Rivista Anarchica Online
La cura, l'ascolto, il rapporto
di Giuseppe Gessa
"Camminavo, c'era vento, e tutto ad un tratto sono stato bloccato da un forte dolore,
come se niente fosse, ho
proprio creduto di restarci secco". Così Norbert Bensaid, nel suo Le illusioni della medicina,
(Marsilio, Venezia,
1988), raffigura l'indeterminatezza con cui un paziente racconta del suo star male al medico che gli sta di fronte.
Il terapeuta che si confronta con questo tipo di malato - ci spiega l'autore - deve essere in grado di gestire il
proprio sapere con uno scarto differente rispetto a chi gli si avvicina mostrando una vera o presunta conoscenza
della terminologia medica corrente con accurate elencazioni di sintomi e, a volte, proponendo egli stesso una
diagnosi. In entrambi i casi ci troviamo di fronte, in quanto si tratta di narrazioni, quindi parziali e fatte di
frammenti ( non in senso riduttivo, ma in quello di esperienze descritte mentre si vivono), a delle
finzioni,
attraverso le quali il paziente cerca di sistematizzare il proprio vissuto. Anche chi appare più in grado di
dare un
senso a ciò che gli accade, con descrizioni puntuali e particolareggiate, oltre a rappresentare il proprio
stato al
medico che lo ascolta, cerca di solito di ottenere certe risposte e di evitarne altre. Le nostre capacità di
auto-osservazione, che devono sempre essere affinate, si giocano anche sul terreno delle nostre paure e delle
nostre attese. In tutto questo possiamo collocare, in parte, uno dei poli della relazione terapeutica, quello della
persona malata.
L'altro polo, quello del medico, può, in questo contesto, autorappresentarsi come sponda a questa
indeterminatezza o rendersi consapevole che, anche la Medicina, come "ogni teoria, ogni scienza è,
almeno in
parte, una finzione. Non dice la verità. Rappresenta una elaborazione transitoria destinata a rendere
coerente ed
operativo quanto essa ha acquisito, fino a quel momento, di una verità che sarebbe assoluta. È
insieme soluzione
e problema" (Bensaid cit.). Il ruolo della relazione tra chi cura e i pazienti nella costruzione del sapere medico
è al centro delle riflessioni
contenute in un volume Due per sapere, due per guarire, (Quaderni di via Dogana, Libreria delle
donne, Milano,
1997, L. 10.000), curato dalla comunità scientifica di donne Ipazia (Cfr. è l'intervista su A 238
), attraverso il
racconto delle esperienze personali di mediche, donne pazienti, infermiere. L'intreccio tra la pratica narrativa e
la riflessione sul sapere e sulla conoscenza consente di essere compartecipi di vissuti esistenziali intensi e di
interrogarsi su come sia possibile contribuire a sottrarre la medicina a una pratica meramente autoreferenziale:
"Pensare in storie potrebbe dunque rappresentare ... l'esempio di unificazione di un linguaggio mente-sentimento
che la tradizione filosofico-letteraria ha spesso disgiunto e a cui il senso comune aveva addirittura attribuito due
sedi diverse all'interno del nostro corpo: il cervello e il cuore (stereotipo che si perpetua ancora nelle
rappresentazioni dei bambini)", e ancora "significa saper costruire nodi pertinenti e connessi a diversi livelli:
connessione tra componenti della storia, connessioni tra gli attori della storia (gli individui)" (Donata Fabbri
Montesano, Alberto Munari, Strategie del sapere, Dedalo, Bari, 1984). Nella sua introduzione
al volume Enrichetta Susi ci spiega come spesso una certa critica al sapere medico si
concluda con la richiesta di "meno scienza" all'interno della pratica medica per salvaguardare il rapporto diretto
con la persona malata. Al centro dei contributi pubblicati c'è invece la convinzione che "la relazione
terapeutica
sia uno snodo essenziale in cui si incontrano la ricerca scientifica e la clinica, e si gioca la possibilità per
la
medicina di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura
e quella
di chi chiede di essere curato". E' nel rapporto medico-paziente che avviene quindi "la mediazione tra le
conoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri, e la persona particolare, con il suo corpo e la sua storia unica
e irripetibile ...". La relazione terapeutica mette in gioco sia nel medico che nel paziente un intreccio sempre
mobile tra conoscenza scientifica (che anche nel malato è almeno in parte presente), vissuto personale,
sistemi
di certezze, rappresentazioni di sé, significato che le parti attribuiscono alle variabili che possono mettere
in
discussione dei modi di agire consolidati. La competenza del medico non necessariamente "incombe sul paziente
e produce una distanza incolmabile tra i suoi bisogni e le risposte che riceve" ed è quindi possibile pensare
al
rapporto con il paziente in modo diverso da una relazione eterodiretta. Uno tra gli innumerevoli tentativi di
avvicinare medici ed ammalati è stato condotto sul piano della divulgazione scientifica con l'obiettivo
di
diffondere il sapere medico in strati sempre più ampi di popolazione. Rimane il fatto che questo sapere
è ben
difficilmente trasmissibile in tutta la sua complessità. Una strada percorribile potrebbe essere quella di
"separare
sapere e potere ed equilibrare il potere, non attraverso una illusoria divisione del sapere, ma fornendo agli utenti
altri poteri" (Bensaid, cit.). Nell'intervista fatta da Angela Alioli a Cristina Cometti, medica di base, viene
evidenziata l'importanza di
valorizzare il fatto che "la persona ammalata è persona informata sulla malattia, in quel momento
è malattia, e
quindi sa di sé cose che nessun altro sa". La competenza di chi cura è quindi quella di riconoscere
- a prescindere
dall'uomo o dalla donna delle medie statistiche - cosa la persona malata vuol segnalare con la descrizione di un
sintomo, cercando di comprendere che comunque esso ha a che fare con il contesto più ampio in cui essa
vive
giorno per giorno. Medici e malati non sono gli unici personaggi in scena. Nella relazione terapeutica
intervengono altri fattori: il contesto sociale con le sue pressioni di ordine economico o morale, le condizioni di
lavoro del medico, la realtà economica del paziente, la sua cultura e molto altro ancora. Non si tratta solo
di
considerare il significato "esistenziale" di ogni malattia, ma di evitare che medico e paziente, visti come sistemi
chiusi in se stessi, finiscano per concordare su soluzioni di comodo ai problemi da considerare. Le trasformazioni
in corso nella sanità pubblica possono quindi diventare occasione per cercare di mettere in circolo
competenze
disciplinari diverse, come nel caso dei rapporti tra specialisti ospedalieri e medici generali. Il rapporto della
terapeuta con un figlio con handicap insegna inoltre a non illudersi circa la possibilità di controllare ogni
scostamento casuale che interviene nel proprio operare. L' incontro con pazienti che, per varie ragioni, si scostano
dal modelli ideali con i quali interloquire, può essere occasione per prendere coscienza della propria
incompiutezza, utilizzando il mutamento come occasione per nuove pratiche trasformatrici. Nei contributi delle
infermiere, che operano all'interno di ospedali pubblici, l'intreccio tra vissuto personale, competenze
professionali, limiti imposti dall'organizzazione emerge in tutta la sua complessità. Le istituzioni come
l'ospedale,
con rigide gerarchie sociali e codici di comportamento standardizzati, possono portare le persone a limitare
l'impegno autoresponsabile, sviluppando nei confronti dei pazienti un comportamento autoritario e difensivo. Una
separazione rigida degli ambiti disciplinari ed operativi può comportare che "l'elaborazione della risposta
corrisponde esclusivamente ai modelli di riferimento degli operatori, i quali, vivendo la loro pratica in situazioni
caratterizzate dalla rigidità dei confini degli spazi operativi, si isolano in un mondo che si configura come
vero
e proprio universo sociale parziale che appare limitato agli occhi di un osservatore esterno, ma illimitato dal punto
di vista dei suoi abitatori" (A. Fanali, R. Lorenzini, Psicologia, terapia sistemica,
complessità, in "Portolano di
Psicologia", Centro di documentazione di Pistoia, 1994). La centralità della relazione con i pazienti
può
consentire, come viene evidenziato nel testo, a chi opera in ospedale di sfuggire a queste rigide determinazioni.
Si tratta anche di "conservare e potenziare la qualità relazionale del servizio, considerandola altrettanto
essenziale
per le qualità di vita degli utenti quanto gli interventi clinico-terapeutici erogati" (Domenica Boaria). In
relazione
circolare a tutto questo rimane sempre il lavoro sul vissuto personale delle operatrici e degli operatori: "le
emozioni che provo al cospetto di un paziente, siano esse di paura - fastidio - rabbia oppure di simpatia -
condivisione - attrazione, sono il punto di partenza per costruire l'ascolto e la relazione con quella persona ed
è
il modo guida per discutere e valutare gli interventi che facciamo" (Daniela Riboli). Nel contesto di un reparto
può quindi accadere che competenze disciplinari diverse (yoga, shiatsu, attività ludiche) entrino
a far parte dei
piani di assistenza, anche se non previsti dai mansionari che dettagliano i compiti delle diverse figure
professionali. Rimane da considerare che queste variabili - legate all'ascolto dei pazienti e quindi all'incontro con
le loro competenze - non sono verificabili secondo parametri statistici, spesso unico elemento considerato ai fini
di determinare la qualità di una prestazione. La nascita e la crescita dei gruppi di auto-aiuto è un
segno di una
fruttuosa soluzione di contiguità tra le professionalità specifiche degli operatori e il sapere proprio
elaborato da
malati, familiari e volontari. Si tratta di un modo di operare che - anche attraverso la messa in discussione dei
fondamenti conoscitivi della psichiatria - ha consentito negli ultimi vent'anni la messa in crisi di un modello
manicomiale che sembrava inattaccabile. Rimane comunque da constatare che sono oggi sempre più forti
i rischi
di una nuova oggettivazione della sofferenza da trattare non più con l'internamento ma con un uso sempre
più
diffuso di psicofarmaci. Una riflessione andrebbe fatta, inoltre, su come, la consapevolezza di poter essere
sottoposti a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, possa influire sul vissuto personale e sull'atteggiamento nei
confronti degli operatori preposti alla cura, da parte delle persone che entrano in un rapporto terapeutico con un
servizio psichiatrico. Il quaderno di Ipazia presenta altri spunti per riflessioni che sarebbe impossibile
percorrere qui in tutta la loro
complessità. Nelle due diverse testimonianze di una medica e di una paziente che è anche
insegnante, troviamo,
ad esempio, tracce di riflessione all'interno di percorsi di scrittura autonomi: "La mia competenza è quella
di
ascoltare il più possibile senza pregiudizi il/la mia paziente e di prendere come dato prezioso il suo modo
di
ammalarsi ... non è semplice perché noi siamo cresciuti con l'idea che ciò che noi
sentiamo è la verità" (Raffaella
Pomposelli); "Chi insegna deve piuttosto interrogare i problemi che pone la concreta pratica didattica, e in base
a questo guardare alle teorie e costruire il suo percorso essendo disponibile a modificarlo quando cambiamenti
generazionali o semplicemente nuovi soggetti fanno capire che quello su cui ci si basava fino a ieri non va
più
bene: mete e percorsi hanno come misura l'effetto dello spostamento che si riesce a produrre (Gabriella
Lazzerini)". Un libro, in conclusione di queste brevi annotazioni che ci apre nuovi sguardi sul mondo, spesso
monocromatico, della malattia, consigliabile a chiunque ami rispondere alle domande con altre domande.
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