Rivista Anarchica Online
Allah e petrolio
La Redazione
Al momento in cui scriviamo, le sorti della quarta guerra mediorientale
sembrano quantomai incerte, sul
fronte del canale di Suez come su quello delle alture di Golan. Già questo dato, a quasi due
settimane
dall'inizio delle ostilità aperte, differenzia in modo sostanziale questa guerra dalla precedente,
che si
risolse in soli sei giorni (4-9 giugno 1967) con la conquista da parte delle truppe di Dayan dell'intera
penisola del Sinai (sottratta all'Egitto), della Transgiordania (sottratta alla Giordania) e di parte delle
alture del Golan (sottratte alla Siria). Allora fu Israele ad attaccare e la preventiva distruzione a terra
di tutta l'aviazione egiziana rese
l'attraversamento e la conquista della penisola del Sinai poco più di una passeggiata. La vittoria
nella
blitzkrieg del 1967 sembrò a tutti la prova dell'invincibilità
delle armate israeliane, equipaggiate d'armi
occidentali (carri armati americani, aerei francesi, ecc.) e guidate dal monocolo generale Dayan, simbolo
intoccabile dell'unità nazionale. Nel contempo, la clamorosa disfatta totale dell'esercito egiziano,
cioè
dei soldati del paese-guida del mondo arabo (come veniva allora considerato l'Egitto di Nasser),
rappresentò una vera doccia fredda per le autorità di tutti i paesi arabi, preoccupate sia
della crescente
potenza israeliana, sia delle pericolose ripercussioni interne ai loro stati, dopo una sconfitta come quella,
che non ammetteva scuse e giustificazioni di sorta. Da allora, però, varie cose sono cambiate.
Innanzitutto la morte di Nasser ha privato l'Egitto di un uomo-mito che influenzava profondamente la
maggior parte dei paesi arabi, e garantiva con il suo prestigio quello (in realtà ben scarso agli
occhi di
tutti) della "causa araba". Il suo successore Sadat, figura ben più scialba, ha cercato di
proseguire la
politica di Nasser, nel tentativo di sfruttare l'alleanza sovietica senza farsene troppo condizionare,
continuando a strizzare ogni tanto l'occhio agli Stati Uniti, al di là delle solite violente
dichiarazioni di...
lotta contro l'imperialismo. Ma i gravi problemi interni di questi ultimi due-tre anni hanno assorbito
molto l'attenzione e le energie dei governanti del Cairo, impegnati a reprimere violente manifestazioni
studentesche e operaie (come quelle ad Alessandria e a Helouan) che spesso sfociavano in vera e propria
lotta aperta contro il governo. Contemporanea a questo (almeno momentaneo) ripiegamento
dell'Egitto vi è stata la rapida ascesa, nel
mondo arabo ed anche in quello internazionale, della stella di Gheddafi, il nuovo
leader arabo espresso
dal colpo di stato dei colonnelli in Libia nel 1969. Il suo accesissimo nazionalismo, misto a fanatismo
religioso, a roboanti dichiarazioni di odio anticapitalista, anticomunista e antisionista, la sua decisione
di nazionalizzare l'industria estrattiva del petrolio (che costituisce l'unica immensa fonte di potenziale
ricchezza per la Libia), e soprattutto il suo spirito panarabo lo hanno portato alla ribalta come il possibile
successore di Nasser alla guida della riscossa araba. La complessa trama diplomatica di questi anni,
imperniata soprattutto sui delicati rapporti fra Mosca e
le capitali arabe, se potesse essere chiarita in ogni suo aspetto mostrerebbe il continuo intrecciarsi di
incontri al vertice, di forniture militari contrattate con rettificazioni di linea politica, di formali
dichiarazioni di solidarietà completamente false. In questo contesto, Mosca ha avuto certamente
buon
gioco ed è risultata la vera vincitrice di questi conflitti mediorientali: basti pensare al fatto che
fino ad
un quarto di secolo fa il Medioriente era una tradizionale zona di influenza anglo-francese, e che le
successive manovre americane per diventare un protagonista in questo importante scacchiere sono state
in buona parte vanificate dalla crescente influenza dell'Unione Sovietica, che può oggi contare
su
importanti (anche se non troppo solidi) appoggi in molti stati arabi. Come l'Egitto e la Libia (che
recentemente hanno stipulato uno stretto accordo in vista della totale
fusione), anche la Siria non può assolutamente prescindere dai voleri di Mosca: quantomeno,
ne
fortemente condizionata. I governi di Tripoli, del Cairo e di Damasco, tutti e tre significativamente
derivati da tre colpi di stato militari "di sinistra", possono essere considerati - o almeno,
vogliono essere
considerati progressisti: questo termine assume significato solo in
contrapposizione alla qualifica di
moderati affibbiata ai governi della Giordania, dell'Arabia Saudita, del Libano e di quegli
altri stati arabi
allineati con gli interessi del governo di Washington. Anche questo allineamento, così come
quello dei
governi arabi progressisti con Mosca, presenta però le sue incognite
ed i suoi punti oscuri, come
testimonia la recente minaccia di re Feisal d'Arabia agli Stati Muniti di interrompere le forniture di
petrolio alle sue compagnie. Il fronte arabo, esaminato qui a grandissime linee, non regge dunque
ad uno sguardo attento, e si
frantuma in una serie di schieramenti, perlopiù temporanei ed instabili, fra alcuni stati arabi
contro altri.
La lotta contro Israele viene portata avanti come tentativo di unificare su di un obiettivo determinato
differenti forze arabe, risvegliando i barbari istinti della sacra guerra agli infedeli, cercando così
di
mettere a tacere le sempre più consistenti agitazioni e cause di malessere che travagliano il
mondo arabo.
Ma nemmeno le comuni dichiarazioni di lotta antisionista riescono a metter per un po' d'accordo re
Feisal, Hussein, Sadat, Assad e gli altri. Si consideri, per esempio, l'atteggiamento di Gheddafi di fronte
all'attuale guerra, ancora in corso: a chiacchiere il leader libico si è
detto e si dice solidale al cento per
cento con l'Egitto - al quale, come già abbiamo ricordato, è legato da speciali vincoli
- ed auspica la sua
vittoria, dall'altro ha tutto l'interesse a che Sadat subisca una sonora batosta dalle truppe israeliane, in
modo da vederne diminuito il prestigio: il vero obiettivo del fanatico dittatore libico (che, sia detto per
inciso, ha dichiarato guerra "santa" anche contro minigonne, capelloni e infedeli) pare essere unicamente
quello di assumere la leadership dell'intero mondo islamico. Dall'altra
parte del fronte, c'è lo stato d'Israele. Questa volta i suoi famosissimi servizi segreti non hanno
funzionato, e l'attacco congiunto siro-egiziano pare aver colto di sorpresa Dayan ed i suoi generali.
Israele è in una difficile situazione, per la prima volta dalla sua fondazione, e mentre gli stati
arabi hanno
alle spalle l'appoggio di tutto il terzo mondo e dei paesi a regime bolscevico, Gerusalemme non
ha
ufficialmente nessuno stato alleato. In realtà Israele può contare sul
continuo sostanzioso aiuto che gli
proviene dalle comunità ebraiche sparse un po' ovunque nel mondo, ed in particolare di quelle
fortissime
e ricchissime degli Stati Uniti (così forti e così ricche da condizionare la politica della
Casa Bianca).
Inoltre, per la sua posizione-chiave in uno scacchiere così delicato ed importante come quello
mediorientale, lo stato di Israele è di fatto inserito pienamente nelle trame politico-diplomatico
che
partono da Washington e da Mosca, ed anche da tante altre capitali (non esclusa Roma). Al di
là dei soliti slogans "Israele, paese di scampati ai lager nazisti", o di converso "Israele,
avamposto
dell'imperialismo americano nel Medioriente", dobbiamo cercare di comprendere la particolare
realtà di
questo stato, filtrando la verità tra le maglie della propaganda. Sia i fautori sia i detrattori del
regime di
Gerusalemme considerano lo stato di Israele come un tutt'unico, come se non ci fosse al suo interno
nessuna forma di conflitto di classe, come se tutto il popolo fosse idillicamente unito attorno al suo
amato governo. È certo innegabile che particolari condizioni storiche (duemila anni di diaspora
e di
persecuzioni) e geografiche (l'essere isolato e circondato da paesi ostili) favoriscono la propaganda di
regime, che punta su fattori politico-emotivi ("stiamo uniti se no ci fanno fuori") per ridurre al minimo
la tensione interna. Ma, al di là di questo dato di fatto, vi è la realtà dello
sfruttamento da parte della
classe dirigente, di consistenti masse di arabi (soprattutto palestinesi); inoltre, gli stessi contrasti
all'interno della popolazione ebraica spesso non sono riconducibili a semplici problemi di
nazionalità
diversa o di "adattamento" ad un diverso modo di vita, essendo innegabilmente frutto di gravi squilibri
di classe. Il continuo status di guerra guerreggiata, ed a volte - come in questi giorni - di guerra
aperta, che
caratterizza da decenni lo scacchiere mediorientale, ha finora impedito che una chiara prospettiva
internazionalista, laica, socialista libertaria si facesse e si faccia strada. La scena è dominata dal
rombo
lugubre dei cannoni, dai cinici trabocchetti della diplomazia, dagli interessi (strategici e petroliferi) delle
grandi potenze. Neppure dall'esperienza delle collettività socialiste israeliane dei primi tempi (i
kibbutzin)
è derivato qualcosa di buono: ormai i kibbutzin altro non sono che ingranaggi della macchina
economica
dello stato di Israele, e spesso sono ridotti a fungere da avamposti militari. Un ultimo sguardo va
dato alla questione palestinese, che troppi hanno sempre strumentalizzato, che
nessuno ha avuto interesse a risolvere. Le stesse organizzazioni della guerriglia palestinese, a cominciare
da Al Fath, altro non sono che espressioni allo stato nascente della classe
dirigente palestinese, una
classe dirigente alla ricerca di un territorio (il "suo") sul quale instaurare il "suo" stato, il "suo"
dominio. La guerra, ancora una volta, privilegia gli stati, colpisce i popoli. Accanto all'immagine
del soldato
israeliano e arabo caduto nel deserto per una guerra che - come ogni guerra - non può essere
la sua, si
può porre l'immagine di folle osannanti a Dayan o a Sadat. Entrambe queste immagini
testimoniano della
tragedia della guerra che, oltre ad uccidere migliaia e migliaia di uomini, allontana sempre più
la presa
di coscienza rivoluzionaria da parte degli sfruttati di tutti i Paesi coinvolti nel conflitto.
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