariato ed alle minoranze etniche e razziali), cioè di quelle frange sociali che vivono ai margini di una società che li respinge o li sfrutta bestialmente. Ed è verso questa società che si sfoga, in maniera spesso indiscriminata, il rancore accumulato da questi esclusi, in atti di violenza che intendono solo esprimere il loro rifiuto verso una società che li rifiuta.
Un fenomeno legato a questi delitti di aggressione violenta contro l'intero corpo sociale è l'aumento della criminalità giovanile nei paesi industriali. Sono facilmente le giovani generazioni le protagoniste di questi atti di violenza senza scopi immediati, che possono essere spiegati solo come una rivolta (di personalità immature) contro i valori che la società propone. La criminalità giovanile, e particolarmente queste forme nelle quali si sviluppa, sono il sintomo più sensibile di una crisi che non coinvolge un solo sistema o una cultura, ma un'intera civiltà.
Fondamentale, inoltre, nella interpretazione della condotta violenta è la repressione sessuale che permea i rapporti interumani in quasi tutte le società. (A questo proposito è interessante notare la sensibile diminuzione degli atteggiamenti aggressivi nelle relazioni sociali di quelle isole dell'Oceano Pacifico che vivono una sessualità priva dei tabù delle civiltà occidentali). Nella repressione sessuale troviamo la causa non solo dei delitti a sfondo chiaramente sessuale (che incidono notevolmente sul totale dei reati), ma anche di molti delitti violenti, nei quali l'aggressività umana, alimentata da una innaturale morale che vieta condizioni esistenziali fondamentali, sfoga alternativamente la sua carica in scoppi distruttivi verso la società.
In tutti questi delitti, dunque, pure legati direttamente a motivazioni non direttamente riconducibili alla stratificazione sociale ed alla ineguale distribuzione dei privilegi, possiamo però ritrovare una matrice originaria identica. La violenza delle strutture sociali, l'homo hominis lupus che sta alla base della cultura, la repressione strumentalizzata delle inclinazioni umane sono l'inevitabile frutto della disuguaglianza sociale, che, con una concatenazione logica, partendo dai sistemi gerarchici ed autoritari riesce a spiegare il teppismo più brutale ed insensato.
In questa sede, tuttavia, intenderemo per crimine soprattutto l'azione tesa a guadagnare, al di fuori della legalità, benefici materiali. Questo perché, negli atti di violenza a cui abbiamo accennato, c'è l'esigenza di prendere in considerazione un più specifico intersecarsi di tratti caratteriali ed ambientali che rappresenterebbero il discorso; ci ripromettiamo comunque di riprendere in futuro questo aspetto, tanto importante, della criminalità.
Nei paesi più ricchi del mondo assistiamo ad un fenomeno in atto da diversi decenni e che accompagna di pari passo il progresso socio-economico di queste nazioni: una criminalità in continua ascesa.
Questo processo smentisce assolutamente le ottimistiche teorie ottocentesche che vedevano in un più diffuso benessere sociale la causa di un sensibile calo delle attività criminali.
Viceversa, con l'eliminazione delle sacche di miseria più grave e con il diffondersi dell'istruzione, la criminalità ha avuto un aumento tumultuoso. Solo nei paesi più poveri, a prevalente economia agricola, con uno sviluppo sociale e culturale molto lento o nullo, troviamo società in cui il fattore criminalità ha un'incidenza limitata. Cadono quindi le teorie economicistiche che legavano in maniera troppo esclusiva e diretta il pauperismo e la criminalità. Oggi ci troviamo di fronte ad una "criminalità del benessere" che si è sviluppata a macchia d'olio nelle società industriali, con un aumento non solo quantitativo del delitto, ma anche qualitativo.
È anche questa una ulteriore conferma che la matrice sociale della condotta criminale è la disuguaglianza, non già una "mancanza" di beni, ma una distribuzione ineguale degli stessi che viene sentita come ingiusta. La condotta antigiuridica esprime appunto la volontà di raggiungere quei beni materiali, ed il prestigio sociale che ne consegue, da parte dei gruppi più deboli, a cui sono negate le vie legali.
La contraddizione in cui si dibattono i ceti meno privilegiati consiste nell'aver accettato (perché imposta) la cultura del gruppo dominante, la quale propone alla società una serie di fini-mito, il cui reale conseguimento è strettamente legato ad una serie di privilegi di cui ha il monopolio il gruppo detentore del potere. Si mette in moto, quindi, un meccanismo che stimola continuamente al raggiungimento di questi fini-mito proposti, necessari alla affermazione individuale e nello stesso tempo legalmente irraggiungibili. Questa super stimolazione della società sull'individuo provoca un senso di frustrazione che ingenera un processo aggressivo-oppositivo verso la società che si realizza con la condotta antigiuridica.
Raramente, però, la condotta criminale è il sintomo di cosciente rifiuto di una società ingiusta e dei suoi valori imposti. Si tratta di una ribellione individuale ad una condizione sociale personale che viene rifiutata perché limitativa e frustrante, la cui unica via d'uscita (se non si perviene "all'integrazione etica") è l'ottenimento di quei beni con mezzi illegali. Tuttavia, e per questo precedentemente dicevamo che la criminalità e solo parzialmente il fallimento del processo di socializzazione, l'uso dei mezzi illegali per ottenere i fini proposti dalla società è un'implicita affermazione dell'accettazione culturale di questi fini. In pratica la socializzazione culturale è avvenuta, il sistema sociale e interiorizzato anche dal delinquente, che non lo contesta, ma nel quale cerca "l'integrazione sociale" ad un livello ritenuto più soddisfacente.
È forse questo l'aspetto più interessante per i rivoluzionari: la criminalità nasce come atto di rivolte individuale contro un sistema sociale sentito come ingiusto, è un rifiuto che testimonia l'aspirazione a cambiare il proprio status di inferiore (e così per tutti gradini della società), ma si tramuti in un atto di accettazione del sistema perché non perde il carattere egoistico della ribellione e trova quindi soddisfazione nel successo della singola azione criminosa. Non si tratta quindi di lotta di classe incosciente, ma del rifiuto della propria collocazione di classe. Manca (ed in questa direzione si deve intervenire) la coscienza rivoluzionaria, in questo atto individuale, e spesso anche la coscienza di appartenere ad una classe di sfruttati e di oppressi. Infatti è facile rilevare che la criminalità oggi non ha un carattere, come lo definiremmo noi anarchici, "espropriativo", ma colpisce anche i ceti inferiori, spesso più facilmente depredabili. Solo perdendo questo carattere egoistico, quindi, l'azione antigiuridica anziché integrarsi nel sistema potrebbe diventare atto di lotta politica.
In un'altra prospettiva, però, la criminalità è un sintomo di malessere, di crisi dei valori etici della società, anche se non arriva ad essere il rifiuto del sistema che li genera. La criminalità è infatti, in correlazione negativa con la stabilità del sistema. Più una società attraversa periodi di cambiamenti sostanziali, più sviluppa condotte antigiuridiche; più il sistema è invece stabile, quindi accettato ed interiorizzato, meno vistoso sarà il fenomeno della criminalità..
L'aumento notato nelle società industrializzate occidentali è indubbiamente la testimonianza che se non hanno perduto valore le mete proposte (che anzi si sono dilatate) lo hanno perduto le motivazioni etiche che frenavano la criminalità. Il conseguimento dei fini, stimolato incessantemente dal consumismo imperante, è diventato più importante di una condotta socialmente riprovata. Ci troviamo di fronte ad una scissione tra cultura e morale, tra integrazione sociale ed integrazione etica, che esse manifestazione evidente di una profonda crisi nel corpo sociale.

R.D.L.

La criminalità in Italia

Nel 1971, secondo i più recenti dati pubblicati dall'ISTAT, si sono avuti in Italia 1.109.352 reati per i quali l'autorità giudiziaria, ha iniziato un procedimento penale. Di questi, 694.231 (il 62,57%) sono reati "contro il patrimonio", (furti, rapine, truffe, ecc.); segue a considerevole distanza (155.952, pari al 14,05%) l'attività criminale "contro l'economia e la fede pubblica" (falsificazioni, assegni a vuoto, frodi, ecc.); poi i reati contro l'incolumità personale (137,621 pari al 12,40%), dove però più della metà dei delitti è a carattere colposo, cioè non volontario. A notevole distanza troviamo i reati "contro la famiglia" (14.597), "contro la morale" (8.560) ed infine contro la vita (omicidi e tentati omicidi), che ammontano a 6.697, di cui 5.284 colposi. Il dato più importante che possiamo trarre da queste cifre è la prevalenza dei reati di tipo "economico", cioè commessi con fini di lucro, che insieme a montano al 90% circa.
È interessante fare una comparazione con i dati del '61 per verificare l'andamento della criminalità in dieci anni. Nel '61 il totale dei reati denunciati era di 426.317, cifra quasi triplicata nel decennio considerato: i delitti "contro il patrimonio" si sono anch'essi triplicati (da 244.093 a 694.231) mentre assai minore è l'incremento degli altri reati ed i delitti contro la vita sono rimasti pressoché costanti.
Del milione abbondante di delitti annui, circa il 60% rimangono di autore ignoto. Inoltre nel '71, su 486.447 incriminati, 408.522 sono stati prosciolti con varie formule e solo 65.295 sono stati condannati. Scomponendo quest'ultima cifra, secondo vari parametri, si può avere un'idea approssimativa della fisionomia sociale degli autori di reato identificati e condannati.
Di essi, più della metà sono recidivi, con una schiacciante prevalenza dei maschi (54.598) sulle femmine (10.697).
Le classi d'età che più incidono nella attività criminale sono quelle comprese tra i 30 e i 39 anni (30,2%) e tra il 20 e 29 anni (27,3%); poco rilevante la criminalità dopo i 60 anni e abbastanza bassa tra i giovani al di sotto dei 20 anni (10%, anche se queste cifre sono falsate in parte dalla particolare legislazione minorile). Grosso modo la parabola dell'attività criminale secondo il sesso e secondo le classi d'età si svolge in maniera abbastanza simile ad ogni altra attività economica umana, con la differenza che inizia e termina prima.
Rispetto all'istruzione, l'84,3% degli autori identificati di un reato risultano aver frequentato la scuola elementare, l'8,8% le scuole medie inferiori, il 3,5% le scuole medie superiori e l'università e il 3,4% sono analfabeti.
Di questi 65.000 "delinquenti", inoltre, il 57% è costituito da lavoratori dipendenti (di cui il 33,8% è occupato nei servizi, il 9,4% nell'industria e il 3,8% nell'agricoltura) il 16,9% sono invece lavoratori in proprio, il 9,9% risultano essere casalinghe e il 4,1% si dichiarano disoccupati, gli altri sono studenti, pensionati, ecc.. Questi dati sono, però, più chiari se considerati in riferimento all'incidenza dei delinquenti sulla popolazione totale delle varie categorie. Su 10.000 individui avremo così, per la categoria dei disoccupati, 101 delinquenti; le casalinghe "criminali" sono 5 su 10.000, i pensionati 3, gli studenti 9, gli "occupati" in qualche attività lavorativa 26 su 10.000.
Rimanendo a questo rapporto con la popolazione totale, l'incidenza dei delinquenti secondo il settore lavorativo (agricoltura, industria, servizi) e la posizione è: lavoratori in proprio dei servizi 88 su 10.000, lavoratori dipendenti dei servizi 45; nell'industria 31 lavoratori in proprio e 9 dipendenti; per il settore agricolo 20 dipendenti e 14 in proprio. La palma dell'onestà spetta ai salariati dell'industria!
Un'ultima osservazione va fatta sulla netta prevalenza dei lavoratori nei servizi come autori di reati. Probabilmente sono classificati in questo settore, la maggior parte dei delinquenti abituali che in attività varie (e spesso difficilmente catalogabili) hanno vere o simulate occupazioni secondarie.