Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 212
ottobre 1994


Rivista Anarchica Online

Nel nome di Bart
di Antonio Lombardo

Eravamo in pochi sabato 30 luglio dietro quella bara, trenta persone, se togli il prete, il sacrista e le pie donne della misericordia, e se togli anche i famigliari di Ettore, non più di venti persone, puoi definirli «conoscenti» e amici, hanno seguito il corpo di Vincenzina. Il Comune ha mandato un vigile urbano. Praticamente c'era nessuno, nessuno di quelle migliaia e migliaia di persone che hanno fisicamente conosciuto l'ultima sorella, l'ultima testimone, l'ultima persona che ha conosciuto Bartolomeo Vanzetti, il suo Tumlìn. Era la sua ultima sorella, la sorellina «che è tanto intelligente» come scriveva Bartolomeo nel 1906 e Vincenzina aveva solo tre anni. Non era anarchica; cattolica, credente nello stato di diritto e convinta della validità della Costituzione repubblicana, aveva lottato decine di anni, da quando era morta Luigina nel 1950, per avere la riabilitazione legale di suo fratello assassinato in quel 22 agosto 1927 insieme con Nicola Sacco. Eppure era orgogliosa dell'anarchismo di suo fratello: il senso della dignità personale, lo studio, la cultura e la ricerca come strumenti di emancipazione da un padrone, la responsabilità che deve essere personale, questo era l'anarchismo che Bartolomeo le aveva insegnato e che teneva come memoria storica insieme con quelle carte tenute insieme da tanti fiocchi come le carte di un innamorato, dentro quel baule che Tumlìn si era portato dietro in America.
Lei impiegata comunale, di media cultura, aveva saputo coinvolgere politici come Nenni e Terracini, ricostruire un Comitato Sacco e Vanzetti che era stato, negli anni 60 un momento di unità di quella sinistra socialista e comunista, disunita e litigiosa per altri versi; aveva contattato e aperto la porta di casa a registi, uomini di cultura, giornalisti di mezzo mondo, scrittori americani, ricercatori universitari e avvocati, più o meno sciacalli, pur di far sapere a tutti che il «Caso Sacco e Vanzetti» non è chiuso e non poteva chiudersi così. Voleva la riabilitazione della memoria e quindi la revisione del processo, ottenne la Dichiarazione Dukakis del luglio 1977, a 50 anni dall'assassinio di Nick e Bart. Il Governatore dello Stato del Massachusetts dichiarò formalmente che quel processo era frutto di caccia alle streghe, che la giuria era pregiudicante e che quindi «ogni stigma e onta dovesse essere allontanata dalle figure di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti» e dalla loro progenie e, dulcis in fundo, dallo Stato del Massachusetts. Fu un colpo al cerchio ed uno alla botte. Era la prima volta che uno stato, nella sua istituzione più alta dichiarava formalmente e solennemente di essersi sbagliato e che due lavoratori erano stati uccisi ingiustamente. Non era ancora quello che Vincenzina avrebbe voluto, la Dichiarazione non la soddisfaceva, ma la mobilitazione aveva sortito un frutto e le conseguenze istituzionali si fecero sentire: si riaprì il Caso Sacco e Vanzetti, e le memorie di sindaci locali ricordarono Sacco e Vanzetti con qualche via e una lapide sulla casa natale. Non passava giorno che la RAI, un Comitato, la Regione, un Comune, un Istituto, un partito o una associazione non indicessero una conferenza, un dibattito, un filmato, un incontro, una manifestazione sul caso dei due «democratici lavoratori» assassinati ingiustamente. Vincenzina partecipava, aderiva, ma non le bastava. Quando nel settembre 1977 la manifestazione ufficiale del Comitato Sacco e Vanzetti si svolse a Villafalletto, davanti alla casa dei Vanzetti, si presentarono gli anarchici di Torino a rivendicare le responsabilità di Nicola e Tumlìn: erano colpevoli di essere anarchici, erano colpevoli di partecipare alle lotte per l'emancipazione dei lavoratori, erano dentro e corresponsabii della conflittualità tra i lavoratori e sfruttatori nell'America di quel tempo, ed erano stati assassinati per questo come Pinelli, come Serantini, con l'unica colpa di essere anarchici ed ora lo Stato che li ha assassinati assolve se stesso dichiarandosi «democratico» per aver chiesto scusa. Gli anarchici ricordano che avvallare quella Dichiarazione di Dukakis significava dar credito allo stesso Stato che ha ucciso i nostri compagni. Vincenzina quel giorno era sul palco con le autorità, in silenzio. Vide Tobia salire sulla scala a porre la nostra lapide chiara e sincera, vide il sindaco di Racconigi strappare i nostri cartelli e sapeva che quella nostra lapide il giorno dopo sarebbe stata tolta e distrutta.
Riunì il Comitato locale e qualche partigiano, scrisse una lettera al Sindaco affinché quella lapide non fosse tolta. «Il mio Tumlìn era anarchico» Vincenzina lo ha sempre detto alla luce del sole, perché era la dignità di suo fratello e così doveva essere riconosciuto ai suoi compagni. La lapide è ancora lì sul corso Sacco e Vanzetti a Villafalletto, su quella che fu la sede del locale Comitato Sacco e Vanzetti. Nel 1986 la cercai per dirle del convegno sul 60° anniversario, lo avremmo tenuto a Villafalletto e avremmo ricercato la logica di quel caso; non la cronaca dei fatti, ma il perché è successo, quello volevamo dire nel Convegno. Diventammo amici, aperta la porta ci si parlava in cucina, magari mentre si giocava a carte con Caterina, la sua cugina amica, più che parente. Vincenzina aderì al Convegno del 1987, non solo aderì, ma quelle carte che aveva custodito Luigina, salvandole da razzie fasciste e sciacallaggi, magari da chi, in buona fede e scema cultura, pensava che bisognava sbarazzarsene come una vergogna, causa di fastidi - quanti villafattesi la pensavano così e quanti ancora pensano sia un fastidio la presenza storica dei Vanzetti -, quelle carte che ora sono il Fondo Vanzetti, vennero messe a disposizione dell'Istituto Storico della Resistenza con l'accordo che copia conforme dovesse essere donata agli archivi del movimento anarchico italiano, in pratica al Centro Studi Libertari «Giuseppe Pinelli» di Milano e all'Archivio Famiglia Berneri, allora a Pistoia. Questo scrisse Vincenzina a Michele Calandri, direttore dell'Istituto Storico della Resistenza in Provincia di Cuneo.
Anni fa, un avvocato di Milano, pensando che Bill Clinton, presidente «democratico», fosse meglio di un repubblicano, ripropose la revisione del processo.
Le telefonai per chiederle cosa ne pensava e le sue parole furono miele per me: «Non c'è bisogno di nessun nuovo processo, è già acquisito che erano e sono innocenti, è già nella memoria storica». Come per Pinelli, come Serantini, come per mille altri assassinati o lasciati morire in nome della «Ragion di Stato». È già nella memoria. Sentii la sua voce giovane sorridere e pensai che, posato il telefono, sarebbe ritornata a giocare a carte con Caterina, serena. Sì, serena nonostante il male la divorasse fino a farle diventare pesante tutto il corpo giorno dopo giorno, prima le braccia poi gli ultimi mesi era solo più a letto, ma chi le stava vicino sa che sapeva ancora sorridere, coi suoi occhi chiari e la voce giovane. Una donna bella.
Per quanti al suo funerale pensavano di sbrigarsi a seppellirla, rimane significativo un episodio. Alla fine della sepoltura, un giovane, un ragazzo ben vestito senza barba, magro e serio, si avvicinò al figlio di Ettore - l'ultimo fratello di Bartolomeo morto una decina d'anni fa - «le porto il saluto della Lega Internazionale dei Diritti dell'Uomo e, personale, di Joan Baez».
La memoria storica continua, chi sa diventa a sua volta testimone.