Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 218
maggio 1995


Rivista Anarchica Online

Oltre il welfare
di Maria Matteo

Ripensare il senso dell'opposizione politica e sociale. Verificare quali possibilità concrete ci siano per un progetto libertario di trasformazione sociale. Ecco due degli obiettivi che si è posto il convegno su «Crisi del welfare e progetto libertario» tenutosi in marzo a Torino

Il 18 e 19 marzo scorsi la Federazione anarchica torinese ha promosso un convegno dal titolo: «Crisi del welfare e progetto libertario». Erano presenti una cinquantina di compagni di varie località che in due giornate di intenso dibattito hanno tentato di analizzare le profonde trasformazioni che una politica neoliberale sta producendo nel nostro paese.
Il convegno partiva dall'assunto che: «Il secco ridimensionamento del welfare statale è, assieme al taglio dei salari, alla riduzione delle libertà politiche e sindacali, alla modificazione in senso autoritario ed efficentista (almeno nelle intenzioni) della rappresentanza politica, la risposta delle classi dominanti, a livello nazionale ed internazionale, alla fine della fase di sviluppo economico che ha caratterizzato gli anni '60 e '70. La sinistra politica e sindacale tende a dividersi, nell'ennesima guerra dei topi e delle rane, fra modernisti, fautori di una gestione democratica e concertata con i sindacati istituzionali del nuovo corso economico e sociale e difensori duri e puri di uno stato sociale presentato come orizzonte delle conquiste del movimento dei lavoratori. Il taglio del welfare può essere assunto come occasione per ripensare il senso stesso dell'opposizione politica e sociale».
E quindi si proponeva di rispondere ad alcuni specifici quesiti:
- in che misura è possibile una destatalizzazione del movimento dei lavoratori e quali obiettivi e pratiche collettive possono caratterizzare questo processo? Per fare un solo esempio, è possibile puntare su di una riduzione della pressione fiscale sui salari?
-la solidarietà fra lavoratori e disoccupati oggi è mediata e stravolta dallo stato. Sono pensabili forme di mutuo soccorso tali da battere i tentativi di privatizzare la previdenza, l'assistenza, la formazione?
- le esperienze di autogestione dei servizi e quelle di autoproduzione possono svilupparsi in forme non mercantili solo coordinandosi fra di loro e legandosi alle esperienze di autorganizzazione dei lavoratori e dei disoccupati. Quali ipotesi in questa direzione sono possibili?
- le esperienze di pressione dal basso sulle amministrazioni pubbliche per ottenere servizi, tutela dell'ambiente, garanzie sociali sono oggi manipolate dalle istituzioni partitiche e sindacali e dall'apparato dello stato. Come può determinarsi un loro sviluppo autonomo ed indipendente?
- critica della condizione salariata e critica del prodotto del lavoro e della sua organizzazione sono collegabili? E in che maniera? E', insomma, possibile un punto di vista dei subalterni sull'oggetto della propria attività produttiva?
Sia le relazioni introduttive sia l'ampia e articolata discussione che ne è seguita hanno posto in campo un ventaglio di ipotesi variegato e complesso. Gli intervenuti hanno comunque convenuto nell'individuare nell'affermarsi e radicarsi del welfare state il fulcro di un lungo e non sempre lineare processo di istituzionalizzazione e statalizzazione del movimento operaio.
Barroero non coglie una netta divaricazione tra la 1a e la 2a repubblica ed asserisce che: «Nel nuovo - come nel vecchio - la dipendenza riguardo al modello Welfare attraversa tutti gli strati sociali e culturalmente rappresenta la sublimazione di interessi molto materiali nel culto dello Stato come bene o "casa" comune. Una dipendenza determinata da motivi strutturali, favorita dall'instaurarsi e dal permanere di situazioni privilegiate e rafforzata dalla persuasione indotta che questo sia l'unico quadro di riferimento possibile. Dunque una profonda dipendenza culturale che sembra rendersi autonoma dalle condizioni materiali e dai rapporti di forza su di questi fondati ed esserne il puntello nei momenti in cui le prime si deteriorano e i secondi sono rimessi in discussione».
E ritiene che «La situazione attuale sembra delineare un contesto particolarmente interessante e stimolante per tutti coloro che si riconoscono nella tradizione politica anarchica o nell'area culturale libertaria, proprio in virtù del caratteristico atteggiamento verso lo Stato e delle ripetute rivisitazioni - appunto in chiave antistatalista - delle prospettive autogestionarie. Le prospettive sembrano favorire una nuova centralità - ovviamente nel campo delle progettualità antagoniste extraistituzionali - della nostra area, particolarmente in rapporto alla relativa crescita di lotte spontanee ed autorganizzate».
E' tuttavia convinto che «fondare una teoria politica o costruire una progettualità sulla prassi dell'autogestione sia altamente rischioso perché non sembrano essere più praticabili gli spazi sociali, politici (e forse non esistere più quelli fisici) all'interno dei quali si possa dare una comunità proletaria indipendente ed una conseguente pratica sociale che non sia condivisione subalterna delle difficoltà, della miseria e della logica capitalistica. Allora forse la strada politicamente più produttiva e più consona ad una tradizione politica che si è costituita ed è cresciuta sulla negazione più radicale delle istituzioni, non pare quella del recupero di spazi mitici ed idealizzati, ma quella molto concreta della critica destrutturante e della riconfigurazione totale di quelli reali».
Scarinzi ritiene che «il fatto che la massa dei lavoratori salariati sia disposta a lottare "per la difesa dello stato sociale" segnala il peso di una cultura politica riformista e statalista, la difficoltà ad individuare nuove vie d'azione, il fatto che, in questo contesto sociale, la difesa dell'intervento pubblico statale appare a molti lavoratori come l'unica maniera realistica per difendere quote di salario sociale»; e ne deduce che «la nostra partecipazione a questa lotta va oltre il pur necessario riconoscersi nell'opposizione sociale nelle sue espressioni immediate solo se siamo in grado di renderne esplicito il carattere materiale, classista, unilaterale contro ogni tentativo di collocarle in una prospettiva statalista, genericamente solidarista, corporativa e settoriale».
E sostiene che «destatalizzare il movimento operaio significa anche destatalizzare quote della riproduzione sociale e riconsegnarne il governo ai soggetti sociali coinvolti. Questa tendenza è oggi interpretata dall'offensiva neoliberale come occasione per creare nuove quote di mercato per l'assistenza, la previdenza, la formazione privata. Contro lo stato e contro il mercato, si tratta di sperimentare forme di associazione dei lavoratori, degli utenti, dei senza salario. Appare, di conseguenza, evidente, il legame fra costruzione di esperienze del genere e riduzioni dell'orario di lavoro che permetta di modificare l'attuale gestione del lavoro domestico, della cura degli anziani, dei malati, dei bambini ecc .. Sottrarre tempo al lavoro salariato come possibilità di avere tempo per sé e di sfuggire al mercato dei servizi è un obiettivo non nuovo ma essenziale».
Antonelli nella sua relazione su «Esperienze e limiti della cooperazione» ha svolto una puntuale e accurata analisi sulle possibilità di sviluppare forme di gestione diretta e controllo all'interno delle cooperative, fornendo preziosi spunti al dibattito.
Il senso dell'intervento della sottoscritta è invece facilmente rintracciabile nel mio articolo pubblicato qui di seguito cui pertanto mi permetto di rimandarvi.

Autogestione e cooperazione sociale

Quand'ero bambina consideravo naturale e scontato che l'assistenza sanitaria e l'istruzione fossero diritti garantiti a tutti dalla collettività; non avevo dubbi nel ritenere che l'erogazione di questi ed altri servizi non fosse tra le prerogative essenziali dello stato. Lo stato non poteva che essere stato sociale: scuola, sanità previdenza ma anche trasporti, elettricità, poste mi parevano consustanziali all'esistenza stessa dello stato. All'epoca ignoravo che potessero esservi altri modi di concepire lo stato, non sapevo che oltre allo stato pesante che conoscevo potessero esservi modelli statuali leggeri o, al contrario, ancor più spessi e pervasivi.
Io faccio parte di una generazione nata all'epoca del boom economico per la quale il compromesso socialdemocratico sul quale si è retta per quasi cinquant'anni la repubblica sorta dopo la guerra e la resistenza era un dato ormai acquisito, consolidato.
Assistiamo oggi al frantumarsi progressivo dello stato sociale, conseguente alla rottura del patto socialdemocratico, per il quale la sinistra aveva rinunziato alla propria carica rivoluzionaria in cambio di un vario insieme di servizi e garanzie.
La sinistra ha ormai ben poco da gettare sul piatto della bilancia: qualche timido sciopero generale o rare manifestazioni nella capitale sono ben lieve spauracchio per una destra aggressiva e socialmente radicata. D'altra parte la divaricazione tra destra e sinistra appare sempre meno marcata sia sul piano politico che culturale. Tra pidiessini e forzisti la posta in gioco non sono certo le privatizzazioni o la remissione dello stato sociale ma la propensione a perseguire tali obiettivi avvalendosi o meno di forme di ammortizzazione sociale. La manovra bis del governo Dini, ampiamente sostenuta dai pidiessini ed avversata dalle destre non segna affatto un'inversione di tendenza rispetto al precedente esecutivo, del quale non dimentichiamo che lo stesso Dini era stato esponente di spicco. Ridurre il debito pubblico è obiettivo che può essere perseguito puntando su una diminuzione di spesa per i servizi con un maggior onere per i cittadini o con l'aumento delle imposte indirette che parimenti comporta una riduzione del potere d'acquisto dei salari. In entrambi i casi vengono colpiti i ceti meno abbienti e risparmiati i patrimoni. Mi è francamente difficile cogliere una differenza quantitativamente e qualitativamente rilevante tra chi aumenta i ticket su medicine e prestazioni sanitarie e chi fa lievitare i prezzi dei principali beni e servizi con un consistente ritocco dell'Iva.

Sfera pubblica non statale
Oggigiorno gli unici difensori dello stato sociale rimasti sulla piazza sono gli esponenti di Rifondazione Comunista, che, incapaci di cogliere le profonde trasformazioni del quadro politico e sociale, si ostinano a giocare una partita ormai persa. Una partita le cui regole, condizioni e poste in gioco paiono nette e definite sia a destra che a sinistra. L'opposizione tra stato leggero e stato pesante non sembra lasciare spazio ad altre ipotesi.
Fortunatamente la realtà sociale e politica è ben più complessa e multiforme dell'angusto ambito istituzionale. L'ampio e articolato dibattito sviluppatosi intorno alla nozione di sfera pubblica non statale è il segno inequivocabile dell'emergere di percorsi capaci di prescindere dalla dicotomia tra stato e privato.
Tentare di delineare una sfera pubblica non statale comporta la rescissione dell'identificazione tra pubblico e statale sulla quale lo stato fonda la propria legittimità. Nella concezione liberale lo stato è il garante dell'interesse pubblico e la sua funzione è essenzialmente regolativa; il possibile esplodere di tensioni sociali si riduce ad una questione di ordine pubblico: uno stato leggero si serve di robusti randelli. Nell'approccio welfarista lo stato non si limita ad un ruolo arbitrale rispetto al conflitto sociale ma mira a far coincidere il proprio operato con gli interessi generali della collettività. Sappiamo che in realtà gli unici interessi che le istituzioni tutelano sono quelli del ceto politico che le sostiene e l'erogazione di servizi è un modo efficace di prevenire e smorzare lo scontro sociale, smussandone gli angoli. Nondimeno il mito dello stato padre amoroso è un mito potente, che pare ben arduo scalfire. Specie a sinistra.
Intendiamoci: sono ben consapevole che il restringersi del welfare ha prodotto, produce e sempre più produrrà effetti devastanti sul piano sociale; abbiamo tutti dinanzi agli occhi i disastri che la politica economica ultraliberista ha causato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, al punto che in paesi tra i più ricchi e avanzati del pianeta troviamo ampi strati sociali che vivono al di sotto della soglia di povertà.
Non è difficile prevedere che in Italia possa delinearsi un quadro anche più desolante, poiché nel nostro paese garanzie quali il salario garantito ai disoccupati, che un falco liberista come la Thatcher ha ridotto ma non eliminato, non ci sono mai state. Negli anni '80 la disoccupazione ha colpito soprattutto le fasce giovanili, che, pur non godendo di alcuna forma di tutela, sono sopravvissute grazie alla solidarietà familiare. Oggi il quadro è mutato: sempre più numerosi sono coloro che vengono espulsi dal mondo del lavoro e non hanno più alcuna possibilità di reinserirvisi: la disoccupazione ormai si configura come dato strutturale e non contingente. Se a ciò si aggiunge che il blocco dei salari e il crescere vertiginoso delle spese per tutti i servizi essenziali ha già determinato un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, lo scenario che abbiamo di fronte non è certo dei più rosei. Nondimeno la mera difesa di sempre più esigui margini di welfare attuata dalla sinistra non solo è pateticamente inutile ma soprattutto si mostra priva di prospettive per il futuro, incapace di innescare una significativa inversione di tendenza. Quel poco di welfare che l'offensiva neoliberale sta spazzando via è stato pagato a duro prezzo dal movimento dei lavoratori, poiché ne ha determinato la sostanziale subalternità alla logica statuale rendendolo del tutto eteronomo.

Sperimentazione autogestionaria
La solidarietà sociale appare impossibile al di fuori della tutela e della mediazione statuale e della compatibilità con le esigenze del capitale. Respingere i progetti di privatizzazione in materia di sanità, istruzione, trasporti, previdenza per affidarsi nelle mani dello stato è il segno inequivocabile dell'incapacità di pensare e costruire un diverso ordine sociale. I sindacati confederali sono di fatto sindacati istituzionali, sindacati di stato.
Spezzare l'identificazione perversa tra pubblico e statuale, tra solidarietà sociale e stato pesante implica il riemergere significativo di forme di autonomia della società civile, ossia di una sfera pubblica non statale. Una sfera pubblica che è innanzitutto spazio di comunicazione, di interrelazione positiva tra le varie istanze sociali volte a valorizzare percorsi di auto organizzazione e autogestione. E quindi si configura come spazio simbolico e reale in cui una comunità fonda la propria autonomia, la propria capacità di autonormarsi, di appropriarsi di quella funzione politica che lo stato avoca a se stesso, in tal modo si supera la distinzione tra pubblico e privato, poiché si crea un terreno in cui i singoli interagiscono solidalmente, un terreno in cui sia possibile una prassi non subalterna.
In tale prospettiva l'autogestione si sposta dall'ambito utopico per divenire il fulcro d'un agire politico e sociale capace di ridefinire le coordinate di una progettualità immediatamente radicale. Chi rimanda la possibilità dell'autogestione ad un domani liberato, rinuncia inconsapevolmente alla valenza straordinariamente dirompente dell'autogestione.
L'attuale crisi del welfare può essere il punto di innesco per una sperimentazione autogestionaria che non sia mera palestra per il futuro, semplice modello per la società post-rivoluzionaria, ma occasione propizia per uno spostamento del conflitto con l'ordine vigente.
Un servizio autogestito non si limita a rispondere ad un'esigenza concreta di una data comunità, ma dà corpo alla comunità stessa che, nella libera interazione tra individui ed esigenze differenti, si riappropria della funzione politica, delegittimando lo stato. Autogestire un ambulatorio, una scuola, un servizio di trasporti non comporta solo la partecipazione diretta di operatori ed utenti ma il coinvolgimento della comunità nella definizione degli obbiettivi, nella valutazione dei risultati, nel reperimento delle risorse.

Non solo resistenza
La scelta autogestionaria fa crescere la città dei cittadini fuori e contro i palazzi della politica istituzionale. La cittadinanza si trasforma da astratta formula giuridica che sancisce la dipendenza dall'apparato statale a concreta dimensione partecipativa. La comunità non è mera comunità locale o gruppo di affinità allargato ma nella pratica dell'autogestione trova la propria identità, sì da configurarsi come società non chiusa ma aperta, plurima, spazio di moltiplicazione ed estensione delle differenze.
In quest'ottica l'autogestione, lungi dal rappresentare un'isola felice fuori dalla mischia dello scontro sociale, diviene la leva potente atta a sviluppare un conflitto positivo e non meramente resistenziale.
I sostenitori dello stato sociale, che ritengono che la prospettiva autogestionaria comporti un dispendio di energie insostenibile, che la relega alla funzione surrettizia di attività elitaria, una sorta di volontariato laico, non riescono a comprendere che il tempo e le risorse sono tra i terreni privilegiati sui quali si apre un conflitto che punti alla destatalizzazione del movimento dei lavoratori.
Una sostanziale riduzione dell'orario di lavoro e la diminuzione della pressione fiscale sui salari rappresentano obbiettivi capaci di mettere in gioco un percorso autogestionario. Non solo. Cooperazione sociale, mutuo soccorso, autogestione di servizi, necessitano d'una convergenza tra autoorganizzazione sindacale e chi mira alla creazione di sempre maggiori spazi d'autonomia dalla logica statuale.
In definitiva la crisi dello stato sociale, che pure comporta un peggioramento delle condizioni di vita e dei ceti più deboli, consente tuttavia di inaugurare una prassi che spezzi l'incongruo connubio tra pubblico e statale.
Scegliere tra uno stato leggero e uno pesante è scegliere tra la padella e la brace: puntare sull'autogestione coniuga l'effettualità nel qui ed ora con la capacità di rompere un ordine sociale ingiusto ed autoritario.