Rivista Anarchica Online
Strane notizie
di Carlo Oliva
Come la mettiamo con le proteste contro la sentenza Sofri da parte dei "giustizialisti" di sinistra?
Sabato 28 marzo i quotidiani nazionali hanno riportato una strana notizia. Ci hanno
informato che Adriano Sofri,
Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, detenuti, com'è noto, nel carcere di Pisa per l'uccisione del
commissario Calabresi, non faranno lo sciopero della fame a oltranza in segno di estrema protesta contro la loro
situazione giudiziaria. Una notizia negativa - anzi, una non notizia - che, in quanto tale, non avrebbe dovuto avere
diritto di cittadinanza sui mezzi d'informazione e che invece è stata ripresa, con vario rilievo, praticamente
da
tutti. La cosa, ammetterete, è abbastanza curiosa, anche se formalmente giustificata con la
necessità di negare
quanto affermato in senso contrario dal Foglio di Giuliano Ferrara il giorno prima. In genere, l'onere
di rettificare
una notizia imprecisa ricade su chi l'ha divulgata e non si estende all'intero sistema informativo nazionale. E
invece, sulla pronta smentita degli interessati, si sono costruiti dei servizi a pagina intera. Ora, io non so se
il Foglio si è limitato, come hanno scritto, giustamente preoccupati, i commentatori che
hanno
a cuore la sorte dei tre, a rompere un impegno di riservatezza, cioè a rendere pubbliche delle informazioni
che
pubbliche non avrebbero dovuto essere, o se sia caduto in un infortunio giornalistico vero e proprio. Ma, certo,
quella dello sciopero di fame dei tre di Lotta Continua era una non notizia che circolava da parecchio, tanto da
avere ormai assunto, paradossalmente, il carattere di notizia positiva. Sofri, Bompressi e Pietrostefani non hanno
mai dichiarato l'intenzione di digiunare a oltranza, anzi l'hanno esclusa più volte, e uno sciopero della
fame,
ovviamente, è tale solo se viene dichiarato, ma l'ipotesi che la loro vicenda subisca questa drammatica
svolta
viene ormai annoverata a pieno titolo tra quelle da prendere in considerazione. È, per dirla brutalmente,
un'ipotesi
che giornalisticamente piace.
Giustizia negativa E si capisce il perché. Il "caso Sofri" ha scosso
l'opinione pubblica, non solo a sinistra, come un esempio
clamoroso di giustizia negata, ma giornalisticamente è giunto a un impasse. In attesa che maturino i
tempi,
tecnicamente piuttosto lunghi, di un ricorso in Cassazione contro l'ordinanza con cui la Corte di Appello di
Milano negava la revisione del processo, perché se ne parli deve succedere qualcosa. E qualcosa,
possibilmente,
che permetta di separare il problema della sorte dei tre condannati da quello della condanna che li ha colpiti e del
perché la magistratura l'abbia voluta con tanta sconcertante fermezza, a scapito - talvolta - della propria
stessa
dignità, che dall'uso di sentenze suicide, di pressioni sui giurati e argomentazioni tragicomiche sui baffi
di Marino
non ha certo tratto grande vantaggio. I giornalisti italiani, si sa, polemizzano con la magistratura solo se hanno
qualche motivo di bottega per farlo (se, per esempio, il loro padrone rischia di essere incriminato in qualche
grossa inchiesta). Di giustizia negata non si preoccupano più di tanto. Un problema, in un certo
senso, analogo si pone per buona parte dell'opinione pubblica, quella di sinistra
compresa. Anche l'opinione pubblica democratica e il popolo della sinistra, che pure hanno vissuto l'ordinanza
della Corte di Appello milanese con una sorta di incredula stupefazione, non amano polemizzare con la
magistratura. Alla magistratura, anzi, credono fortemente, tanto è vero che da qualche anno le hanno
delegato
gran parte delle loro residue speranze di ribaltamento delle contraddizioni politiche del paese. E la
consapevolezza di come questo atteggiamento "giustizialista" faccia contraddizione con la critica doverosa di un
pronunciamento giudiziario palesemente iniquo non è ancora riuscita ad affermarsi. Certo,
un'ordinanza è soltanto un'ordinanza, un atto specifico pronunciato da una specifica corte, e non
può né
deve coinvolgere l'intero ordine giudiziario. Ma la cosa è vera solo fino a un certo punto. Quell'ordinanza
è stata
emessa dalla quinta sezione penale della Corte di Appello di Milano, su conforme parere della Procura Generale,
ma questo dato, in fondo, è abbastanza casuale. Io non conosco quei giudici, non ho motivi per metterne
in dubbio
la buona fede e non intendo qui analizzare le loro motivazioni, ma non credo che degli altri giudici avrebbero
potuto esprimere un parere molto diverso. Quella sentenza (perché di una sentenza, in sostanza, si tratta)
era
inevitabile, perché è l'espressione di una cultura giuridica che permea di sé buona parte
delle nostre istituzioni.
Una cultura che non prevede, nonostante tutto, un giudice neutrale, o, come credo si dica, "terzo tra le parti",
perché ostinatamente si rifiuta di distinguere, all'interno della magistratura, tra ruoli giudicanti e inquirenti
e tende
anzi a dare prevalenza, in termini di prestigio e autorevolezza, a chi esercita la funzione inquirente. Una cultura
che poco o nulla si preoccupa delle prove concrete, perché le pospone al "libero convincimento" del
giudicante
e all'implicito pregiudizio a favore di quanto, più o meno liberamente, dichiarano pentiti e collaboratori
vari.
Una cultura che, quindi, tende inesorabilmente a identificare la giustizia con le sentenze di condanna e che vede
la massima iattura nel fatto che a una condanna, in un modo o nell'altro, non si riesca ad arrivare.
Cultura illiberale Di questa cultura illiberale, ahimé, non siamo esenti
neanche noi cittadini. Anche per noi, il più delle volte,
un'assoluzione, o una non condanna, è una iattura. Abbiamo attribuito alla magistratura il ruolo,
istituzionalmente
indebito, di sanatore di tutte le contraddizioni della nostra vita sociale. L'idea di vedere in galera i grandi
prevaricatori e i grandi corrotti ci affascina al punto di renderci ciechi di fronte al fatto che in galera ci finiscono,
in genere, tutt'altre persone. Ten- diamo a schierarci al fianco dei magistrati ogni volta che qualcuno di loro
denuncia il tentativo di diminuirne i
poteri, senza nemmeno chiederci se tutti i poteri che la magistratura rivendica siano compatibili con le nostre idee
in fatto di giustizia. Ora, la quinta sezione penale della Corte di Appello di Milano ha ribadito una condanna
che a molti di noi sembra
ingiusta, ai danni di tre persone che consideriamo innocenti, e abbiamo sentito tutti il bisogno protestare. Ma non
tutti, forse, ci siamo resi conto che quella condanna (che rappresenta, naturalmente, una piena assoluzione di
quanti hanno pronunciato le condanne precedenti e il rifiuto di metterne in discussione l'operato) mette in crisi
molte delle nostre reazioni abituali in fatto di giustizia, inclusi i nostri atteggiamenti verso la magistratura.
Sarà
per questo che quasi tutti preferiscono dimenticare il fatto che la condanna dei tre di Lotta Continua è stata
voluta
fermamente voluta dall'amatissima Procura della Repubblica di Milano, che ne ha ottenuto la condanna in primo
grado e i cui membri, anche quelli più mitizzati dalla sinistra, non hanno mai sentito bisogno di dissociarsi
dagli
sviluppi successivi del caso, compresi i più scandalosi. E si sa che la sinistra è sempre pronta,
non dico a
schierarsi, ma ad appiattirsi sulle posizioni del primo sostituto procuratore milanese che attacca il sistema politico,
e non certo in nome di una maggiore democrazia o di una giustizia più autentica, ma con l'obiettivo
dichiarato
del mantenimento dei privilegi del suo ordine e della difesa del moloc della non separazione delle
carriere. Uno sviluppo diverso del "caso Sofri", per esempio quello rappresentato da uno sciopero della fame
da parte dei
detenuti, possibilmente a oltranza, aiuterebbe molto a occultare questa contraddizione fastidiosa. Permetterebbe
di occuparsi solo di loro tre. Non costringerebbe ad avventurarsi in una critica alle sentenze che li hanno
condannati, ma darebbe modo di confrontarsi sull'opportunità, la non opportunità, la convenienza,
la non
convenienza, la liceità, la non liceità di quella forma di protesta. Permet- terebbe di sfoderare
tutto l'armamentario di suppliche, esortazioni, ricatti morali e sensazionalismi sentimentali
cari da sempre ai nostri dibattiti pubblici. E se poi, Dio non voglia, quella protesta venisse portata, come
pudicamente si dice, alle conseguenze estreme, l'ondata di ipocrita commozione che si riverserebbe sul paese,
dalle più alte cariche dello stato ai più umili cittadini (magistrati compresi, ovviamente)
risolverebbe il problema
una volta per tutte. Tutti potrebbero esaltare quanto vogliono la coerenza morale dei condannati senza smentire
la volontà di condanna dispiegatasi nei loro riguardi. Sarebbe, in un certo senso, la soluzione
ideale. Ecco perché quella non notizia circola con tanta ostinazione. Quell'ipotesi, che tanto ci
preoccupa, a qualcuno
deve piacere parecchio. Stiamoci attenti. E ricordiamo che finché non ci convinceremo tutti del fatto che
il
problema principale della giustizia è quello delle garanzie dei singoli di fronte alle istituzioni e che
è infinitamente
meglio che ci sia abbondanza di colpevoli in libertà piuttosto che un singolo innocente in galera, le nostre
proteste
suoneranno sempre drammaticamente deboli.
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