Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 203
ottobre 1993


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

L'ideologia del punto di vista

Mi è capitato più volte di interrogarmi sulla natura del film codificato sotto il genere «guerra». Mi son fatto domande del tipo: di che impresa si tratta? E se, oltre che bellico, è storico? E se si tratta di storia recente, almeno tanto recente da averci a disposizione fior di documenti e di testimoni?
La visione di Stalingrad di Joseph Vilsmaier sembra fatta apposta per provare qualche risposta - pur sapendo che, con queste tematiche, si finisce sul terreno spinoso delle domande sulla natura della storia e sull'affidabilità dei risultati dello storiografo.
Innanzitutto, allora, una volta acquisite le fonti, per il regista è indispensabile rompere quel flusso unitario di informazioni e selezionarne alcune campionature. Sono gli episodi - quelli che, poi, ricuciti in un ordine - costituiranno il film che verrà offerto alla percezione dello spettatore. Ovvio che il criterio di selezione di questi campioni sia correlato alle tesi che si vorrebbe sostenere. Gli esempi di Stalingrad: l'assalto al focolaio di resistenza e il massacro conseguente (la follia omicida degli alti ufficiali, lo sprezzo della vita altrui, l'imbecillità di chi comanda); lo sparo al compagno di reparto preso per nemico (la paura che alberga ovunque, il tornaconto personale messo innanzi a qualsiasi interesse comune); la richiesta di sospensione dei combattimenti (l'umano ch'è in noi prevarrebbe sulla bestia feroce addestrata dallo Stato, al di là delle opposte fazioni la pietà ci affratella); la corte marziale promessa al tenente che mostra equità verso i sottoposti e verso il nemico (contraddizioni tra gli ufficiali, la guerra non conosce regole); l'uccisione degli ostaggi (né senso di giustizia né riconoscenza sono concessi all'uomo in guerra); etc. A ogni episodio - anche a quelli minimi, come lo scambio di un pezzo di pane fra nemici o ad un abbraccio fra amici sofferenti - il suo senso: per una tesi complessiva che evidenzi la vanità del massacro e nello specifico (Hitler riteneva che Stalingrado fosse strategicamente cruciale per fermare i sovietici) e in generale (no alla guerra). Anche la narrazione «civile» - per contrapporla a quella «bellica» - ritaglia frammenti esemplari, ma, lì, l'impegno a «dare senso» sembra meno stretto, c'e anche posto, come nella vita di tutti i giorni, per il trascurabile, per il meno significante: la «teoria» non coinvolge masse e pensiero collettivo storicizzato, ma il microcosmo delle singole personalità, la diversità biologica di ciascuno. Poi c'è la scelta fondamentale, quella del «punto di vista». Ci sono voluti cinquant'anni, per esempio, perché l'espansione coloniale americana, al cinema, potesse esser guardata anche da chi l'ha subita e non solo da chi, armi in pugno, l'ha cinicamente portata a termine. In Stalingrad, dopo anni di cinema bellico in cui la seconda guerra mondiale era vista da chi l'ha vinta (con poche buone eccezioni, come l'U-Boat di Petersen), gli episodi costituenti l'intera narrazione sono vissuti da chi l'ha persa. In ragione di ciò si sgretola il monolite dell'ideologia nazista e lo si ritrova, nel martirio dei suoi personaqgi, ridotto alle sue contraddizioni più intrinseche. Beninteso, anche il cambio del punto di vista, in quanto scelta fatta oggi, ha le sue ragioni ideologiche più e meno confessabili. Si crede di abbandonare la retorica della vittoria, ma non ci si accorge di abbracciare quella della sconfitta. Si passa da una semplificazione all'altra, senza rendersi conto che le contraddizioni di ieri vengono fatte esplodere con gli strumenti analitici di oggi. Sotto la strana idea che ci possa essere un punto di vista «migliore» degli altri, c'e la pretesa di «spiegare», e di spiegare come sono andate «realmente» le cose, che fa capolino ovunque e comunque. L'invadenza dell'addottrinamento al soldo di chissà chi, con qualche tentativo di epica funeraria. Sapendo, allora, che la rappresentazione degli orrori - perché di questo un film bellico che meriti il rispetto dei contemporanei si pasce - non ne evita nemmeno uno di quelli che ci aspettano, varrebbe la pena di lasciar perdere. Almeno tassare chi, in buona o in cattiva fede, ci promette la «verità storica».