Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 3 nr. 24
ottobre 1973


Rivista Anarchica Online

Allah e petrolio
La Redazione

Al momento in cui scriviamo, le sorti della quarta guerra mediorientale sembrano quantomai incerte, sul fronte del canale di Suez come su quello delle alture di Golan. Già questo dato, a quasi due settimane dall'inizio delle ostilità aperte, differenzia in modo sostanziale questa guerra dalla precedente, che si risolse in soli sei giorni (4-9 giugno 1967) con la conquista da parte delle truppe di Dayan dell'intera penisola del Sinai (sottratta all'Egitto), della Transgiordania (sottratta alla Giordania) e di parte delle alture del Golan (sottratte alla Siria).
Allora fu Israele ad attaccare e la preventiva distruzione a terra di tutta l'aviazione egiziana rese l'attraversamento e la conquista della penisola del Sinai poco più di una passeggiata. La vittoria nella blitzkrieg del 1967 sembrò a tutti la prova dell'invincibilità delle armate israeliane, equipaggiate d'armi occidentali (carri armati americani, aerei francesi, ecc.) e guidate dal monocolo generale Dayan, simbolo intoccabile dell'unità nazionale. Nel contempo, la clamorosa disfatta totale dell'esercito egiziano, cioè dei soldati del paese-guida del mondo arabo (come veniva allora considerato l'Egitto di Nasser), rappresentò una vera doccia fredda per le autorità di tutti i paesi arabi, preoccupate sia della crescente potenza israeliana, sia delle pericolose ripercussioni interne ai loro stati, dopo una sconfitta come quella, che non ammetteva scuse e giustificazioni di sorta. Da allora, però, varie cose sono cambiate. Innanzitutto la morte di Nasser ha privato l'Egitto di un uomo-mito che influenzava profondamente la maggior parte dei paesi arabi, e garantiva con il suo prestigio quello (in realtà ben scarso agli occhi di tutti) della "causa araba". Il suo successore Sadat, figura ben più scialba, ha cercato di proseguire la politica di Nasser, nel tentativo di sfruttare l'alleanza sovietica senza farsene troppo condizionare, continuando a strizzare ogni tanto l'occhio agli Stati Uniti, al di là delle solite violente dichiarazioni di... lotta contro l'imperialismo. Ma i gravi problemi interni di questi ultimi due-tre anni hanno assorbito molto l'attenzione e le energie dei governanti del Cairo, impegnati a reprimere violente manifestazioni studentesche e operaie (come quelle ad Alessandria e a Helouan) che spesso sfociavano in vera e propria lotta aperta contro il governo.
Contemporanea a questo (almeno momentaneo) ripiegamento dell'Egitto vi è stata la rapida ascesa, nel mondo arabo ed anche in quello internazionale, della stella di Gheddafi, il nuovo leader arabo espresso dal colpo di stato dei colonnelli in Libia nel 1969. Il suo accesissimo nazionalismo, misto a fanatismo religioso, a roboanti dichiarazioni di odio anticapitalista, anticomunista e antisionista, la sua decisione di nazionalizzare l'industria estrattiva del petrolio (che costituisce l'unica immensa fonte di potenziale ricchezza per la Libia), e soprattutto il suo spirito panarabo lo hanno portato alla ribalta come il possibile successore di Nasser alla guida della riscossa araba.
La complessa trama diplomatica di questi anni, imperniata soprattutto sui delicati rapporti fra Mosca e le capitali arabe, se potesse essere chiarita in ogni suo aspetto mostrerebbe il continuo intrecciarsi di incontri al vertice, di forniture militari contrattate con rettificazioni di linea politica, di formali dichiarazioni di solidarietà completamente false. In questo contesto, Mosca ha avuto certamente buon gioco ed è risultata la vera vincitrice di questi conflitti mediorientali: basti pensare al fatto che fino ad un quarto di secolo fa il Medioriente era una tradizionale zona di influenza anglo-francese, e che le successive manovre americane per diventare un protagonista in questo importante scacchiere sono state in buona parte vanificate dalla crescente influenza dell'Unione Sovietica, che può oggi contare su importanti (anche se non troppo solidi) appoggi in molti stati arabi.
Come l'Egitto e la Libia (che recentemente hanno stipulato uno stretto accordo in vista della totale fusione), anche la Siria non può assolutamente prescindere dai voleri di Mosca: quantomeno, ne fortemente condizionata. I governi di Tripoli, del Cairo e di Damasco, tutti e tre significativamente derivati da tre colpi di stato militari "di sinistra", possono essere considerati - o almeno, vogliono essere considerati progressisti: questo termine assume significato solo in contrapposizione alla qualifica di moderati affibbiata ai governi della Giordania, dell'Arabia Saudita, del Libano e di quegli altri stati arabi allineati con gli interessi del governo di Washington. Anche questo allineamento, così come quello dei governi arabi progressisti con Mosca, presenta però le sue incognite ed i suoi punti oscuri, come testimonia la recente minaccia di re Feisal d'Arabia agli Stati Muniti di interrompere le forniture di petrolio alle sue compagnie.
Il fronte arabo, esaminato qui a grandissime linee, non regge dunque ad uno sguardo attento, e si frantuma in una serie di schieramenti, perlopiù temporanei ed instabili, fra alcuni stati arabi contro altri. La lotta contro Israele viene portata avanti come tentativo di unificare su di un obiettivo determinato differenti forze arabe, risvegliando i barbari istinti della sacra guerra agli infedeli, cercando così di mettere a tacere le sempre più consistenti agitazioni e cause di malessere che travagliano il mondo arabo. Ma nemmeno le comuni dichiarazioni di lotta antisionista riescono a metter per un po' d'accordo re Feisal, Hussein, Sadat, Assad e gli altri. Si consideri, per esempio, l'atteggiamento di Gheddafi di fronte all'attuale guerra, ancora in corso: a chiacchiere il leader libico si è detto e si dice solidale al cento per cento con l'Egitto - al quale, come già abbiamo ricordato, è legato da speciali vincoli - ed auspica la sua vittoria, dall'altro ha tutto l'interesse a che Sadat subisca una sonora batosta dalle truppe israeliane, in modo da vederne diminuito il prestigio: il vero obiettivo del fanatico dittatore libico (che, sia detto per inciso, ha dichiarato guerra "santa" anche contro minigonne, capelloni e infedeli) pare essere unicamente quello di assumere la leadership dell'intero mondo islamico.
Dall'altra parte del fronte, c'è lo stato d'Israele. Questa volta i suoi famosissimi servizi segreti non hanno funzionato, e l'attacco congiunto siro-egiziano pare aver colto di sorpresa Dayan ed i suoi generali. Israele è in una difficile situazione, per la prima volta dalla sua fondazione, e mentre gli stati arabi hanno alle spalle l'appoggio di tutto il terzo mondo e dei paesi a regime bolscevico, Gerusalemme non ha ufficialmente nessuno stato alleato. In realtà Israele può contare sul continuo sostanzioso aiuto che gli proviene dalle comunità ebraiche sparse un po' ovunque nel mondo, ed in particolare di quelle fortissime e ricchissime degli Stati Uniti (così forti e così ricche da condizionare la politica della Casa Bianca). Inoltre, per la sua posizione-chiave in uno scacchiere così delicato ed importante come quello mediorientale, lo stato di Israele è di fatto inserito pienamente nelle trame politico-diplomatico che partono da Washington e da Mosca, ed anche da tante altre capitali (non esclusa Roma).
Al di là dei soliti slogans "Israele, paese di scampati ai lager nazisti", o di converso "Israele, avamposto dell'imperialismo americano nel Medioriente", dobbiamo cercare di comprendere la particolare realtà di questo stato, filtrando la verità tra le maglie della propaganda. Sia i fautori sia i detrattori del regime di Gerusalemme considerano lo stato di Israele come un tutt'unico, come se non ci fosse al suo interno nessuna forma di conflitto di classe, come se tutto il popolo fosse idillicamente unito attorno al suo amato governo. È certo innegabile che particolari condizioni storiche (duemila anni di diaspora e di persecuzioni) e geografiche (l'essere isolato e circondato da paesi ostili) favoriscono la propaganda di regime, che punta su fattori politico-emotivi ("stiamo uniti se no ci fanno fuori") per ridurre al minimo la tensione interna. Ma, al di là di questo dato di fatto, vi è la realtà dello sfruttamento da parte della classe dirigente, di consistenti masse di arabi (soprattutto palestinesi); inoltre, gli stessi contrasti all'interno della popolazione ebraica spesso non sono riconducibili a semplici problemi di nazionalità diversa o di "adattamento" ad un diverso modo di vita, essendo innegabilmente frutto di gravi squilibri di classe.
Il continuo status di guerra guerreggiata, ed a volte - come in questi giorni - di guerra aperta, che caratterizza da decenni lo scacchiere mediorientale, ha finora impedito che una chiara prospettiva internazionalista, laica, socialista libertaria si facesse e si faccia strada. La scena è dominata dal rombo lugubre dei cannoni, dai cinici trabocchetti della diplomazia, dagli interessi (strategici e petroliferi) delle grandi potenze. Neppure dall'esperienza delle collettività socialiste israeliane dei primi tempi (i kibbutzin) è derivato qualcosa di buono: ormai i kibbutzin altro non sono che ingranaggi della macchina economica dello stato di Israele, e spesso sono ridotti a fungere da avamposti militari.
Un ultimo sguardo va dato alla questione palestinese, che troppi hanno sempre strumentalizzato, che nessuno ha avuto interesse a risolvere. Le stesse organizzazioni della guerriglia palestinese, a cominciare da Al Fath, altro non sono che espressioni allo stato nascente della classe dirigente palestinese, una classe dirigente alla ricerca di un territorio (il "suo") sul quale instaurare il "suo" stato, il "suo" dominio.
La guerra, ancora una volta, privilegia gli stati, colpisce i popoli. Accanto all'immagine del soldato israeliano e arabo caduto nel deserto per una guerra che - come ogni guerra - non può essere la sua, si può porre l'immagine di folle osannanti a Dayan o a Sadat. Entrambe queste immagini testimoniano della tragedia della guerra che, oltre ad uccidere migliaia e migliaia di uomini, allontana sempre più la presa di coscienza rivoluzionaria da parte degli sfruttati di tutti i Paesi coinvolti nel conflitto.