Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 244
aprile 1998


Rivista Anarchica Online

La cura, l'ascolto, il rapporto
di Giuseppe Gessa

"Camminavo, c'era vento, e tutto ad un tratto sono stato bloccato da un forte dolore, come se niente fosse, ho proprio creduto di restarci secco". Così Norbert Bensaid, nel suo Le illusioni della medicina, (Marsilio, Venezia, 1988), raffigura l'indeterminatezza con cui un paziente racconta del suo star male al medico che gli sta di fronte. Il terapeuta che si confronta con questo tipo di malato - ci spiega l'autore - deve essere in grado di gestire il proprio sapere con uno scarto differente rispetto a chi gli si avvicina mostrando una vera o presunta conoscenza della terminologia medica corrente con accurate elencazioni di sintomi e, a volte, proponendo egli stesso una diagnosi. In entrambi i casi ci troviamo di fronte, in quanto si tratta di narrazioni, quindi parziali e fatte di frammenti ( non in senso riduttivo, ma in quello di esperienze descritte mentre si vivono), a delle finzioni, attraverso le quali il paziente cerca di sistematizzare il proprio vissuto. Anche chi appare più in grado di dare un senso a ciò che gli accade, con descrizioni puntuali e particolareggiate, oltre a rappresentare il proprio stato al medico che lo ascolta, cerca di solito di ottenere certe risposte e di evitarne altre. Le nostre capacità di auto-osservazione, che devono sempre essere affinate, si giocano anche sul terreno delle nostre paure e delle nostre attese.
In tutto questo possiamo collocare, in parte, uno dei poli della relazione terapeutica, quello della persona malata. L'altro polo, quello del medico, può, in questo contesto, autorappresentarsi come sponda a questa indeterminatezza o rendersi consapevole che, anche la Medicina, come "ogni teoria, ogni scienza è, almeno in parte, una finzione. Non dice la verità. Rappresenta una elaborazione transitoria destinata a rendere coerente ed operativo quanto essa ha acquisito, fino a quel momento, di una verità che sarebbe assoluta. È insieme soluzione e problema" (Bensaid cit.).
Il ruolo della relazione tra chi cura e i pazienti nella costruzione del sapere medico è al centro delle riflessioni contenute in un volume Due per sapere, due per guarire, (Quaderni di via Dogana, Libreria delle donne, Milano, 1997, L. 10.000), curato dalla comunità scientifica di donne Ipazia (Cfr. è l'intervista su A 238 ), attraverso il racconto delle esperienze personali di mediche, donne pazienti, infermiere. L'intreccio tra la pratica narrativa e la riflessione sul sapere e sulla conoscenza consente di essere compartecipi di vissuti esistenziali intensi e di interrogarsi su come sia possibile contribuire a sottrarre la medicina a una pratica meramente autoreferenziale: "Pensare in storie potrebbe dunque rappresentare ... l'esempio di unificazione di un linguaggio mente-sentimento che la tradizione filosofico-letteraria ha spesso disgiunto e a cui il senso comune aveva addirittura attribuito due sedi diverse all'interno del nostro corpo: il cervello e il cuore (stereotipo che si perpetua ancora nelle rappresentazioni dei bambini)", e ancora "significa saper costruire nodi pertinenti e connessi a diversi livelli: connessione tra componenti della storia, connessioni tra gli attori della storia (gli individui)" (Donata Fabbri Montesano, Alberto Munari, Strategie del sapere, Dedalo, Bari, 1984).
Nella sua introduzione al volume Enrichetta Susi ci spiega come spesso una certa critica al sapere medico si concluda con la richiesta di "meno scienza" all'interno della pratica medica per salvaguardare il rapporto diretto con la persona malata. Al centro dei contributi pubblicati c'è invece la convinzione che "la relazione terapeutica sia uno snodo essenziale in cui si incontrano la ricerca scientifica e la clinica, e si gioca la possibilità per la medicina di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato". E' nel rapporto medico-paziente che avviene quindi "la mediazione tra le conoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri, e la persona particolare, con il suo corpo e la sua storia unica e irripetibile ...". La relazione terapeutica mette in gioco sia nel medico che nel paziente un intreccio sempre mobile tra conoscenza scientifica (che anche nel malato è almeno in parte presente), vissuto personale, sistemi di certezze, rappresentazioni di sé, significato che le parti attribuiscono alle variabili che possono mettere in discussione dei modi di agire consolidati. La competenza del medico non necessariamente "incombe sul paziente e produce una distanza incolmabile tra i suoi bisogni e le risposte che riceve" ed è quindi possibile pensare al rapporto con il paziente in modo diverso da una relazione eterodiretta. Uno tra gli innumerevoli tentativi di avvicinare medici ed ammalati è stato condotto sul piano della divulgazione scientifica con l'obiettivo di diffondere il sapere medico in strati sempre più ampi di popolazione. Rimane il fatto che questo sapere è ben difficilmente trasmissibile in tutta la sua complessità. Una strada percorribile potrebbe essere quella di "separare sapere e potere ed equilibrare il potere, non attraverso una illusoria divisione del sapere, ma fornendo agli utenti altri poteri" (Bensaid, cit.).
Nell'intervista fatta da Angela Alioli a Cristina Cometti, medica di base, viene evidenziata l'importanza di valorizzare il fatto che "la persona ammalata è persona informata sulla malattia, in quel momento è malattia, e quindi sa di sé cose che nessun altro sa". La competenza di chi cura è quindi quella di riconoscere - a prescindere dall'uomo o dalla donna delle medie statistiche - cosa la persona malata vuol segnalare con la descrizione di un sintomo, cercando di comprendere che comunque esso ha a che fare con il contesto più ampio in cui essa vive giorno per giorno. Medici e malati non sono gli unici personaggi in scena. Nella relazione terapeutica intervengono altri fattori: il contesto sociale con le sue pressioni di ordine economico o morale, le condizioni di lavoro del medico, la realtà economica del paziente, la sua cultura e molto altro ancora. Non si tratta solo di considerare il significato "esistenziale" di ogni malattia, ma di evitare che medico e paziente, visti come sistemi chiusi in se stessi, finiscano per concordare su soluzioni di comodo ai problemi da considerare. Le trasformazioni in corso nella sanità pubblica possono quindi diventare occasione per cercare di mettere in circolo competenze disciplinari diverse, come nel caso dei rapporti tra specialisti ospedalieri e medici generali. Il rapporto della terapeuta con un figlio con handicap insegna inoltre a non illudersi circa la possibilità di controllare ogni scostamento casuale che interviene nel proprio operare. L' incontro con pazienti che, per varie ragioni, si scostano dal modelli ideali con i quali interloquire, può essere occasione per prendere coscienza della propria incompiutezza, utilizzando il mutamento come occasione per nuove pratiche trasformatrici. Nei contributi delle infermiere, che operano all'interno di ospedali pubblici, l'intreccio tra vissuto personale, competenze professionali, limiti imposti dall'organizzazione emerge in tutta la sua complessità. Le istituzioni come l'ospedale, con rigide gerarchie sociali e codici di comportamento standardizzati, possono portare le persone a limitare l'impegno autoresponsabile, sviluppando nei confronti dei pazienti un comportamento autoritario e difensivo. Una separazione rigida degli ambiti disciplinari ed operativi può comportare che "l'elaborazione della risposta corrisponde esclusivamente ai modelli di riferimento degli operatori, i quali, vivendo la loro pratica in situazioni caratterizzate dalla rigidità dei confini degli spazi operativi, si isolano in un mondo che si configura come vero e proprio universo sociale parziale che appare limitato agli occhi di un osservatore esterno, ma illimitato dal punto di vista dei suoi abitatori" (A. Fanali, R. Lorenzini, Psicologia, terapia sistemica, complessità, in "Portolano di Psicologia", Centro di documentazione di Pistoia, 1994). La centralità della relazione con i pazienti può consentire, come viene evidenziato nel testo, a chi opera in ospedale di sfuggire a queste rigide determinazioni. Si tratta anche di "conservare e potenziare la qualità relazionale del servizio, considerandola altrettanto essenziale per le qualità di vita degli utenti quanto gli interventi clinico-terapeutici erogati" (Domenica Boaria). In relazione circolare a tutto questo rimane sempre il lavoro sul vissuto personale delle operatrici e degli operatori: "le emozioni che provo al cospetto di un paziente, siano esse di paura - fastidio - rabbia oppure di simpatia - condivisione - attrazione, sono il punto di partenza per costruire l'ascolto e la relazione con quella persona ed è il modo guida per discutere e valutare gli interventi che facciamo" (Daniela Riboli). Nel contesto di un reparto può quindi accadere che competenze disciplinari diverse (yoga, shiatsu, attività ludiche) entrino a far parte dei piani di assistenza, anche se non previsti dai mansionari che dettagliano i compiti delle diverse figure professionali. Rimane da considerare che queste variabili - legate all'ascolto dei pazienti e quindi all'incontro con le loro competenze - non sono verificabili secondo parametri statistici, spesso unico elemento considerato ai fini di determinare la qualità di una prestazione. La nascita e la crescita dei gruppi di auto-aiuto è un segno di una fruttuosa soluzione di contiguità tra le professionalità specifiche degli operatori e il sapere proprio elaborato da malati, familiari e volontari. Si tratta di un modo di operare che - anche attraverso la messa in discussione dei fondamenti conoscitivi della psichiatria - ha consentito negli ultimi vent'anni la messa in crisi di un modello manicomiale che sembrava inattaccabile. Rimane comunque da constatare che sono oggi sempre più forti i rischi di una nuova oggettivazione della sofferenza da trattare non più con l'internamento ma con un uso sempre più diffuso di psicofarmaci. Una riflessione andrebbe fatta, inoltre, su come, la consapevolezza di poter essere sottoposti a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, possa influire sul vissuto personale e sull'atteggiamento nei confronti degli operatori preposti alla cura, da parte delle persone che entrano in un rapporto terapeutico con un servizio psichiatrico.
Il quaderno di Ipazia presenta altri spunti per riflessioni che sarebbe impossibile percorrere qui in tutta la loro complessità. Nelle due diverse testimonianze di una medica e di una paziente che è anche insegnante, troviamo, ad esempio, tracce di riflessione all'interno di percorsi di scrittura autonomi: "La mia competenza è quella di ascoltare il più possibile senza pregiudizi il/la mia paziente e di prendere come dato prezioso il suo modo di ammalarsi ... non è semplice perché noi siamo cresciuti con l'idea che ciò che noi sentiamo è la verità" (Raffaella Pomposelli); "Chi insegna deve piuttosto interrogare i problemi che pone la concreta pratica didattica, e in base a questo guardare alle teorie e costruire il suo percorso essendo disponibile a modificarlo quando cambiamenti generazionali o semplicemente nuovi soggetti fanno capire che quello su cui ci si basava fino a ieri non va più bene: mete e percorsi hanno come misura l'effetto dello spostamento che si riesce a produrre (Gabriella Lazzerini)". Un libro, in conclusione di queste brevi annotazioni che ci apre nuovi sguardi sul mondo, spesso monocromatico, della malattia, consigliabile a chiunque ami rispondere alle domande con altre domande.