Rivista Anarchica Online
Un film e la storia
Cari compagni, ho visto il film "La seconda volta" ed ho letto l'intervista di Stefano
Giaccone all'autore, Mimmo Calopresti,
pubblicata nel numero 227 di "A"; entrambi hanno suscitato la mia forte irritazione. Premetto che per motivi
anagrafici (ho 29 anni) non sono tra i "reduci" della "sinistra rivoluzionaria", nè mi
riconosco in una identità genericamente di sinistra, perché invece sento di appartenere a questo
povero,
disprezzato, perseguitato ma, a quanto pare, indistruttibile movimento anarchico. Quelli della mia generazione
hanno fatto a tempo, da bambini, ad annusare appena l'aria che tirava all'epoca dei
grandi movimenti (diciamo dal '68 al '77, per intenderci), mentre durante la repressione dei cosiddetti anni di
piombo io ero ancora un ragazzino; quando infine sono stato grande abbastanza per partecipare, ho avuto la
sgradevole sorpresa di trovare attorno a me il deserto. Quelli che, numerosissimi anche in una città
provinciale
come la mia (non le "insignificanti minoranze" di cui parla la propaganda ufficiale), hanno partecipato alle lotte
di quegli anni, sono di colpo diventati "Gli invisibili", come ben spiega Nanni Balestrini nel suo libro omonimo.
Quali le ragioni? Ora vanno di gran moda i pentimenti e le ammissioni di colpa e certo la fine improvvisa del
"Movimento" sarà anche dovuta ad errori di valutazione, a semplicismo, a superficialità, a tutto
quello che si
vuole; io però resto convinto che questo spaventoso collasso delle speranze e delle intelligenze sia dovuto
alla
spietata, feroce, indiscriminata repressione subita, della quale i terroristi sono stati complici più o meno
consapevoli. Nei famosi anni di piombo i secoli di galera sono stati distribuiti senza risparmio tra le migliaia
di sfortunati
compagni, il cui nome è stato incluso in quelle interminabili liste di prescrizione, preparate dai magistrati,
e poi
sottoscritte prontamente dai compiacenti killer della lotta armata (Patrizio Peci, Roberto Sandalo, Marco Donat
Cattin, ad esempio. Tutti pluriomicidi, tutti subito pentiti). In questo modo un piccolo numero di ex-killer
è riuscito, senza fare un anno di galera, a far rinchiudere metà del
"Movimento" nelle famigerate carceri speciali, gettando probabilmente l'altra metà nella disperazione e
nell'oblio. Non risulta però che nessuno dei vari capi e capetti terroristi, che ora imperversano con
le loro pubbliche
ammissioni di errore, si sia mai dissociato da questo, nè che Renato Curcio abbia mai chiesto scusa a
qualcuno
di quelli che sono finiti in galera per colpa sua e della sua organizzazione, demenziale e autoritaria allo stesso
tempo. In tutte le analisi degli ex-terroristi infatti, la loro sconfitta coincide sempre con la sconfitta di
un'epoca, di una
generazione, dell'intero "Movimento", mentre invece, secondo me, sono loro ad avere contribuito alla distruzione
di quel "Movimento", e non il contrario. Dai pochi documenti reperibili (e naturalmente dalle testimonianze
degli "invisibili") ci si può infatti rendere
conto del carattere prevalentemente Libertario del cosiddetto "Movimento" del 1977, le cui pratiche comuni erano,
ad esempio, l'appropriazione immediata (attraverso le occupazioni, il furto di massa nei supermercati, ecc.) ed
il sabotaggio; strategie nuove, estranee alla tradizione marxista-leninista. Al contrario, i vari gruppuscoli
sostenitori della lotta armata facevano riferimento piuttosto alla tradizione del
marxismo-leninismo classico e infatti, tanto per fare un esempio, i "Santi Protettori" delle B.R., come ricorda
Curcio, erano Stalin, Mao ed alla fine perfino Oxa, il dittatore paranoico dell'Albania. Il "Movimento",
così vitale, acefalo, privo di una struttura gerarchica, non ha però mai rifiutato la violenza in
sè
e per sè; lo scontro violento è sempre stato accettato, quando necessario, nelle strade, nelle scuole,
nelle fabbriche;
ma era una violenza di tipo diverso (più umano mi verrebbe da dire) rispetto a quella praticata in seguito
ad
esempio dalle B.R. Il problema non è mai stato quello del rifiuto o dell'accettazione della violenza,
ma del rifiuto o dell'accettazione
della militarizzazione. Certo, forse ad un marxista ortodosso questo modo di lottare così
apparentemente disorganizzato poteva apparire
velleitario ed inefficace; meglio allora "elevare il livello dello scontro" e costringere così il "Movimento"
a
crescere, a diventare adulto ed a fare finalmente la rivoluzione in modo serio, nell'unico modo che i nostri
"comunisti combattenti" riconoscevano militarizzandosi. Questa in sintesi la strategia delle B.R. e dei vari
gruppuscoli in esse confluiti, nei confronti del "Movimento",
così come la si trova enunciata nelle loro analisi e nei loro comunicati. In pratica la situazione del
singolo militante, in seguito al crescente "livello di scontro", si faceva sempre più
difficile, in quanto era sufficiente una lettera, una telefonata, un volantino, l'ospitalità accordata ad un
compagno,
una delazione anonima, o anche meno, per scontare anni di carcere in base a leggi speciali e reati
associativi. Forse gli strateghi della lotta armata prevedevano che buona parte del "Movimento" non li
avrebbe seguiti in un
confronto militare, allo stesso tempo così estraneo alla sua natura, e così congeniale invece alle
forze armate dello
stato. Pensavano però che quelli che fossero passati in clandestinità, si fossero armati, si
fossero induriti nella lotta
spietata e nella disciplina, sarebbero diventati alla fine gli uomini di acciaio, l'élite capace di prendere la
guida
del processo rivoluzionario. Curiosamente (ma non a caso) sembra che le formazioni "terroriste" (tipo B.R.)
e lo stato abbiano seguito strategie
convergenti, anche se con scopi diversi, per distruggere quello che è stato il "Movimento". Il
realtà la "geometrica potenza" delle B.R. si è rivelata una pietosa illusione, le organizzazioni
militari clandestine
sono state facilmente smantellate grazie anche alle delazioni dei loro "migliori" combattenti e la memoria di tutta
questa lunga storia si è persa. La propaganda ha infatti ridotto la memoria collettiva dei 20 anni di storia,
che
vanno dalla metà degli anni '60 alla metà degli anni '80, unicamente al "fenomeno del terrorismo".
Gli "anni di
piombo" si sono così dilatati cancellando ogni ragione, ogni realtà, ogni antagonismo ad
esclusione di questa
incomprensibile lotta armata, praticata da pazzi fanatici arrivati da chissà dove. Questa versione
ufficiale della Storia, accreditata dagli ex-terroristi, viene solitamente confermata anche dal
cinema e dalla televisione, che hanno dedicato attenzione quasi solo al "fenomeno del terrorismo". Io penso
invece che le persone delle generazioni più giovani sarebbero molto curiose di conoscere e di capire
qualcosa di più di quegli anni; non so se Mimmo Calopresti si sia proposto di aiutarle (nell'intervista non
lo dice)
con il suo film, ma se lo ha fatto, a mio parere, ha fallito miseramente. Il suo film finisce infatti per confermare
ancora una volta le menzogne della propaganda ufficiale. Ora finalmente, dopo l'interminabile (scusate) ma
necessaria premessa, veniamo al film. Premetto che limiterò la mia critica al solo aspetto del contenuto
e del senso
generale, e non a quanto riguarda invece strettamente la forma cinematografica. Non è discutibile di
per sè la scelta di Calopresti di guardare alla vicenda della lotta armata dal punto di vista
strettamente personale di una ex-terrorista (pentita?) e della sua vittima; quello che rende a mio parere stucchevole
la vicenda è che non c'è un legame efficace e comprensibile tra la storia raccontata e la Storia (con
la S
maiuscola). Solo l'interruzione della Storia, infatti, avrebbe potuto spiegare il senso ed il destino di quei
personaggi che, invece, trovandosi così gettati brutalmente alla ribalta, non riescono a comunicare niente,
non
spiegano niente, non rappresentano niente se non, forse, che non c'è niente da sapere o da spiegare (ma
questa
è la tesi della propaganda ufficiale). Si dirà che è un film sulla
incomunicabilità tra il terrorista e la sua vittima, ma a me sembra che la tesi del film
sia molto simile a quelle espresse dagli ex-terroristi nelle loro tanto vituperate apparizioni televisive. Per loro
infatti non c'è nulla da spiegare, era la logica di quegli anni, l'odio di quegli anni, sembrerebbe che
abbiano agito
senza una strategia, non per scelta ma quasi per suggestione, ed ora, destatisi dal trance ideologico, si pentono
(ciò che importa sono solo i modi ed i gradi del pentimento). Un altro aspetto che mi preme precisare
è quello che
riguarda le "vittime del terrorismo", che vengono arbitrariamente identificate come le vittime dei terroristi. Il
conformismo impedisce invece di riconoscere come tali anche le vittime del terrorismo praticato dalle forze
armate dello stato contro i militanti ed i simpatizzanti del "Movimento". Mi voglio qui riferire a quelle migliaia
di persone rinchiuse nelle carceri speciali con i sistemi sbrigativi in uso negli "anni di piombo" e a quanti vi sono
morti, vi sono impazziti, a quanti in seguito si sono rovinati approdando al suicidio o a quel suicidio differito che
è l'eroina. Queste vittime non ufficiali di un terrorismo "legale" nessuno sa nemmeno quante sono e di
certo non
ne sentiremo mai parlare sino a quando la rievocazione di quegli anni sarà affidata alle voci dei loro boia,
dello
stato e del variegato mondo del pentitismo brigatista. Questo io mi aspetterei da un film onesto (dal punto
di vista intellettuale) sul "fenomeno del terrorismo": che
rompa finalmente il monopolio esercitato dai vari boia dello stato e delle B.R. sulla nostra Storia. L'esercito
sterminato delle vittime non-ufficiali dovrà un giorno fare finalmente il suo ingresso nella Storia, una
ricostruzione onesta deve trovare il modo di far capire che esistono anche loro e che non sono morti meno degli
altri , non sono vittime meno innocenti degli altri (anzi!). Voglio concludere questo mio sfogo con un appello
ai compagni anarchici che sono tra gli "invisibili", perché
aiutino a ricostruire la memoria di quel "Movimento", la memoria distrutta dalla propaganda e dalle menzogne,
alle quali i film come quello di Calopresti offrono comode coperture. Non bisogna essere accondiscendenti nei
confronti delle tesi espresse dagli ex-militaristi di allora, non bisogna dimenticare quanto questi abbiano
contrastato, talvolta anche con aggressioni fisiche, l'azione dei compagni libertari, non bisogna dimenticare come
abbiano usato ogni mezzo, spesso anche i più infami, per prevalere, per prendere la guida di quel
"Movimento"
che poi hanno finito per distruggere. Il senso di costruire la memoria mutilata è quello di difendere la
nostra
identità, senza la quale anche "A" Rivista non avrebbe senso e finirebbe per diventare un
inutile doppione di quel
patetico giornale per "generici di sinistra" che è Avvenimenti. Da uno come Calopresti,
che dice di provenire dall'area della "sinistra rivoluzionaria", mi piacerebbe sapere
invece di quale "sinistra" e di quale "rivoluzione" si tratta. Credo che sia una legittima curiosità ed una
precisazione importante, dato che non tutte le rivoluzioni, e soprattutto non tutti i mezzi per farle, sono
buoni. Saluti libertari
Massimo Coraddu (Cagliari)
Risponde Stefano Giaccone
Ho passato la tua lettera a Mimmo Calopresti, ovvio. Perché il film è suo. Quale
Sinistra, quale Rivoluzione, ti
chiedi. Purchè credi ci sia tanto silenzio nel film, perché mancano le parole, "le spiegazioni", "la
volontà di
capire", come scrivi tu? Non si possono "capire" le cose di ieri con la testa e il cuore di oggi. Tant'è vero
che
tu fai una Storia degli anni '70, non falsa, anzi, ma libresca, levigata, perfetta, dall'alto del 1996 e delle
montagne di pagine che hai letto. Tu ricostruisci, non vivi. Non puoi. Nemmeno io o Mimmo possiamo, non
più.
Io e lui e migliaia di altri compagni siamo tra gli invisibili di cui parli. Ognuno di noi ha dovuto "sistemare"
nella propria anima (non nel proprio "diario dalla Bolivia") una terribile sconfitta. Nè politica, nè
militare. O
meglio, non solo. Se ne può parlare in un convegno, scrivere una poesia, restare muti. Ma trovo tutto
questo fuori
contesto, rispetto al film: perché "La seconda volta" è cinema, è la storia filmica di un
incontro tra due persone
calate nella loro storia (con l'iniziale minuscola). Il silenzio, la povertà che attraversa il film è il
residuo della
Storia, la sua distorsione prospettica. Perché è la natura paradossale dell'Uomo
e del Tempo: essere sempre falsi e sempre veri, sempre altro. I due
si incontrano su un piano nuovo, diverso. Non più attraverso la "mediazione" delle armi (il mitra / la
ristrutturazione industriale), ma quello della loro reciproca falsità e svuotamento di senso, tagliati fuori
dalle
storie di oggi. E non possono far altro che aderire al loro silenzio, perché non hanno altre parole e forse
non
l'avranno mai più. Molte delle cose che scrivi sono da me condivise: il giudizio sullo
stalinismo del Partito Combattente,
l'ammucchiata dei pentiti, stampa borghese & Co. nel distribuire ruoli (buoni/cattivi) e premi. Ma il tuo uso
della
parola Storia mi fa venire la pelle d'oca (l'"irruzione della Storia"?, "la nostra Storia"?, nostra di chi?). Una
cosa importante, forse, sarebbe leggere certi libri (come quello che cito più sotto). Anche allora lo sarebbe
stato,
ma dirlo oggi è, appunto, una stupidaggine. Una beffa paradossale della Storia, la tua Compagna, caro
Massimo,
che qualcuno chiama Godot. "Il cammino della storia dunque non è quello di una palla da biliardo
che una volta
partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per
le strade e qui è sviato da un'ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate,
e giunge infine
in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare. L'andamento della storia è un continuo
sbandamento. Il presente è sempre un'ultima casa al margine, che in qualche modo non fa più
completamente
parte delle case della città. Ogni generazione si chiede stupita: chi sono io e chi erano i miei antecessori?
Farebbe
meglio a chiedersi: dove sono io? e a tener per sicuro che gli antecessori non erano così o cosà,
ma semplicemente
in un altro luogo...(Robert Musil - L'uomo senza qualità)".
Stefano Giaccone
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