Rivista Anarchica Online
Oltre il welfare
di Maria Matteo
Ripensare il senso dell'opposizione politica e sociale. Verificare quali possibilità
concrete ci siano per un
progetto libertario di trasformazione sociale. Ecco due degli obiettivi che si è posto il
convegno su «Crisi del
welfare e progetto libertario» tenutosi in marzo a Torino
Il 18 e 19 marzo scorsi la Federazione anarchica torinese ha
promosso un convegno dal titolo: «Crisi del
welfare e progetto libertario». Erano presenti una cinquantina di compagni di varie
località che in due giornate
di intenso dibattito hanno tentato di analizzare le profonde trasformazioni che una politica
neoliberale sta
producendo nel nostro paese. Il convegno partiva dall'assunto che: «Il secco
ridimensionamento del welfare statale è, assieme al taglio dei
salari, alla riduzione delle libertà politiche e sindacali, alla modificazione in senso
autoritario ed efficentista
(almeno nelle intenzioni) della rappresentanza politica, la risposta delle classi dominanti, a
livello nazionale
ed internazionale, alla fine della fase di sviluppo economico che ha caratterizzato gli anni '60
e '70. La
sinistra politica e sindacale tende a dividersi, nell'ennesima guerra dei topi e delle rane, fra
modernisti,
fautori di una gestione democratica e concertata con i sindacati istituzionali del nuovo corso
economico e
sociale e difensori duri e puri di uno stato sociale presentato come orizzonte delle conquiste
del movimento
dei lavoratori. Il taglio del welfare può essere assunto come occasione per ripensare
il senso stesso
dell'opposizione politica e sociale». E quindi si proponeva di rispondere ad alcuni
specifici quesiti: - in che misura è possibile una destatalizzazione del
movimento dei lavoratori e quali obiettivi e pratiche
collettive possono caratterizzare questo processo? Per fare un solo esempio, è
possibile puntare su di una
riduzione della pressione fiscale sui salari? -la solidarietà fra lavoratori e
disoccupati oggi è mediata e stravolta dallo stato. Sono pensabili forme di
mutuo soccorso tali da battere i tentativi di privatizzare la previdenza, l'assistenza, la
formazione? - le esperienze di autogestione dei servizi e quelle di autoproduzione
possono svilupparsi in forme non
mercantili solo coordinandosi fra di loro e legandosi alle esperienze di autorganizzazione dei
lavoratori e dei
disoccupati. Quali ipotesi in questa direzione sono possibili? - le esperienze di pressione
dal basso sulle amministrazioni pubbliche per ottenere servizi, tutela
dell'ambiente, garanzie sociali sono oggi manipolate dalle istituzioni partitiche e sindacali e
dall'apparato
dello stato. Come può determinarsi un loro sviluppo autonomo ed indipendente?
- critica della condizione salariata e critica del prodotto del lavoro e della sua
organizzazione sono collegabili?
E in che maniera? E', insomma, possibile un punto di vista dei subalterni sull'oggetto della
propria attività
produttiva? Sia le relazioni introduttive sia l'ampia e articolata discussione che ne
è seguita hanno posto in campo un
ventaglio di ipotesi variegato e complesso. Gli intervenuti hanno comunque convenuto
nell'individuare
nell'affermarsi e radicarsi del welfare state il fulcro di un lungo e non sempre lineare processo
di
istituzionalizzazione e statalizzazione del movimento operaio. Barroero
non coglie una netta divaricazione tra la 1a e la 2a repubblica ed asserisce che: «Nel
nuovo - come
nel vecchio - la dipendenza riguardo al modello Welfare attraversa tutti gli strati sociali e
culturalmente
rappresenta la sublimazione di interessi molto materiali nel culto dello Stato come bene o
"casa" comune.
Una dipendenza determinata da motivi strutturali, favorita dall'instaurarsi e dal permanere di
situazioni
privilegiate e rafforzata dalla persuasione indotta che questo sia l'unico quadro di riferimento
possibile.
Dunque una profonda dipendenza culturale che sembra rendersi autonoma dalle
condizioni materiali e dai
rapporti di forza su di questi fondati ed esserne il puntello nei momenti in cui le prime si
deteriorano e i
secondi sono rimessi in discussione». E ritiene che «La
situazione attuale sembra delineare un contesto particolarmente interessante e stimolante
per tutti coloro che si riconoscono nella tradizione politica anarchica o nell'area culturale
libertaria, proprio
in virtù del caratteristico atteggiamento verso lo Stato e delle ripetute rivisitazioni -
appunto in chiave
antistatalista - delle prospettive autogestionarie. Le prospettive sembrano
favorire una nuova centralità -
ovviamente nel campo delle progettualità antagoniste extraistituzionali
- della nostra area, particolarmente
in rapporto alla relativa crescita di lotte spontanee ed autorganizzate». E' tuttavia
convinto che «fondare una teoria politica o costruire una progettualità sulla
prassi
dell'autogestione sia altamente rischioso perché non sembrano essere più
praticabili gli spazi sociali, politici
(e forse non esistere più quelli fisici) all'interno dei quali si possa dare una
comunità proletaria indipendente
ed una conseguente pratica sociale che non sia condivisione subalterna delle
difficoltà, della miseria e della
logica capitalistica. Allora forse la strada politicamente più produttiva e più
consona ad una tradizione
politica che si è costituita ed è cresciuta sulla negazione più radicale
delle istituzioni, non pare quella del
recupero di spazi mitici ed idealizzati, ma quella molto concreta della critica destrutturante e
della
riconfigurazione totale di quelli reali». Scarinzi ritiene che «il fatto che la
massa dei lavoratori salariati sia disposta a lottare "per la difesa dello
stato sociale" segnala il peso di una cultura politica riformista e statalista, la difficoltà
ad individuare nuove
vie d'azione, il fatto che, in questo contesto sociale, la difesa dell'intervento pubblico statale
appare a molti
lavoratori come l'unica maniera realistica per difendere quote di salario sociale»; e ne
deduce che «la nostra
partecipazione a questa lotta va oltre il pur necessario riconoscersi nell'opposizione sociale
nelle sue
espressioni immediate solo se siamo in grado di renderne esplicito il carattere materiale,
classista,
unilaterale contro ogni tentativo di collocarle in una prospettiva statalista, genericamente
solidarista,
corporativa e settoriale». E sostiene che «destatalizzare il movimento
operaio significa anche destatalizzare quote della riproduzione
sociale e riconsegnarne il governo ai soggetti sociali coinvolti. Questa tendenza è
oggi interpretata
dall'offensiva neoliberale come occasione per creare nuove quote di mercato per l'assistenza,
la previdenza,
la formazione privata. Contro lo stato e contro il mercato, si tratta di sperimentare forme di
associazione dei
lavoratori, degli utenti, dei senza salario. Appare, di conseguenza, evidente, il legame fra
costruzione di
esperienze del genere e riduzioni dell'orario di lavoro che permetta di modificare l'attuale
gestione del lavoro
domestico, della cura degli anziani, dei malati, dei bambini ecc .. Sottrarre tempo al lavoro
salariato come
possibilità di avere tempo per sé e di sfuggire al mercato dei servizi è
un obiettivo non nuovo ma essenziale». Antonelli nella sua relazione su
«Esperienze e limiti della cooperazione» ha svolto una puntuale e accurata
analisi sulle possibilità di sviluppare forme di gestione diretta e controllo all'interno
delle cooperative,
fornendo preziosi spunti al dibattito. Il senso dell'intervento della sottoscritta è
invece facilmente rintracciabile nel mio articolo pubblicato qui di
seguito cui pertanto mi permetto di rimandarvi.
Autogestione e cooperazione
sociale
Quand'ero bambina consideravo naturale e scontato che l'assistenza sanitaria e
l'istruzione fossero diritti
garantiti a tutti dalla collettività; non avevo dubbi nel ritenere che l'erogazione di
questi ed altri servizi non
fosse tra le prerogative essenziali dello stato. Lo stato non poteva che essere stato sociale:
scuola, sanità
previdenza ma anche trasporti, elettricità, poste mi parevano consustanziali
all'esistenza stessa dello stato.
All'epoca ignoravo che potessero esservi altri modi di concepire lo stato, non sapevo che oltre
allo stato
pesante che conoscevo potessero esservi modelli statuali leggeri o, al contrario, ancor
più spessi e pervasivi. Io faccio parte di una generazione nata all'epoca del boom
economico per la quale il compromesso
socialdemocratico sul quale si è retta per quasi cinquant'anni la repubblica sorta dopo
la guerra e la resistenza
era un dato ormai acquisito, consolidato. Assistiamo oggi al frantumarsi progressivo
dello stato sociale, conseguente alla rottura del patto
socialdemocratico, per il quale la sinistra aveva rinunziato alla propria carica rivoluzionaria
in cambio di un
vario insieme di servizi e garanzie. La sinistra ha ormai ben poco da gettare sul piatto
della bilancia: qualche timido sciopero generale o rare
manifestazioni nella capitale sono ben lieve spauracchio per una destra aggressiva e
socialmente radicata.
D'altra parte la divaricazione tra destra e sinistra appare sempre meno marcata sia sul piano
politico che
culturale. Tra pidiessini e forzisti la posta in gioco non sono certo le privatizzazioni o la
remissione dello stato
sociale ma la propensione a perseguire tali obiettivi avvalendosi o meno di forme di
ammortizzazione sociale.
La manovra bis del governo Dini, ampiamente sostenuta dai pidiessini ed avversata dalle
destre non segna
affatto un'inversione di tendenza rispetto al precedente esecutivo, del quale non
dimentichiamo che lo stesso
Dini era stato esponente di spicco. Ridurre il debito pubblico è obiettivo che
può essere perseguito puntando
su una diminuzione di spesa per i servizi con un maggior onere per i cittadini o con l'aumento
delle imposte
indirette che parimenti comporta una riduzione del potere d'acquisto dei salari. In entrambi i
casi vengono
colpiti i ceti meno abbienti e risparmiati i patrimoni. Mi è francamente difficile
cogliere una differenza
quantitativamente e qualitativamente rilevante tra chi aumenta i ticket su medicine e
prestazioni sanitarie e chi
fa lievitare i prezzi dei principali beni e servizi con un consistente ritocco dell'Iva.
Sfera pubblica non statale
Oggigiorno gli unici difensori dello stato sociale
rimasti sulla piazza sono gli esponenti di Rifondazione
Comunista, che, incapaci di cogliere le profonde trasformazioni del quadro politico e sociale,
si ostinano a giocare
una partita ormai persa. Una partita le cui regole, condizioni e poste in gioco paiono nette e
definite sia a destra
che a sinistra. L'opposizione tra stato leggero e stato pesante non sembra lasciare spazio ad
altre ipotesi. Fortunatamente la realtà sociale e politica è ben
più complessa e multiforme dell'angusto ambito istituzionale.
L'ampio e articolato dibattito sviluppatosi intorno alla nozione di sfera pubblica non statale
è il segno
inequivocabile dell'emergere di percorsi capaci di prescindere dalla dicotomia tra stato e
privato. Tentare di delineare una sfera pubblica non statale comporta la rescissione
dell'identificazione tra pubblico e
statale sulla quale lo stato fonda la propria legittimità. Nella concezione liberale lo
stato è il garante
dell'interesse pubblico e la sua funzione è essenzialmente regolativa; il possibile
esplodere di tensioni sociali
si riduce ad una questione di ordine pubblico: uno stato leggero si serve di robusti randelli.
Nell'approccio
welfarista lo stato non si limita ad un ruolo arbitrale rispetto al conflitto sociale ma mira a far
coincidere il
proprio operato con gli interessi generali della collettività. Sappiamo che in
realtà gli unici interessi che le
istituzioni tutelano sono quelli del ceto politico che le sostiene e l'erogazione di servizi
è un modo efficace di
prevenire e smorzare lo scontro sociale, smussandone gli angoli. Nondimeno il mito dello
stato padre
amoroso è un mito potente, che pare ben arduo scalfire. Specie a sinistra.
Intendiamoci: sono ben consapevole che il restringersi del welfare ha prodotto, produce
e sempre più produrrà
effetti devastanti sul piano sociale; abbiamo tutti dinanzi agli occhi i disastri che la politica
economica
ultraliberista ha causato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, al punto che in paesi tra i
più ricchi e avanzati
del pianeta troviamo ampi strati sociali che vivono al di sotto della soglia di povertà.
Non è difficile prevedere che in Italia possa delinearsi un quadro anche
più desolante, poiché nel nostro paese
garanzie quali il salario garantito ai disoccupati, che un falco liberista come la Thatcher ha
ridotto ma non
eliminato, non ci sono mai state. Negli anni '80 la disoccupazione ha colpito soprattutto le
fasce giovanili,
che, pur non godendo di alcuna forma di tutela, sono sopravvissute grazie alla
solidarietà familiare. Oggi il
quadro è mutato: sempre più numerosi sono coloro che vengono espulsi dal
mondo del lavoro e non hanno
più alcuna possibilità di reinserirvisi: la disoccupazione ormai si configura
come dato strutturale e non
contingente. Se a ciò si aggiunge che il blocco dei salari e il crescere vertiginoso
delle spese per tutti i servizi
essenziali ha già determinato un netto peggioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori, lo scenario che
abbiamo di fronte non è certo dei più rosei. Nondimeno la mera difesa di
sempre più esigui margini di welfare
attuata dalla sinistra non solo è pateticamente inutile ma soprattutto si mostra priva di
prospettive per il
futuro, incapace di innescare una significativa inversione di tendenza. Quel poco di welfare
che l'offensiva
neoliberale sta spazzando via è stato pagato a duro prezzo dal movimento dei
lavoratori, poiché ne ha
determinato la sostanziale subalternità alla logica statuale rendendolo del tutto
eteronomo.
Sperimentazione autogestionaria
La solidarietà sociale appare impossibile
al di fuori della tutela e della mediazione statuale e della compatibilità
con le esigenze del capitale. Respingere i progetti di privatizzazione in materia di
sanità, istruzione, trasporti,
previdenza per affidarsi nelle mani dello stato è il segno inequivocabile
dell'incapacità di pensare e costruire un
diverso ordine sociale. I sindacati confederali sono di fatto sindacati istituzionali, sindacati di
stato. Spezzare l'identificazione perversa tra pubblico e statuale, tra solidarietà
sociale e stato pesante implica il
riemergere significativo di forme di autonomia della società civile, ossia di una sfera
pubblica non statale.
Una sfera pubblica che è innanzitutto spazio di comunicazione, di interrelazione
positiva tra le varie istanze
sociali volte a valorizzare percorsi di auto organizzazione e autogestione. E quindi si
configura come spazio
simbolico e reale in cui una comunità fonda la propria autonomia, la propria
capacità di autonormarsi, di
appropriarsi di quella funzione politica che lo stato avoca a se stesso, in tal modo si supera la
distinzione tra
pubblico e privato, poiché si crea un terreno in cui i singoli interagiscono
solidalmente, un terreno in cui sia
possibile una prassi non subalterna. In tale prospettiva l'autogestione si sposta
dall'ambito utopico per divenire il fulcro d'un agire politico e
sociale capace di ridefinire le coordinate di una progettualità immediatamente
radicale. Chi rimanda la
possibilità dell'autogestione ad un domani liberato, rinuncia inconsapevolmente alla
valenza
straordinariamente dirompente dell'autogestione. L'attuale crisi del welfare può
essere il punto di innesco per una sperimentazione autogestionaria che non sia
mera palestra per il futuro, semplice modello per la società post-rivoluzionaria, ma
occasione propizia per uno
spostamento del conflitto con l'ordine vigente. Un servizio autogestito non si limita a
rispondere ad un'esigenza concreta di una data comunità, ma dà corpo
alla comunità stessa che, nella libera interazione tra individui ed esigenze differenti,
si riappropria della
funzione politica, delegittimando lo stato. Autogestire un ambulatorio, una scuola, un
servizio di trasporti non
comporta solo la partecipazione diretta di operatori ed utenti ma il coinvolgimento della
comunità nella
definizione degli obbiettivi, nella valutazione dei risultati, nel reperimento delle risorse.
Non solo resistenza La scelta
autogestionaria fa crescere la città dei cittadini fuori e contro i palazzi della politica
istituzionale. La
cittadinanza si trasforma da astratta formula giuridica che sancisce la dipendenza
dall'apparato statale a concreta
dimensione partecipativa. La comunità non è mera comunità locale o
gruppo di affinità allargato ma nella pratica
dell'autogestione trova la propria identità, sì da configurarsi come
società non chiusa ma aperta, plurima, spazio
di moltiplicazione ed estensione delle differenze. In quest'ottica l'autogestione, lungi dal
rappresentare un'isola felice fuori dalla mischia dello scontro sociale,
diviene la leva potente atta a sviluppare un conflitto positivo e non meramente resistenziale.
I sostenitori dello stato sociale, che ritengono che la prospettiva autogestionaria
comporti un dispendio di
energie insostenibile, che la relega alla funzione surrettizia di attività elitaria, una
sorta di volontariato laico,
non riescono a comprendere che il tempo e le risorse sono tra i terreni privilegiati sui quali si
apre un conflitto
che punti alla destatalizzazione del movimento dei lavoratori. Una sostanziale riduzione
dell'orario di lavoro e la diminuzione della pressione fiscale sui salari
rappresentano obbiettivi capaci di mettere in gioco un percorso autogestionario. Non solo.
Cooperazione
sociale, mutuo soccorso, autogestione di servizi, necessitano d'una convergenza tra
autoorganizzazione
sindacale e chi mira alla creazione di sempre maggiori spazi d'autonomia dalla logica
statuale. In definitiva la crisi dello stato sociale, che pure comporta un peggioramento
delle condizioni di vita e dei ceti
più deboli, consente tuttavia di inaugurare una prassi che spezzi l'incongruo connubio
tra pubblico e statale. Scegliere tra uno stato leggero e uno pesante è scegliere
tra la padella e la brace: puntare sull'autogestione
coniuga l'effettualità nel qui ed ora con la capacità di rompere un ordine
sociale ingiusto ed autoritario.
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