Rivista Anarchica Online
Visti da Pino
di Pino Cacucci
Esce in queste settimane nelle librerie «Camminando - Incontri di un viandante»
(Feltrinelli) di Pino Cacucci, che raccoglie i racconti di persone conosciute in svariati
luoghi, soprattutto in America Latina ma anche in Europa, frammenti di memoria
riscattati ai ritmi dell'odierna «informazione» che spingono a dimenticare in fretta. Storie di esilio, rivoluzioni
perdute, resistenze a dittature, ricordi della guerra di Spagna,
vicende in molti casi drammatiche ma trattate spesso con autoironia dai protagonisti. Qui riportiamo alcuni
brani presi da cinque capitoli, scelti «a caso» dall'autore.
Tra differenza e repressione Il cortile dove si svolgerà l'assemblea ha il pavimento ricoperto di juncia,
aghi di conifere pazientemente raccolti dai rami e disposti
a formare un soffice tappeto. La juncia è sacra:
purifica i passi dei peccatori separando il mondo terreno dall'inframundo, l'aldilà da cui
i morti vegliano sui vivi. Qualcuno si mette a intrecciare fili di juncia creando coroncine
per le bambine, una ragazza bianca gareggia con un contadino indio, ma la sua ghirlanda
è meno solida, si sfilaccia facilmente: non ha, come lui, alle spalle secoli di paziente
lavoro attorno al fuoco della capanna, raccontando i fatti della giornata mentre ceste e
cordami nascono dalle mani abili, ossute, scure di terra e resina. Arrivano da ogni comunità vicina, gli uomini con il sombrero bianco e la camicia
immacolata dei giorni di festa, le donne in abiti dimessi ma con il decoro di chi conserva
l'orgoglio nonostante la penuria, e alcune indossano le vesti variopinte che ne
caratterizzano l'etnia, in maggioranza tojolabal in questa regione del Chiapas. Si
riuniscono per discutere la formazione del Frente Zapatista, chi è venuto in
rappresentanza della propria comunità consegna l'elenco degli aderenti, ogni foglio è fitto
di nomi con l'impronta digitale al posto della firma. Un giovane apre l'assemblea con un breve resoconto sulla situazione nel resto del paese, e subito iniziano gli interventi,
senza
bisogno di ripetere l'invito a farsi avanti. Al termine della giornata, non ci sarà una sola
persona che non abbia detto qualcosa, denunciando, incoraggiando, spronando ad andare avanti, costi quel che costi. «Se nella tua casa entra qualcuno e comincia a dare ordini e a prendersi le tue cose
migliori, come puoi restare a guardare senza reagire? Stanno regalando tutte le ricchezze
della nostra terra agli speculatori stranieri, hanno svenduto il Messico ai nordamericani,
ma adesso anche noi abbiamo un esercito che ci difende, e non saremo così vili da
rimanere passivi. Da venti, trent'anni, ciascuno di quelli che si trovano qui ha tentato
ogni via pacifica, abbiamo protestato nelle piazze, fatto scioperi della fame, presentato denunce: quando ci è andata bene, la risposta è stata l'indifferenza.
Più spesso, la
repressione. Adesso basta. La sovranità nazionale la difendiamo da soli, e non siamo né
pochi né così soli. Certo, sappiamo che ci aspettano altre sofferenze. Per molti ci sarà il
carcere, e persino il cimitero. Ma il seme che non muore non dà frutto. Il seme secca e
poi germoglia. Con la sua morte, dà la vita». I volti
scavati dalla dignità millenaria, infinite generazioni di vinti mai domati, non
lasciano trapelare emozione né improvvisi entusiasmi, ma una profonda determinazione:
hanno sguardi fermi e scintillanti, e sorridono quando affermano che la morte va
affrontata come un prezzo accettabile. Non c'è tensione, nell'aria calda di questa
domenica pomeriggio a Las Margaritas, non si avvertono fremiti di rabbia nelle voci. La serenità con cui esprimono la decisione di esporsi alla violenza dei
latifondisti, alla
vendetta delle famiglie che possiedono tutto tranne il cuore dei loro sudditi eternamente
ribelli, suscita sconcerto nei pochi stranieri presenti. Uno sconcerto che tradisce la
difficoltà di comprendere. Si può condividere, ammirare, ma capire fino in fondo è
difficile, per chi vive nel mondo irreale che ha la pretesa di considerare questo surreale.
Io sono uno straniero. Ma qui, fin dal primo istante in cui ho camminato sul tappeto di
juncia, non mi sono sentito estraneo.
(dal capitolo «La
Realidad») Tre espulsioni in tre
settimane «Quando sono nato ero già
un fuggitivo, un latitante. Mia madre era ancora minorenne,
e mio padre, di pochi anni più grande, era stato denunciato dal «suocero ». Così sono
stato partorito in un albergo, durante una pausa forzata di quella fuga d'amore con tanto
di mandato di cattura. Sarà anche per questo, che ho sempre avuto la sensazione di
non essere di alcun posto...». Luis Sepúlveda, cileno errante, scrittore tradotto in almeno una quindicina
di paesi, si è
da poco trasferito in una casetta ai margini della Selva Nera, pur conservando la vaga
residenza «tra Amburgo e Parigi», come si legge sulle copertine dei suoi libri. Oggi
potrebbe rientrare in Cile, che lasciò nel 1977 per l'esilio, ma non ne sente alcun bisogno,
e se l'intervistatore di turno gli chiede «Quando pensa di tornarci?», lui risponde
immancabilmente: «Perché mi volete rispedire lì, vi ho già
stufato?». Il concetto di «patria» non ha mai sfiorato Luis.
Chissà se c'entrano i cromosomi. Il nonno paterno,
esatto contrario del «delatore» materno, era un anarchico andaluso
condannato a morte in Spagna per attività sovversive. Evase dal carcere di Almería,
primi anni del secolo, e raggiunse le Filippine, da dove
passò in Ecuador, e lì ricominciò da
capo: fondò un gruppo anarchico, ne combinò di tutti i colori, e si buscò un'altra
condanna. Rievase, ovviamente. Dal carcere di Guayaquil fuggì direttamente in Cile,
fermandosi nel porto di Iquique. «Era il 1918, e laggiù c'era il meglio del movimento
libertario europeo, tutti militanti anarchici sfuggiti alle galere e ai boia dei rispettivi paesi
d'origine, quindi mio nonno si ritrovò a cuocere nella propria salsa... Si chiamava Gerardo Sepúlveda Tápia, ma tutti lo conoscevano
con il nome di battaglia,
il compagno Ricardo Blanco. Stare con lui, fu per me la miglior scuola di vita possibile.
Da Iquique si spostò a Valparaíso. Non riusciva mai a stare per troppo tempo nello stesso
posto, e lo capisco benissimo... Laggiù trovò
l'amore della sua vita, mia nonna Susana, colta, un po' borghese, addirittura
cattolica... Credo che il compagno Ricardo Blanco le avesse perdonato tali difetti
soprattutto per due motivi: era bellissima, e parlava cinque lingue. Io sono praticamente
cresciuto con loro, e con lo zio Pepe, altro anarchico furioso, che nel 1937 se ne partì per
la Spagna con una brigata di combattenti internazionalisti messicani e statunitensi. Nel
frattempo mio nonno aveva fondato una Università Popolare, finalizzata soprattutto a
formare dei buoni grafici e stampatori. È grazie a lui e al tío Pepe, che ho imparato ad
amare Salgari. Nel loro circolo anarchico credo si siano tenute le più approfondite e
intelligenti letture di Salgari a cui abbia mai assistito...» I
primi passi da scrittore li ha mossi al liceo di Santiago, dove pubblicò qualche poesia
sul giornalino dell'istituto. Ma decise subito di mettersi in proprio, scrivendo e
ciclostilando racconti pornografici che poi vendeva ai compagni di scuola. «Quelli sono stati i primi soldi che mi sono guadagnato con il mestiere di narratore. Sono
certo di aver contribuito non poco all'equilibrio ormonale dei miei compagni di liceo...»
Di lì a poco, si sarebbe dedicato a ben altro genere di narrativa. Nel 1964 entrò nella Gioventù comunista cilena, e i suoi racconti e poesie
divennero
celebri nelle riunioni sindacali, in scioperi e manifestazioni. Gli scrittori «seri» lo
snobbarono, per poi attaccarlo con disprezzo. Ci rimasero molto male, quando Luis, nel 1969, vinse il Premio Casa de Las
Americas
con la raccolta di racconti Crónicas de Pedro Nadie. «È stato un mio amico a
metterli
assieme e a mandarli a L'Avana. Io non ci credevo, ma poi, una volta vinto il premio...
be', gli scrittori cileni affermati decisero di odiarmi apertamente. Tutti, meno uno:
Francisco Coloane, che mi difese pubblicamente.» Luis
aveva appena vent'anni, e stimava Coloane come il più grande narratore d'avventura
che mai avesse letto, e che lui mette al pari, se non al di sopra, di London, Melville e
Conrad. E arrivarono gli anni della militanza totale, che per
molto tempo avrebbe tenuto Luis
lontano dalla macchina da scrivere. Sempre nel '69, vinse una borsa di studio per
l'università Lomonosov di Mosca, l'ateneo della nomenklatura. «Io seguivo i corsi di
drammaturgia, l'ambiente mi era abbastanza insopportabile, ma ebbi modo di conoscere
il giro del migliore teatro moscovita, più o meno clandestino, in contrapposizione alla
noiosissima «estetica del realismo socialista». E frequentavo anche i disegnatori di
fumetti, mia grande passione, tutti eccellenti, underground ed ebrei. Peccato che, solo
quattro mesi dopo, mi avrebbero espulso per «atteggiamenti contrari alla morale
proletaria...» Luis scuote la testa, fingendo rammarico prima di aggiungere, con un sorriso
di candore: «Il fatto è che...mi hanno beccato a letto con la professoressa di letteratura
slava. Che per mia disgrazia era moglie del decano dell'Istituto Ricerche Marxiste...
Scoppiò proprio un bel casino. Espulso dall'Unione Sovietica, torno in Cile e vengo
espulso anche dalla Gioventù comunista. Litigai pure con mio padre, militante di ferro,
e così me ne andai di casa. Tre espulsioni nel giro di tre settimane».
(dal capitolo «Il cileno
errante»)
«Quelle bestie degli
stalinisti» La casa di Paco Ignacio Taibo I e
sua moglie Mari Carmen è un'ariosa costruzione a due
piani in una stradina della colonia Hipodromo, poco più a sud del centro storico di Città
del Messico, dove il «poco» significa comunque una buona mezz'ora di auto. Se però si
considera che in questa megalopoli la sola Avenida Insurgentes è lunga sessanta
chilometri, la dimora dei Taibo resta nel cuore della capitale. Da quando uno dei figli,
quello che porta il suo stesso nome, ha pubblicato il suo primo libro, aggiungendo un «II»
al cognome, Paco Taibo padre si è visto costretto a firmarsi con un «I»: oltre a essere
redattore capo delle pagine culturali a El Universal, uno dei più autorevoli quotidiani
del paese, ha scritto numerosi romanzi e saggi,
nonché biografie romanzate di leggendarie stelle
del cinema messicano, fra le quali María Felix e Dolores del Río. Una passione che
lo ha reso uno dei massimi esperti in storia della cinematografia, arrivando a curare una
corposa enciclopedia del muto e svariate pubblicazioni monografiche. Nato nel 1924 a
Gijón, nelle Asturie, Taibo I è tra i numerosi esiliati spagnoli che, dopo la presa del
potere da parte del generale Francisco Franco, hanno trovato nel Messico una seconda
patria, in questa terra che vanta la più lunga e variegata storia di accoglienza per i
rifugiati di ogni guerra civile o rivoluzione perduta. «Mio padre, Benito Taibo, era un
dirigente socialista che partecipò all'insurrezione del '34 contro l'oligarchia
spagnola, mentre mio zio Ignacio La Villa, fratello di mia
madre, era direttore del quotidiano
socialista El Avance. La sollevazione popolare coinvolse tutte le Asturie, terra di
minatori, ma il resto del paese non reagì come si sperava. In soli dieci giorni l'esercito,
con l'aiuto dei legionari del Tercio e di truppe marocchine, schiacciò nel sangue
l'insurrezione. Mio zio venne catturato e torturato, quindi lo portarono davanti al plotone
d'esecuzione: le cartucce erano però a salve, non volevano ancora ucciderlo, sia perché
speravano di farsi dire dove i socialisti avessero messo i fondi della banca delle Asturie,
sia perché era un personaggio molto noto nel paese. Comunque, mio zio cadde lo
stesso davanti a quella scarica a salve, per un attacco
cardiaco. Non morì, e lo rilasciarono.
Riunitosi con mio padre, ripararono entrambi a Madrid, dove il partito socialista decise
di farli espatriare trasferendoli a San Sebastián; imbarcati su un cargo di legname,
nascosti in una cavità scavata sotto i mucchi di tronchi, approdarono sulla costa francese,
dove i socialisti del posto li portarono in Bretagna, sperando che i sicari del governo
spagnolo non potessero raggiungerli. Però la Guardia Civil, in simili casi, era solita
prendere figli e nipoti in ostaggio, così tutti i bambini della famiglia vennero trasferiti in
Francia. Praticamente, andai per la prima volta in esilio a dieci anni... Prima a Parigi, poi
in Bretagna, e infine in Belgio, cambiando scuola ogni due o tre mesi. Intanto, c'era la
speranza delle imminenti elezioni. Che infatti furono vinte dal Fronte Popolare:
nonostante l'endemica tendenza delle sinistre a dividersi, quella volta erano riusciti a
mettersi tutti insieme, e a conquistare il governo del paese. Rientrammo in Spagna, dove
mio padre e mio zio vennero accolti trionfalmente. Il giornale riprese a uscire, e anche
mio padre vi entrò a lavorare, trasferendoci a Oviedo, la capitale delle Asturie. Durò
poco: nel '36 i militari si sollevarono con Franco al comando, e iniziò la guerra civile.
Per noi fu una situazione assurda: tutte le Asturie eranoschierate con la repubblica,
mentre la sola Oviedo era stata presa dai militari. Così, non solo dovemmo cambiare casa
in segreto, ma anche il cognome: González. Mio zio, figura troppo nota, dovette
nascondersi in una cisterna d'acqua nel sottotetto, dove sarebbe poi rimasto per ben due
anni. Una perquisizione poteva arrivare in qualsiasi momento, e persino passando davanti
a una finestra avrebbe rischiato di farsi riconoscere e denunciare. Mio padre, invece, riuscì a fuggire da Oviedo e a unirsi agli antifranchisti,
combattendo in un battaglione di socialisti» Ben presto
iniziano i boicottaggi alle milizie
rivoluzionarie, il piccolo partito comunista spagnolo diventa l'unico referente per Mosca,
che preme per il disarmo di anarchici, trotzkisti e socialisti non ligi alle direttive del
Comintern. E si arriva alla tragedia degli scontri fratricidi, delle esecuzioni sommarie di
dirigenti rivoluzionari antistalinisti e al totale controllo dell'esercito repubblicano da
parte dei commissari fedeli a Mosca. Taibo comincia a ricordare quegli eventi senza
nascondere il dolore e la rabbia, finché non sbotta: «Guarda che se mi metto a parlare
degli stalinisti, mi rovino la giornata e finisce che non riesco a raccontarti nient'altro». La moglie Mari Carmen interviene con l'allegria vigorosa di sempre: «Per
carità,
lasciamo stare quelle bestie degli stalinisti, che se no mi resta di cattivo umore per chissà
quanto!». Il padre di Mari Carmen è morto nella guerra civile, ma a ucciderlo non sono
stati né i franchisti né gli stalinisti. Con la voce improvvisamente intenerita e
malinconica, mi racconta: «Lui combatteva con la marina repubblicana. La sua nave è
stata affondata dagli inglesi. Sì, la flotta da guerra inglese ha trovato spesso dei pretesti
per colpire le poche unità rimaste fedeli al governo legittimo. Con mio padre morì tutto
l'equipaggio. A parole, l'Inghilterra condannava Franco, ma nella realtà, preferiva lui
a un'ipotesi di Spagna socialista, per non parlare di quanto
la spaventasse la possibilità che
gli schieramenti rivoluzionari vincessero su falangisti e stalinisti...» «Le carognate che
gli inglesi ci hanno fatto, è una storia che nessuno ha ancora scritto» conclude Taibo,
lisciandosi nervosamente i folti baffi bianchi. E riprende il filo dei ricordi: «Quando la
guerra fu perduta, mio padre andò sulle montagne, a continuare la resistenza. Ma uno
dopo l'altro, li stavano uccidendo tutti. Non valeva la pena andare avanti aspettando la
fine inesorabile. Travestito da contadino, riuscì a tornare a Oviedo, andandosi a infilare
anche lui nella benedetta cisterna dell'acqua, ovviamente asciutta... Io, intanto, avevo
quattordici anni e in casa c'era bisogno di gente che lavorasse. Riuscii a farmi assumere da una libreria, dove però spazzavo il pavimento e spolveravo,
comunque, sempre di ambiente librario si trattava... Ma la copertura del cognome
González non durò all'infinito. Non so come, scoprirono che ero un Taibo. La polizia
arrivò in libreria, non mi trovò, ma ottenne il mio indirizzo. E quella volta buttarono
all'aria tutto, scoprendo il nascondiglio nella cisterna. Mio padre e mio zio vennero
condannati a morte. A quei tempi la condanna a morte era una consuetudine, poi, in molti
casi, veniva tramutata in pena detentiva poco prima di finire davanti al plotone. Dato che
non c'erano particolari carichi pendenti su di loro, a parte l'essere antifranchisti storici,
se la cavarono con qualche anno di carcere.
(dal capitolo «Per fermare le acque
dell'oblio»)
La dentiera di Durruti «Mia madre era una contadina analfabeta, ma seppe allevarci senza alcun
tabù sessuale.
Prova a immaginare una comunità agricola sprofondata nella più dura miseria, dove però
si discutevano questioni come la gelosia, il rapporto di coppia, il diritto della donna a
scegliersi un compagno e anche ad abortire. Nelle campagne esistevano già consultori
anarchici dove si spiegavano i metodi contraccettivi, e si praticava l'aborto. Nella nostra
educazione libertaria veniva sviluppato un sentimento di rifiuto verso la prostituzione
unito alla comprensione per le donne vittime di tale sfruttamento. Noi ragazzi non
avevamo certo bisogno del postribolo, per avere le prime esperienze sessuali. Basti
pensare che d'estate ci mandavano in vacanza nei campeggi liberi, sulle spiagge a una
quarantina di chilometri da Barcellona. Eravamo poveri, ma i sindacati anarchici
riuscivano egualmente a garantire questo genere di cose. E nei campeggi ci ritrovavamo
in quattro o cinquemila giovani, tra i quali moltissime ragazze adolescenti. I genitori non
ci raccomandavano di dormire separati, ma semmai ci spiegavano quali conseguenze
poteva comportare l'amore senza precauzioni. Ti rendi conto? Questa era la nostra
Spagna negli anni Trenta... E quella di Franco, ci avrebbe riportati indietro di un secolo.» Nell'aprile del '39 tutto è perduto. Il diciottenne Diego Camacho ripara in
Francia e viene
internato in un campo di prigionia. «Dormivamo in terra, il mangiare era scarsissimo, e
comunque non cucinato: patate crude e tozzi di pane secco. Ma per noi non era
assolutamente strano: la Francia borghese ci vedeva come il fumo negli occhi, eravamo
dei rivoluzionari, gli eredi della Comune di Parigi che loro avevano soffocato nel sangue.
Perché aspettarsi che ci trattassero meglio? Intanto, i franchisti fucilavano oltre 150.000
prigionieri...». Quando i nazisti occupano la Francia, Diego
passa dalla prigionia alla clandestinità:
liberato appena in tempo, va con i maquis a combattere nella resistenza. «Ma loro
avevano un concetto di guerra patriottica che non mi riguardava. La mia lotta era ben
altra. A un certo punto ho capito che dovevo andarmene...». Non si unisce ai tanti esuli
che scelgono il Messico come seconda patria, e sceglie di rientrare clandestinamente a
Barcellona. Molti anarchici combattevano ancora dai Pirenei, realizzando imprese
eclatanti nelle grandi città. Diego Camacho diventa amico del leggendario Francisco
Sabaté, che «bombardava» Barcellona dalle colline usando un mortaio da lui costruito:
lanciava involucri di volantini che si aprivano in cielo liberando una pioggia di
propaganda sovversiva. Diego venne catturato nel 1942, mentre Sabaté continuò a beffare
i franchisti fino al 5 gennaio 1960, quando cadde crivellato di colpi in un'imboscata della Guardia Civil. «El Quico, come lo chiamavamo noi, è morto poche ore
dopo Albert
Camus, una coincidenza annichilente, se si pensa che Camus ci ha appoggiati con ogni
mezzo, soprattutto sensibilizzando l'opinione pubblica sulla resistenza degli anarchici in Spagna. Con gli stalinisti, ovviamente, Camus non voleva aver nulla da spartire,
mentre con noi... Be', è finita che ha condiviso la data di morte di Francisco Sabaté, ma
il mondo neppure se n'è accorto, Quico era soltanto un «bandito», per il regime e per il
museo che conserva ancora il suo mitra...» Riesce a evadere
nel '47, ma tre mesi più tardi lo arrestano un'altra volta. E scampa per
miracolo a un'esecuzione sommaria. «Nel '48 e '49 la guerriglia antifranchista era molto
attiva. Così, noi prigionieri venivamo usati come ostaggi: ogni volta che c'era un
attentato, ne prendevano alcuni e li andavano a fucilare nei campi, per rappresaglia.
Finché non è toccato anche a me. L'ordine veniva da Madrid, però la polizia catalana
aveva paura del movimento armato, molto più forte che nella capitale. Sapeva che
uccidendoci avrebbe scatenato azioni ancor più violente. È stata questa, la mia fortuna.
Mi hanno portato fuori dal carcere, per tirarmi un colpo alla nuca come agli altri, ma i
poliziotti imprecavano contro gli ordini di Madrid, dicevano che là non si rendevano
conto di cosa potevano provocare... e alla fine, mi hanno riportato dentro, vivo.» Nel '54 ottiene la libertà vigilata, e ne approfitta per tornare in Francia,
mettendosi a fare
il tipografo. Poi, firmandosi Abel Paz, inizia a scrivere saggi storici, nonché la biografia
di Buenaventura Durruti, il comandante anarchico caduto nell'assedio di Madrid, un testo
tradotto in varie lingue compreso il giapponese. Sorridendo, Diego-Abel ama ripetere:
«Grazie a Durruti adesso posso mangiare», ma non si riferisce agli scarni diritti d'autore:
«Con l'anticipo ricevuto dall'editore giapponese mi sono fatto la dentiera, e ogni volta
che mastico, penso con gratitudine a Durruti, che ho stimato fin da bambino...». Negli
ultimi tempi, Diego sta dedicando la massima attenzione al Chiapas: «È un movimento
innovativo, una grande speranza, che ha rotto con i vecchi schemi della guerriglia.
Marcos è un libertario, si deduce fin troppo chiaramente da ciò che dice e scrive, e gli
zapatisti sono un esercito popolare che predilige la parola al fucile. Con lo strapotere
degli Usa, nessun movimento potrebbe mai vincere militarmente, e infatti loro non
cercano altri militanti per combattere, ma vogliono nuove prese di coscienza. Purtroppo,
presentano una similitudine con la nostra esperienza del '36: anche loro sono lasciati soli
dalle socialdemocrazie, interessate alla cogestione del potere e non certo alla ricerca di
un diverso modello di vita». Diego ha una ripulsa assoluta per qualsiasi forma di
vittimismo. Quando ricorda il passato, precisa sempre di aver compiuto delle scelte che
hanno portato a «logiche conseguenze»: «Se si è coerentemente anarchici, non ci si
può lamentare delle persecuzioni sofferte. Il Potere
si difende con la repressione, è nella sua
natura, non potrebbe essere altrimenti. Anche in Francia, siamo stati ricevuti esattamente
come c'era da aspettarsi: lo stato e la borghesia francesi non potevano certo dimostrarsi
teneri con chi aveva messo in pericolo la loro stessa ragione di esistere. Quando ci si
ritrova sull'incudine, bisogna sopportare. E quando si ha il martello in mano, bisogna
pestare duro. Il problema, naturalmente, è riuscire a invertire le posizioni, senza restare
tutta la vita sotto le martellate...»
(dal capitolo «Abel
Paz»)
Come se fosse un meccanismo metallico Kiel era la città della Kriegsmarine, la marina da guerra del Terzo Reich.
La più
importante base navale sul Baltico. Da qui salpava la corazzata Tirpitz, l'incubo dei
convogli alleati. Ed è sul Molo Ammiraglio Tirpitz, che ho fatto da comparsa in una delle
situazioni più assurde della mia vita. Ero venuto per un giro di presentazioni librarie, e
alla sera, sono finito tra gli invitati al ricevimento a bordo di un cacciatorpediniere
italiano. Confesso di aver avuto una certa curiosità, visto che rappresentavo l'essere
vivente che, nel raggio di svariate miglia nautiche, sarebbe stato in assoluto più fuori
posto in una simile circostanza. Salito a bordo, e consegnato l'invito all'ufficiale di
guardia, questi ha letto il mio nome ad alta voce, e subito un marinaio istoriato di
cordicelle dorate ha emesso una serie di sibili modulati dal fischietto delle grandi
occasioni. Sul ponte di coperta, le alte uniformi italiane si mescolavano a quelle tedesche,
tutti impettiti e convinti di svolgere un compito cruciale e insostituibile nel consorzio
umano a cui appartengono. Un capitano di fregata mi ha persino chiesto che genere di
cose scrivo. È stata un'impresa imbarazzante, tentare di conversare. E non sapevo mai
come diavolo si dovesse salutare, perché loro scattano sull'attenti e fanno fuoriuscire la
mano tesa come se fosse un meccanismo metallico, che poi io tentavo di afferrare ma
arrivando sempre in ritardo, e lasciando probabilmente una sensazione di «civile
smidollato», senza capacità decisionale... Il tutto tra brindisi e non meglio precisate
fratellanze tra guerrieri alleati, fischietti in codice, colpi di sirena, e cannoni tirati a lucido
come se dovessero servire a migliorare l'estetica del pianeta. «Purtroppo questa è una
nave antiquata» si è lamentato, in un momento di intimità, un giovane tenente di vascello
che sembrava aver indossato la giacca con l'attaccapanni dentro. «Ci mancano i fondi,
non ci permettono di competere con l'Europa. I nostri sistemi missilistici sono trent'anni indietro rispetto agli americani: e come si può pretendere che ci prendano
sul serio? Lei,
che fa un mestiere in grado di influenzare i giovani, ha il dovere di intervenire...». Come
diceva quel titolo di Chatwin? Cosa ci faccio io qui... Quella notte, Kiel era in festa, ma per tutt'altri motivi. Il porto «civile», la parte
maggioritaria non invasa da cannoniere e lanciamissili, si era trasformata in una sorta di
sagra marinara, con tutte le barche affollate e piene zeppe di birra da offrire ai passanti,
gruppi musicali sui moli, solitari chitarristi seduti sulle bitte, una fiumana di persone
tranquillamente inebriate, festoni multicolori e lanterne accese, e le foche della grande
vasca con tanto di grotta artificiale, che venivano fuori a giocare con gli ubriachi più
chiassosi. In uno spiazzo proiettavano un vecchio concerto dei Talking Heads su uno
schermo gigante, molti ballavano, i giovani tedeschi si mescolavano ai giovani immigrati,
e non ho visto un solo disperato con smanie aggressive, e tante barche inalberavano
insegne antinucleari o pacifiste, persino una contro il servizio militare. Il Molo
Ammiraglio Tirpitz era laggiù, nel buio rischiarato a malapena da lampioni freddi,
vicinissimo eppure a una distanza siderale. Il cerchio si chiudeva. Dal vecchio artigliere
della contraerea che citava Adorno e Grass, ai giovani che mi invitavano a bere in
allegria, anche Kiel mi confermava che valeva la pena camminare fin qui.
(dal capitolo «Quel treno per
Kiel»)
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