Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 26
gennaio 1974 - febbraio 1974


Rivista Anarchica Online

I guerriglieri: avanguardia di quale classe?
di Parane

Indubbiamente la difficoltà maggiore che si presenta per comprendere i movimenti guerriglieri che nascono, muoiono e risorgono in America Latina, risiede nella differenza esistente tra la realtà di tali movimenti e le teorie che li generalizzano, li interpretano o li glorificano. Attenersi ai fatti è un duro lavoro, perché la letteratura che li circonda, gli deforma e li travisa.
Tuttavia, anche limitandosi ai documenti, è possibile liberarsi dal fumo e dalle fraseologie che impediscono di guardare apertamente alle esperienze; a volte riferendosi agli scritti di una stessa persona, com'è il caso di "Che" Guevara. La sua "Guerra di guerriglia" - edita dal Ministero delle Forze Armate di Cuba - teorizza l'esperienza cubana e dà le leggi imperative per la tattica: creazione di un centro armato a direzione politico-militare, ambiente contadino, la lotta deve mirare al potere attraverso il disturbo continuo, l'esaurimento, la liquidazione delle forze armate. Per involontaria contraddizione il suo "Diario" di Bolivia ci mostra un gruppo in cui la maggioranza degli elementi sono "importati" ed in cui l'azione si limita presto, dopo elementari errori contro la sicurezza, alla ricerca dei mezzi di sopravvivenza, senza legami con l'ambiente rivoluzionario dei centri minerari, ai margini delle poche popolazioni contadine, che finirono per denunciarli. Una fine deplorevole. Una avventura suicida più che un tentativo sfortunato.
Un altro testo, quello del capo guerrigliero Hector Bejar sugli scritti peruviani del 1965, fornisce una lucida critica del carattere stretto e meccanico della teoria che dei giovani intellettuali cittadini tentarono di mettere in pratica. Le qualità richieste dalla natura del terreno e dall'esigenza di contatti con le popolazioni locali favorirono la rapida e definitiva vittoria degli eserciti regolari.
Gli insuccessi e lo sfaldamento della guerriglia rurale in Venezuela, in Colombia, in Guatemala, non scoraggiano i teorici. Impegnano subito le loro capacità per formulare un altro metodo, esattamente opposto al primo, giudicato quindi infallibile. Si tratta questa volta della guerriglia urbana. Dimenticando tuttavia che l'esperimento era stato tentato a Caracas all'inizio degli anni '60 e che furono le grandi difficoltà incontrate dal terrorismo urbano a costringere i nuclei rivoluzionari a cercare dei punti di appoggio nelle regioni montagnose. La teoria viene dopo. Già autore di trattati perentori sulle rigide regole della guerriglia rurale - "la città è un marciume" - Régis Debray troverà un nuovo argomento per una dottrina definitiva nell'esperienza dei Tupamaros uruguaiani. Nel suo studio, pubblicato dalla rivista "Casa de las Americas" dell'Avana, Debray presenta il movimento di Sendic come un modello degno di essere imitato, e per così dire, come l'unico. Questo poche settimane prima che la rete dei Tupamaros fosse praticamente smantellata.
Il destino dei dottrinari e degli animatori della guerriglia prima maniera è a volte interessante da seguire. Curiosamente ritroviamo Hector Bejar consigliere presso la Giunta Militare e incaricato speciale dei problemi di mobilitazione popolare. In quanto a Régis Debray, dopo avere dato qualche consiglio a Salvador Allende, si avvicina al Partito Socialista, una volta rientrato in Francia.
Come si reclutano, qual è l'origine sociale dei guerriglieri? Sono, nella stragrande maggioranza, giovani intellettuali, già laureati o ancora studenti universitari, figli della piccola, media o grande borghesia. Fra di essi rari sono gli operai o contadini. Il loro linguaggio è socialista, indubbiamente operaista, più generalmente "populista"; il loro comportamento è quello di una categoria sociale "disponibile" e si considerano atti ad esercitare il potere.
La dottrina, se così si può chiamare un insieme di formule semplicistiche, si presenta come il punto di incontro di influenze o di fraseologie diverse i cui denominatori comuni sono l'indipendenza nazionale, lo sviluppo economico, l'eliminazione delle classi dirigenti incapaci. Tutti sono anti-imperialisti, con un accento particolare sull'anti-yankismo, anti-oligarchi, sostenitori di uno stato propulsore e pianificatore, per lo più avversi e diffidenti nei confronti delle borghesie nazionali considerate strumento della dipendenza esterna.
La loro ricerca di metodi efficaci è costante, il che spiega la facilità con la quale passano da una tattica all'altra, sempre in cerca dell'ultima tecnica che ha dato buoni risultati.
Essi sono talvolta, nello stesso tempo, successivamente o contraddittoriamente maoisti, castristi, marighelisti, "tupamaros". Sempre in cerca del potere. Sempre alla ricerca di una teoria "rassicurante" che darà loro piena giustificazione della funzione sociale che intendono adempiere, allo stesso tempo in cui fornirà loro una coscienza atta al ruolo storico progressista che essi compiono. "La Storia ci assolverà". Poiché è traumatizzante per loro, spesso, lo scoprire di non essere l'avanguardia di una classe operaia conquistatrice, o di una farsa paesana rivoluzionaria, ma piuttosto gli apprendisti, i precursori di una nuova classe dirigente. Non provengono né dalle fabbriche, né dalle fattorie. Non sono frutto del movimento operaio. Si sforzano di occupare le posizioni marginali che movimenti sociali anteriori hanno lasciate incolte; gli abitanti delle bidonvilles, disoccupati o sotto occupati, diplomati in cerca di impiego, studenti senza prospettive. Cercano un vettore sociale per la propria ascesa?
In questo sono paradossalmente vicini a quelli che denunciano con maggior vigore, vale a dire i funzionari, i tecnici e gli impiegati del regime in carica che, spesso in condizioni materiali mediocri, servono le classi privilegiate e che già parzialmente integrati, consenzienti, utilizzati, preferiscono i metodi riformisti, parlamentari, o più semplicemente carrieristi. Anche essi sostenitori del cambiamento, del progresso, dello sviluppo, di una società ove la produzione sia razionale e basata su di un proletariato numeroso, mobilitato, inquadrato, entusiasta ed efficiente. Anch'essi "di sinistra". A condizione beninteso che non le si confonda con i manuali, gli operai, con i proletari.
Queste sono le constatazioni sociologiche, poco propizie a suscitare l'entusiasmo. Esse non devono far dimenticare che fra le centinaia o le migliaia di buone volontà che si manifestano in seno ai gruppi di giovani intellettuali, il coraggio, l'eroismo corrispondono frequentemente ad una sana reazione morale, alla denuncia dell'ipocrisia sociale, alla presa di coscienza dei grandi problemi della miseria, dello sfruttamento economico, dei molteplici sistemi di frustrazioni e di sottomissione.
Gli studenti che abbandonano la casa paterna, prendono le armi e se ne vanno a cercare il contatto con la popolazione dei quartieri miserabili o con i semi-schiavi dei latifondi danno prova di una volontà di rottura con la propria classe, di cui essi vedono e denunciano il carattere sfruttatore, e di un evidente desiderio di mettersi al servizio di un movimento di emancipazione. Uno spirito di sacrificio che si ritrova in altre iniziative del mondo universitario dell'America Latina, come i servizi di ampliamento scolastico, di lotta contro l'analfabetismo, di biblioteche popolari, iniziative alle quali ogni anno migliaia di studenti si dedicano.
Non si tratta dunque di denigrare i moti di simpatia e solidarietà, né di disistimare il valore della abnegazione o dei sacrifici che importanti porzioni di gioventù intellettuale spende, generazione dopo generazione. Ciò che è da denunciare è lo spreco o deviazione di questo "capitale", per effetto di confusione teorica o a causa di metodi organizzativi o di sistemi di potere che sono contraddittori con i moventi morali che animano gli universitari. Le dottrine e i metodi che mirano a favorire l'ascesa di una nuova classe di dirigenti professionali - e fra i quali si possono distinguere tecnici, quadri politico-direttivi sorti da organizzazioni operaie e contadine, burocrati di stato - che si fa spingere dagli slanci popolari e utilizza la tradizione d'un socialismo libertario e solidale, sono viceversa da denunciare, poiché conducono diritto a nuove forme di sfruttamento delle quali il proletariato resta vittima e gli strati "organizzatori" i beneficiari, sia come detentori del potere sia come privilegiati dalla funzione.
Non è il problema della violenza che segna la frontiera. La violenza è il prodotto naturale dei conflitti sociali, sotto forme armate o sotto molteplici travestimenti della repressione, dell'imposizione gerarchica, della sotto-alimentazione o della concorrenza economica. La frontiera è quella che delimita una classe intellettuale in ascesa, chiamata a liquidare l'oligarchia, a sostituirsi ad una borghesia senza dinamismo, ed anche a mobilitare un'altra classe, quella produttrice, ma non padrona del proprio destino e unica sudare il plus-valore.
Tutto ciò non è discutibile in in teoria. Sono infatti e le situazioni che richiedono e permettono un minimo di generalizzazione. La prova è facile da presentare se si prende in esame una situazione concreta. Prendiamo quella della Argentina. Dal 1970 al 1973, la violenza urbana, che parecchi militanti qualificheranno come l'espressione di una "sinistra armata", si scatena. Essa è guidata, per non citare che le correnti più importanti, dalla Forze Armate Rivoluzionarie- F.A.R. -, dalle Forze Argentine di Liberazione - F.A.L. -, e dall'Esercito Rivoluzionario del Popolo - E.R.P.. Espropriazioni, sequestri, occupazioni-lampo di piccole località, furto d'armi, esecuzioni formano la trama quotidiana della guerriglia urbana.
"Dottrinalmente", questi movimenti si qualificano tutti, poco o molto, peronisti, neo-peronisti, perché ritengono che la corrente popolare peronista sia potente, e che eserciti una pressione permanente favorevole al cambiamento, propizia all'iniziativa rivoluzionaria. A guardar più da vicino, il F.A.R. non prende il giustizialismo che come un'esperienza che fu limitata e che deve proseguire attraverso una rimodellazione socialista. Questo movimento si dichiara nazionalista, nel senso che vuole liberare il paese e la sua economia da tutte le imprese straniere, ma che non respinge il marxismo, sebbene questo debba essere considerato come uno dei metodi di approccio alla complessa realtà Argentina. Esso a metà del '73 s'aspetta da Peron che superi la "fase" del suo potere 1945-1955 e prenda posizioni nettamente socialiste, appoggiandosi alla classe operaia ed alle classi medie. Uno dei portavoce del F.A.R. dichiara: "Molti di noi non provengono dalla classe operaia... Una delle ultime tappe della nostra evoluzione è la rivalorizzazione progressiva dell'esperienza peronista da parte di vasti settori di strati medi, e particolarmente del movimento studentesco". Inoltre, il F.A.R., giudica che lo sforzo deve tendere alla creazione di un partito di avanguardia, a somiglianza dei partiti cinese, vietnamita o cubano.
Le Forze Argentine di Liberazione si considerano come appartenenti alla "nuova sinistra". Esse si rifanno al marxismo-leninismo ed intendono rappresentare gli interessi del proletariato. La guerra che conducono non è solamente di liberazione nazionale, ma deve prendere un carattere di classe, di liberazione sociale. In rapporto al peronismo, ritengono che esista una forza peronista di base, sane ed utilizzabile, ed una burocrazia di partito e di sindacati interamente sclerotizzata. Nessuna attacco frontale contro Peron o contro il ricordo di Evita, ma l'utilizzazione di alcuni tratti "positivi" del peronismo, come l'anti-imperialismo e l'illusione popolare di aver partecipato al potere. "I nostri compiti non sono esclusivamente di tipo armato. Il nostro ruolo è di abbattere violentemente la sovrastruttura politica dello stato. Noi dobbiamo anche cercare di organizzare le masse in vista di farle partecipare alla loro liberazione. Un lavoro che ha di mira soprattutto la classe operaia, il movimento studentesco e gli abitanti delle bidonvilles".
Dopo il F.A.R. nazionalista ed il F.A.L. classificabile come maoista, viene l'E.R.P.- Esercito Rivoluzionario del Popolo - che si presenta come "un un esercito proletario per la sua composizione sociale, rivoluzionario per la sua pratica e che dovendo agire nel quadro di una guerra civile popolare, prende l'aspetto di una organizzazione di massa", e la cui nascita è dovuta alla decisione del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, affiliato alla IV Internazionale, quella di Mandel e di Krivine. Ma se il programma del partito è chiaramente e decisamente socialista, quello dell'E.R.P. si limita alla anti-imperialismo, all'anti-capitalismo e alla democrazia. Il legame fra le due organizzazioni si stabilisce come segue: "In ogni gruppo armato dell'E.R.P. esistono commissari politici del P.R.T. che formano l'ossatura della direzione politica, ma non assumono necessariamente la direzione militare".
Ciò che è significativo, è che fra le tre organizzazioni, senza contare le altre, meno nettamente definite, si esercita il reciproco aiuto e in ogni caso si hanno rapporti fraterni. Indubbiamente non tanto a causa di certi tratti comuni negli orientamenti politici quanto del fatto che i loro membri appartengono al medesimo ambiente e denotano una stessa composizione sociale.
Ciò che li rende così simili, è un certo calcolo sulle possibilità di manovrare la massa peronista e di trasformarsi in avanguardia di tale massa - supposta acefala - sostituendosi agli strumenti ufficiali del peronismo. Si tratta di un machiavellismo che non supera i limiti dei posti ove stato concepito. Effettivamente il ritorno di Peron ha significato subito l'allontanamento del "portavaligia" che aveva nome Campora, e dietro il quale i grandi strateghi della rivoluzione si nascondevano con astuzia. Il ritorno di Peron ha avuto anche come conseguenza l'accordo fra i servizi investigativi dell'esercito, i gruppi di difesa degli apparati sindacali e politici peronisti, composti da perfetti mascalzoni, e le varie polizie, per liquidare la "sinistra armata". E ciò, evidentemente con la partecipazione di organizzazioni ancora ieri alleate ai "rivoluzionari", e aderenti ora al potere peronista. Non è l'assassinio di un Ricci che fermerà una repressione che serve agli interessi di tutti quelli che desiderano l'integrazione, quelli di ieri e quelli di oggi. Un fenomeno prevedibile, al quale non sfugge neppure una parte dell'E.R.P., la maggior parte dei giovani peronisti e un settore non trascurabile di correnti nazionaliste.
Poiché nel magma di tendenze che formano la "sinistra armata", è ancora facile riconoscere l'influenza di tendenze più vecchie, anch'esse favorevoli all'uso della violenza. Le tracce dell'Alleanza Liberatrice Nazionalista, diretta da Guillermo Patricio Kelley, all'estrema destra del peronismo della "belle époque". O quelle di Tacuara, l'organizzazione cattolica integralista, anti-semita, una parte dei dirigenti della quale è evoluta verso fraseologie più moderne come il marxismo-leninismo, seguendo l'esempio del loro leader Joe Baxter.
Una curiosa miscellanea come si vede, che può difficilmente essere confusa con la "punta avanzata" d'un movimento operaio o contadino, qualunque sia il vocabolario usato.

Parane