Rivista Anarchica Online
Tra Maastricht e Tirana
di Maria Matteo
Sfegatati europeisti quando si tratta di smantellare il sistema di garanzie sociali, i nostri governanti se ne
dimenticano quando...
Entreremo in Europa? L'Italia ha i requisiti per essere nel novero delle nazioni che
ce la faranno a rispettare le
condizioni cui ciascun paese dell'Unione europea deve sottostare per essere tra quelli che accederanno da subito
alla moneta unica? Il trattato di Maastricht ha stabilito modalità e tempi che probabilmente solo alcuni
paesi
dell'Unione europea riusciranno a rispettare: l'Italia sarà tra questi? Questo quesito ha attraversato il
recente
dibattito politico ed ha visto scendere in campo gli "esperti" delle diverse fazioni, che si sono fronteggiati nella
consueta schermaglia tra ottimisti e pessimisti, ossia tra il governo e le sue opposizioni. Il significato di
questo ormai trito bailamme intorno alla "necessità" di raggiungere in tempo il limite fissato dai
parametri di Maastricht dovrebbe essere ormai chiaro per tutti. Ciascuno di noi sa esattamente, poiché lo
esperisce
sulla propria pelle, cosa in termini concreti voglia dire entrare in Europa, sostituire le poche lire nel portafoglio
con presumibilmente altrettanto pochi euro. Entrare in Europa comporta in primo luogo un drastico
ridimensionamento dei servizi pubblici: lo sa bene chiunque abbia la necessità di andare in ospedale, fare
una
visita specialistica, mandare i figli a scuola, desideri iscriversi all'università o voglia semplicemente
prendere un
treno o un autobus. Tuttavia questa faccenda dell'entrare in Europa è dai più intesa come evento
positivo,
prospettiva di benessere, certezza che lo spettro della povertà è lontano, ben al di là dello
stretto braccio di mare
che separa le sponde della nostra penisola dall'Albania. Un paese in cui turbe di straccioni si sono rivoltate
perché
troppo dolorosamente e bruscamente hanno visto infrangersi il loro labile sogno di benessere. Diventare europei,
rientrare tra i paesi di serie A, assume oltre che una valenza materiale anche un significato simbolico di
rafforzarnento dell'identità nazionale. Farcela e, soprattutto farcela in tempo, significa che le immagini
di povertà
e violenza che vediamo scorrerci davanti negli schermi televisivi appartengono sino in tondo ad un altro mondo,
il mondo degli sconfitti e dei perdenti. Ho visto in TV i manifestanti di Valona urlare slogan in italiano agitando
le braccia verso la telecamera: i gesti e le parole parevano quelli dei nostrani ultras del calcio, tuttavia ben
più
tragica e dolorosa era la posta in gioco della partita che in quei giorni si stava preparando. Terrificante era
il pensiero che in tempi che paiono poco propensi a inventare e promuovere utopie, per la maggior
parte della gente che nelle strade d'Albania si scontrava con disperata ferocia con la polizia, l'Italia rappresentasse
l'orizzonte insieme vicino e lontano cui guardare per immaginare un futuro migliore. Mi è più
volte in questi
giorni sovvenuta una scena del bel film di Amelio "Lamerica": vi era tratteggiata la figura di un giovane albanese
il cui maggior desiderio era andare in Italia, sposare una ragazza italiana e avere figli italiani che ignorassero
l'origine albanese del padre. Merita peraltro di essere sottolineato l'atteggiamento assunto dai nostri probi
governanti che, di fronte ai primi
segnali d'inasprimento della crisi albanese, da un lato non hanno mancato di elargire paterni inviti alla
moderazione ai colleghi di Tirana, dall'altro si sono affrettati a rafforzare i controlli sulle coste pugliesi, a spedire
un paio di elicotteri militari per prelevare alcuni cittadini italiani ed europei, nonché a dichiarare la propria
pronta
disponibilità ad intervenire militarmente. Quando queste mie note saranno stampate probabilmente la
situazione
albanese sarà mutata, tuttavia, sia che la rivolta di Valona venga soffocata nel sangue, sia che emergano
soluzioni
diverse, nondimeno resta il dato importante che l'Albania rappresenta oggi più che mai uno spettro da
tenere
fisicamente lontano, nonché il terreno concreto per le mai sopite aspirazioni coloniali dei governanti della
nostra
allegra penisola. Che le poltrone del governo siano occupate oggi dall'Ulivo, ieri dal Polo, domani da un
governissimo di supercentro è un dato che, non mi stanco di ripeterlo, diviene sempre più
irrilevante. Nell'America degli albanesi tuttavia non è tutto oro quello che luccica, come avranno
avuto modo di notare non
solo coloro che sono riusciti a raggiungerne le amate sponde ma anche chi si è accorto che proprio nei
giorni in
cui i riflettori dei media erano puntati oltre lo stretto di Otranto, a Napoli i disoccupati decidevano di imitare gli
albanesi dando vita a manifestazioni molto dure, con tanto di scontri violenti con la polizia e distruzione ed
incendio di autobus. Interessante notare che in questo caso il governo, nella persona dell'ineffabile ministro
dell'interno Napolitano, si è mostrato assai poco propenso alla moderazione di fronte all'esplodere della
rabbia
dei disoccupati, poco disponibili a comprendere che un'Italia europea doveva contemperare anche una robusta
quota di disoccupazione endemica. I "lavori socialmente utili", formula con la quale si designa in Italia la sussidio
di disoccupazione, appartengono ormai al congruo numero di rami secchi che occorre tagliare per ottenere quella
riduzione del debito pubblico senza il quale l'Italia non entrerà in Europa. D'altra parte il fatto che in
questi anni
il miraggio dell'Europa si sia tradotto in un serio peggioramento delle condizioni di vita dei ceti più bassi
è storia
ormai nota ai più. Meno nota ma non per questo meno interessante è invece la propensione
dei nostri governanti a divenire assai
meno europeisti quando viene loro richiesto di adeguare le normative nazionali ai criteri indicati dal parlamento
europeo in materia di salute pubblica e di sicurezza sui luoghi di lavoro. Il decreto legislativo 626, di recente
promulgato allo scopo di adeguare alle indicazioni dell'Unione Europea la normativa italiana su tali questioni ne
è forse la più efficace dimostrazione. Tale decreto da molti accolto come efficace strumento ai
fini della
prevenzione degli infortuni e delle malattie da lavoro, lungi dal cancellare le "disgrazie", pare destinato a far si
che tutto cambi perché tutto resti come prima. Un attento esame della 626, specie tenendo conto delle
modifiche apportate al pacchetto originale, rivela che la
principale preoccupazione dei nostri legislatori non e stata tanto il reale miglioramento della prevenzione degli
infortuni e delle malattie da lavoro, quanto la riduzione dei costi che ciò comporta per le aziende. Se
l'obbligo
per il datore di lavoro di fornire una precisa e documentata certificazione delle misure di sicurezza adottate, viene
sostituito con una semplice autocertificazione per le aziende con meno di dieci addetti, risulta del tutto evidente
che il 626 non è per la maggioranza dei lavoratori che un'operazione estetica, destinata a non avere alcun
peso
ai fini della riduzione del massacro che quotidianamente e silenziosamente si consuma a loro danno. Se a
ciò si aggiunge che in molte regioni italiane i servizi di prevenzione primaria non sono mai stati istituiti
il
quadro diventa completo e dimostra che l'Italia che si accinge ad "entrare in Europa" non è certo quella
di coloro
che ogni anno muoiono, si infortunano gravemente o si ammalano per la mancata individuazione e rimozione dei
rischi da lavoro. Del tutto analoga è la situazione in tema di prevenzione ambientale, ove le cose
vanno, se è possibile anche
peggio. Val la pena di ricordare che in regioni come il Piemonte e la Liguria il numero di morti per
esposizione
all'amianto è, a detta dei ricercatori dell'ENEA e dell'Istituto Superiore di Sanità, superiore del
1O,5 per cento
alle previsioni. Il dato è impressionante specie se si pensa che, nonostante oggi la lavorazione dell'amianto
sia
cessata, sono migliaia le persone che continuano ad ammalarsi di mesotelioma pleurico, una forma peraltro rara
di tumore che colpisce chi è stato esposto all'amianto. É possibile ammalarsi anche molti anni
dopo aver respirato
la polvere di amianto: rischiano la morte non solo i lavoratori ma anche chi abita nei pressi degli impianti nocivi.
Già da novant'anni si conoscono gli effetti devastanti dell'esposizione all'amianto: ad allora infatti
risalgono i
primi processi per alcune morti di lavoratori. Tuttavia poco o nulla è stato fatto per la bonifica dei siti
pericolosi
o anche semplicemente per la loro individuazione. Diecimila erano in Italia le aziende in cui veniva impiegato
l'amianto e nella maggior parte non è mai stata fatta alcuna bonifica. Inoltre gli svariati impieghi
dell'amianto
fanno si che lo si trovi anche negli impianti ferroviari, nei vagoni, in grandi magazzini, nelle scuole, in molte
normali case, negli ospedali, persino nella ghiaia dell'Azienda Municipale di Trasporti di Torino. Chissà
se chi
oggi sta morendo di tumore da amianto si sente cittadino europeo. Chissà se i parenti dei morti per
amianto, quando lottano per anni per ottenere un risarcimento che non per tutti
arriva, si sentono cittadini europei. Chissà se il prossimo muratore che cadrà da
un'impalcatura poco sicura si sentirà cittadino europeo. Chissà se gli abitanti dei piccoli centri
in cui vengono chiusi ospedali e scuole si sentono cittadini europei. Chissà
a quanti di noi capita qualche mattina di sentirsi un po' albanesi.
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