Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 203
ottobre 1993


Rivista Anarchica Online

Centri sociali & dintorni
di AA. VV.

Padova: un'esperienza di autogestione
Nella primavera del 1992, il Centro di Documentazione Anarchica fu sfrattato da una palazzina situata nel centro di Padova, insieme ad altre associazioni. Unendo le forze, nel luglio 1992 si decise di occupare una scuola elementare in disuso e nacque la Casa dei Diritti Sociali, luogo in cui ogni associazione ha una propria sede (un'aula scolastica) e degli spazi comuni da gestire.
L'occupazione doveva essere la nostra «proposta» nei confronti delle autorità comunali, che più volte si erano dette disponibili a fornirci una sistemazione adeguata.
Da allora siamo in trattativa con il Comune per regolarizzare la situazione. Ci siamo visti costretti a rapportarci con le istituzioni per non dover impiegare tutte le nostre forze nella difesa di un centro occupato, cosa impossibile considerando l'esiguo numero di occupanti e la specifica realtà Padovana.
La spinta da cui tutti gli occupanti erano inizialmente animati, era rivolta a fornire un punto di riferimento per gli abitanti del quartiere e a creare nel Padovano un centro che superasse alcune limitazioni dei centri sociali preesistenti. Ci si accorse che la cooperazione si fermava davanti a barriere ideologiche, essendo le altre associazioni di stampo marxista, o più semplicemente si arenava di fronte ai mezzi da usare per raggiungere l'apertura verso l'esterno.
Noi stiamo cercando, pur tra le difficoltà, di praticare l'autogestione degli spazi, della cultura.
Le esperienze fatte dal Centro di Documentazione Anarchica all'interno della Casa dei Diritti Sociali e anche esternamente ad essa, sono riuscite a far vivere questo spazio creando possibilità di incontro, discussione, lavoro comune. Offrire alla gente del quartiere e non, una realtà con la quale esista un rapporto dialettico, che proponga analisi diverse da quelle del sistema, un luogo di aggregazione per mezzo di concerti, teatro, feste, una cultura «alternativa» tramite conferenze, dibattiti, video. Una fornita biblioteca anarchico-libertaria aperta alla consultazione, autoproduzione (laboratorio serigrafico), distribuzione, un luogo dove esista comunicazione e autoespressione. Tutto ciò sempre unito alla consapevolezza che uno spazio non deve esistere fine a se stesso, non deve essere fulcro e prigione per le individualità che ci lavorano, ma dovrebbe essere aperto verso l'esterno, reale interlocutore, rischiando diversamente l'annichilimento.
Da questo quadro a volte traspare la disorganizzazione di un gruppo composto da poche individualità che, anche se pieno di energia, non era pronto ad affrontare la gestione di uno spazio senza incorrere in situazioni stressanti, che potrebbero rendere vani gli sforzi perseguiti e le potenzialità dei singoli, scoraggiandone le attività future. Stiamo lavorando per aumentare i mezzi a nostra disposizione in modo da ampliare le possibilità d'azione in vista di una reale cooperazione tra i centri anarchico-libertari esistenti.

Centro di Documentazione Anarchica (CDA)
presso la Casa dei Diritti Sociali - Via Tonzing, 9 35100 Padova

Roma: Alice nella Città
Ci troviamo ad «Alice nella Città» che ospita compresa fra quattro lati, la collina che ospita la zona benestante, il Borghetto, la parte più antica di valle Aurelia dove ci sono le case occupate, il Parco (ex discarica) e le case popolari. Parliamo con Giorgio Soffientini.
Qual è il ruolo degli anarchici all'interno del centro sociale?
Non c'è ruolo né di anarchici né di altri. È tutto a livello di persone: ogni singola persona è un gruppo e i vari gruppi fanno l'insieme del collettivo. C'è il tentativo di esprimere i propri contenuti da parte dei singoli. A differenza di altri centri sociali, dove ci sono le componenti ben prefissate che portano poi a scontri interni, qui non c'è nessun ruolo di gruppi opposti, quindi non c'è un ruolo degli anarchici come gruppo organizzato.
Anche perché forse sarebbe una contraddizione in termini?
Certamente, anche perché il presupposto di questa autogestione è quello di non fare un gruppo all'interno del gruppo ma di contaminarsi e lavorare insieme agli altri a tutto campo, andando sempre verso il dialogo e non verso lo scontro. Negli altri centri sociali di Roma gli scontri politici esistono; la peculiarità di Alice è che tali scontri interni non ci sono.
La gente comunemente percepisce i centri sociali come ghetti; Alice, viste le sue iniziative e collaborazioni, è proiettata verso l'esterno. Avete qualche discriminante?
L'unica vera discriminante è quella di farci riconoscere come un'entità reale e di approvare l'occupazione che abbiamo fatto. In questo non abbiamo mai avuto problemi. C'è stata una petizione fatta da due fascistelli che però è finita male. La gente benestante non ci vede bene, ma non ci vede neanche male perché con il nostro arrivo abbiamo bloccato un giro di droga che si è dovuto spostare in un'altra zona.
Non ci sono state ritorsioni?
No, perché siamo un collettivo numeroso, di circa cinquanta persone; le ritorsioni si fanno alle singole persone e non a un gruppo organizzato. C'è stato all'inizio uno spacciatore che ha cercato di entrare ma è stato bloccato, grazie anche all'appoggio di quelli del Borghetto, che sono occupanti anche loro e che hanno subito solidarizzato con noi. Gli altri contatti che abbiamo con l'esterno sono le associazioni che lavorano per il Parco del Pineto contro le speculazioni ferroviarie. Poi collaboriamo con una associazione che si occupa di handicappati, a cui abbiamo messo a disposizione il centro per una festa. Inoltre stiamo facendo un lavoro di studio sulle tossicodipendenze per poter collaborare con le istituzioni già esistenti che operano su questo territorio.
Avete rapporti con associazioni religiose o con la Parrocchia?
No. Abbiamo rapporti solo con una suora che lavora con i minori e che porta i bambini a giocare qui il pomeriggio.
Ci sono prospettive di lavoro future per i prossimi mesi?
Per ora continuiamo con quello che già stiamo facendo; sicuramente in futuro dovremmo ristrutturare la sede per renderla più accogliente.

Bruno Bernardi

Alessandria: noi del Forte Guercio
Come nasce Forte Guercio?
Salvatore: Nel maggio del '90 il gruppo anarchico Sciarpa Nera e la fanzine TNT, occupano Villa Guerci, in pieno centro. È la seconda occupazione nella storia della città di Alessandria; la prima, nel '77, sempre di Villa Guerci era durata poche ore. Questa volta l'occupazione funziona; grazie alla forte presenza anarchica ci si organizza su principi antiautoritari, tutto il potere decisionale è in mano all'assemblea a cui chiunque può partecipare, le decisioni non vengono approvate in base alla maggioranza ma in base all'unanimità dei presenti.
Si organizzano concerti, spettacoli teatrali, dibattiti, si vive dentro la villa, tutto questo fino al luglio del '90 quando, in seguito all'interpellanza parlamentare dell'ora ministro liberale Cosa, avviene lo sgombero. Noi rispondiamo con la resistenza passiva, solita denuncia, processo e assoluzione perché riconosciuti in meno di dieci.
Per tutta l'estate continuiamo a trovarci davanti alla villa, vengono compiute alcune azioni simboliche come l'incatenamento del comune con cartello «Il comune incatena il Guercio, noi incateniamo il comune».
A settembre occupiamo il Forte, questa volta non siamo più solo anarchici ma più vaste realtà giovanili genericamente libertarie che condividono la nostra necessità di fare delle cose, di dare forma e corpo ai propri desideri.
Federico: L'assemblea accetta di fare richiesta di comodato a nome di una associazione culturale, per motivi legali viene firmata da Salvatore, il comodato è rifiutato mentre la richiesta è usata come prova contro Salvatore che viene processato per occupazione: in 1° grado viene condannato, in 2° grado viene rinviato per insufficienza di prove e vizi di forma. Da quel momento l'assemblea decide di non cercare più soluzioni legali. Tuttora l'intendenza di finanza, che è la proprietaria del Forte, continua a mandare lettere minatorie chiedendoci di pagare una strana sorta di multa-affitto-indennizzo che noi ovviamente non paghiamo non riconoscendo la controparte. Ultimamente, in clima di elezioni, ci è giunta una richiesta detta e non detta da parte di alcune forze di sinistra, le stesse che ci avevano fatto sgomberare, di accettare il comodato. L'assemblea ha rifiutato in quanto trattavasi di semplice manovra elettorale, una richiesta di voti, dato che il Forte è frequentato da moltissimi giovani, goffamente velata. Questa, comunque, è la dimostrazione che in città siamo presenti e conosciuti, non il classico ghetto dei centri sociali.

Che rapporto avete con la città?
Salvatore: Abbiamo deciso di avere un atteggiamento aperto nei confronti dell'opinione pubblica. Spesso i centri sociali amano dare una immagine di loro stessi estremamente provocatoria, volgare, con una esaltazione degli elementi più esasperati; non è il nostro caso, non ci interessa il ribellismo fine a se stesso. Tra i suoi propositi Forte Guercio ha quello di intervenire concretamente sui problemi della città, problemi che non riguardano solo gli occupanti ma molti cittadini, come, per esempio la battaglia che abbiamo fatto per impedire la costruzione di un inceneritore in un ex-manicomio.
Altro discorso importante è quello dell'arte: «Le piume del pavone», una tre giorni artistica che ha ospitato poeti, registi, scultori, pittori di tutta Italia, ha avuto un notevole impatto sulla città, centinaia di persone non solo giovani, sono venute al Forte, e tramite l'arte abbiamo potuto trasmettere schegge, frammenti del discorso libertario a un vasto ambiente solitamente difficile da raggiungere. Una iniziativa che il comune non è certo in grado di organizzare mentre è stata possibile per noi, realtà occupata e autogestita.
Federico: Parlando di progetti futuri, oltre ad una seconda edizione de «Le prime del pavone» abbiamo intenzione per il futuro di aprire lo spazio all'incontro tra le varie realtà «antagoniste», con campeggi, ad esempio, grazie anche alle possibilità architettoniche di questo luogo. Ciò permetterebbe un maggiore collegamento interno tra i centri sociali e una migliore conoscenza esterna del fenomeno centri sociali nella sua globalità. .

Che rapporto avete con gli altri centri sociali?
Salvatore: Malgrado le differenze, a volte notevoli, che possono esserci, realtà libertarie come il centro sociale El Paso di Torino, Piloto Io di Aosta, il collettivo Tanika di Cuneo, con la loro presenza e il loro aiuto hanno contribuito all'esistenza stessa del Forte.
C'è stato un coordinarsi solidaristico all'occorrenza e c'è un collegamento continuo. Forte Guercio è sicuramente un centro sociale un po' anomalo in quanto tutti noi lavoriamo o studiamo, non c'è una politica di rifiuto del lavoro, tutti noi abbiamo una nostra casa, nessuno vive qui viste anche le difficoltà materiali che ci sono.

Oltre alle attività interne come concerti o iniziative artistiche fate anche iniziative esterne?
Salvatore: Certamente, abbiamo fatto numerose manifestazioni che vanno da azioni simboliche come l'incatenamento del comune o di noi stessi ad una statua, azioni che malgrado la loro semplicità hanno avuto vasta eco nella stampa locale, a presidi di una intera giornata in più piazze di Alessandria durante la guerra del Golfo.
Naturalmente, problema credo comune un po' a tutti i centri sociali, c'è una differenza numerica tra il numero di frequentatori del Forte e il numero di partecipanti alle iniziative politiche in senso più stretto, per cui molti progetti fanno fatica a realizzarsi.
Federico: Cercando di far passare il maggior numero possibile di stimoli e informazioni anche durante i concerti con interventi, discorsi, banchetti, volantini ecc.

Voi sputate l'anima, lavorate, sognate in questo posto sapendo che domani possono sgomberarvi, come si vive questa condizione?
Salvatore: All'inizio abbiamo interrotto i lavori alla minaccia di sgombero, poi uno degli slogan che abbiamo fatto nostro è «noi navighiamo sempre in mare aperto» tutto sommato vivere così tiene alto il tono dell'azione, comunque se una iniziativa è buona e ci piace la facciamo senza problemi.

Mauro Decortes
Maddalena Sternai

Palermo: ripensando Montevergini
Riandare con la memoria riflessiva ai tre anni di occupazione dell'ex Camera del Lavoro palermitana di via Montevergini non è così semplice poiché significa affrontare gli anni ottanta a Palermo, e noi stessi in quegli anni. Anni per lo più «cattivi», densi di rimozioni collettive, pregni di senso di sconfitta, vissuti nel silenzio della ragione. L'occupazione del Montevergini segna, per quanti di noi intrapresero o proseguirono un percorso di presenza libertaria a Palermo, il punto di arrivo, difficile, pieno d'ostacoli, di slanci e ritirate, senza «punti forti» cui agganciarsi: una scommessa con noi e con la città.
Erano gli anni delle lotte antimilitariste a Comiso e contro un ventilato immenso poligono militare sui Nebrodi, del sostegno fattivo agli obiettori totali, delle mobilitazioni contro gli interventi militari in Libano, in Libia e nel Golfo Persico. Anni in cui verificammo la frantumazione del tessuto urbano di Palermo, parcellizzata in micro-realtà territoriali senza senso comunitario, anzi rimodellate dal clientelismo politico e dal tallone mafioso.
Allora eravamo alla ricerca di un diverso modo di fare politica che non fosse mera rappresentanza di noi stessi, né testimonianza di un mondo utopico estraneo pure a quanti vivevano difficilmente la Palermo degli omicidi eccellenti politico-mafiosi e le prime risposte giudiziarie. I ragazzi de1l'85, una nuova realtà giovanile in movimento, i primi «cambiamenti» all'interno dei Palazzi del potere ci trasmisero il sintomo di una sensibilità diversa verso le cose e la realtà cittadina.
Sostenemmo per primi l'esperienza pilota dell'asilo autogestito dalle donne di Borgo Nuovo (ghetto periferico a forte composizione proletaria), prima di essere «criminalizzati» e poi espulsi dalle abili manovre di sempre degli uomini di Leoluca Orlando, fresco sindaco del rinnovamento e della speranza della società civile, in ciò coadiuvato dagli ex-demoproletari e dall'assessore verde Letizia Battaglia, traslocati armi e bagagli (mentali e comportamentali) vicino al futuro leader della Rete, allora democristiano dissidente la cui elezione a sindaco con i voti del Pci fu compensata con l'elezione di un andreottiano-limiano a presidente della provincia, sempre con il benestare del Pci del rinnovato Folena. Tornando a noi, incontrammo una serie di soggetti individuali che condividevano l'esigenza di modificare radicalmente la realtà cittadina, costruendo nel territorio qualcosa di ben visibile a tutti, che si toccasse con mano, che diventasse presenza tangibile di una esperienza libertaria collettiva.
Così nell'aprile del 1989, prima di piazza Tienanmen e della caduta del muro di Berlino, occupammo l'antico Monastero di via Montevergini: nasceva il Centro Sociale Autogestito Montevergini, prima esperienza autogestionaria a Palermo, ed in pieno centro storico. In esso vedevamo e vediamo tuttora lo spazio urbano dove si andranno a rideterminare i nuovi assetti di dominio ed a ridisegnare la Palermo del duemila, grazie ad un Piano Particolareggiato Esecutivo che muta volto al centro storico.
Tanto entusiasmo, tanta voglia, tanto desiderio all'opera. L'inizio è stato come un «sogno» ad occhi aperti, tutto sembra possibile, si intravedono nuove relazioni interpersonali, si delinea una nuova qualità della vita, si carica di utopia concreta uno spazio liberato da reinventare.
Ci rapportammo con un quartiere «che non esisteva più», diventammo punto di riferimento per diverse iniziative locali, regionali e nazionali, ci buttammo a capofitto nella Pantera, accogliemmo gli extra-comunitari, lottammo contro i signori della guerra, fummo idealmente vicini con i cinesi massacrati, producemmo un manifesto internazionale contro le stragi di stato a vent'anni da piazza Fontana, organizzammo tante feste, tantissimi concerti.
Eravamo cambiati dentro, ci scontravamo con la misera quotidianità del presente, e alla fine non reggevamo il peso di una scissione sempre più schizofrenica. Presto il Centro cominciò a cortocircuitare su se stesso, non sapendo imprimere il colpo di accelerazione, il salto di qualità necessario per non farci sommergere dall'ineluttabilità dei ritmi ordinari d'esistenza: insomma, trasformare uno spazio chiuso liberato invadendo il resto della città che ci «assediava». Difficoltà nei rapporti tra occupanti, con tossici e spacciatori, con chi si compiaceva della propria automarginalità, con i «reietti» del quartiere: questioni che non volemmo e non sapemmo affrontare e risolvere responsabilmente. Costituendo la prima esperienza autogestionaria a Palermo, in essa si sono proiettate contemporaneamente e confusamente diverse istanze presenti nel tessuto e nel vissuto cittadino: chi finalmente trovava un «centro» dove riannodare le fila di un discorso militante ed intergruppo di segno politico; chi un «centro» su cui convergere dai diversi micro-ghetti metropolitani; chi uno spazio creativo di elaborazione artigianale, teatrale, fotografico, mimico; chi uno spazio liberato che potesse ospitare diverse realtà locali sotto varie forme (comunità palestinesi, senegalesi, extra-comunitari in cerca di permesso di soggiorno, esperienza di pedagogia alternativa sul corpo, gruppi musicali cittadini, ecc.); chi un centro sociale come forse erano un tempo le «case del popolo», con tanta socialità finemente espressa fuori dai circuiti ufficiali e monetizzati della vita borghese, e altrettanta iniziativa sui temi e problemi del quartiere e della città; chi, infine, un «tetto» semi-privatizzabile per risolvere i propri problemi esistenziali, abitativi, di nomadismo trans-metropolitano.
Alla fine, rimanemmo in pochi, stanchi e alquanto disillusi, determinati a scrivere la parola «fine». Ci siamo resi conto (almeno alcuni di noi) che siamo stati anche il frutto di quegli anni «cattivi», non per metterci la coscienza a posto, anzi, ma per capire il condizionamento potente e irriflesso che agiva in noi e dietro di noi, senza saperlo maneggiare in vista di qualche obiettivo perseguibile.
L'incapacità di tradurre le diverse istanze presenti in città (alcune francamente incompatibili con il Centro Sociale) in una identità del Montevergini in grado di accoglierle insieme e moltiplicarle senza implodere (come poi è avvenuto) è stata l'evidenza di una impasse nata, probabilmente, dalla storia collettiva di ognuno di noi, diversa, molto segnata, forse troppo, dal passato «militante» e «politicizzante» di tempi andati, poco incline a mettersi in discussione, nonostante che quei tre anni di vita del CSA Montevergini abbiano trasformato ciascuno di noi, nel bene e nel male, nelle illusioni e nelle disillusioni.
È mancata l'idea forte, successiva alla fase dell'occupazione e della prima autogestione interna, che trainasse sul piano di una socialità da inventare e di una sorta di progettualità collettiva del territorio. Senza di questo, la deriva para-consumistica (alternativa) del Centro Sociale (intendi esclusivamente musica e birra a go-go) è il riflesso speculare dello sfascio marginale dei micro-ghetti individuali. Resta la validità di un'idea, ma inserita più a fondo in una risignificazione del territorio, in una prospettiva sociale più ampia al cui centro impostare la dimensione dell'autogoverno in senso lato della comunità territoriale. Dopo questa esperienza, infatti, sentiamo forte l'urgenza di ridefinire la riappropriazione del territorio in un'ottica di autogoverno politico (per dirla in termini ufficiali),che scardini l'idea dura a morire di rappresentazione e rappresentanza che, volenti o nolenti, dimora tutt'ora presso tanti di noi a sinistra alle prese con la ricerca affannosa e talvolta angosciante di un «referente» sociale (operai, proletari, studenti, ecc.), senza il quale sentirsi orfani inebetiti, vedovi, impotenti.
Eppure l'autogestione non è solo questione di razionalità economica, è presa diretta della vita territoriale, assunzione non mediata di responsabilità sociali a partire dalle socialità individuali intrecciate reciprocamente.
È indilazionabile rovesciare il verso di una specularità che ci fa sovente essere a traino passivo (o fittiziamente attivo) di processi sociali innescati altrove, di cui l'antagonismo non è, talvolta, che residuale e difensivo, o peggio, trappola infernale di irretimento in cui cadere in un estenuante colpo-su-colpo postmoderno, respirando gli scarichi tossici della macchina di dominio che detta i ritmi di un'esistenza statalizzata. Il recupero dello slancio protagonista configura, di contro, una potente macchina da guerra desiderante, che non si ferma in surplace sui processi materiali costituiti per sovvertirli in tempo reale, praticando hic et nunc un parallelo autogoverno complessivo della comunità territoriale e della socializzazione collettiva, in luoghi espressamente extraistituzionali e secondo logiche estranee ai sistemi di dominio in atto. I Centri sociali ed altre esperienze ne potrebbero essere i prototipi e gli avamposti, non chiusi in se stessi, arroccati a presidi gelosi della propria differenza (che va comunque salvaguardata), ma aperti a svariate sperimentazioni in campo sociale: di pedagogia, arti varie, non-lavoro, autoproduzione senza mercato, iniziative sociali di riaggregazione comunitaria, sostegno a conflitti politici, ecc.
L' «utopia» del Montevergini rimane tutta integra, segnando un punto di non ritorno, una svolta imprescindibile, un'eredità da raccogliere ed arricchire per tutti coloro che vogliono «delirare» il senso di Palermo.

Antonio Rampolla
Salvo Vaccaro

Udine: pratiche autogestionarie
La realtà sociale e culturale del CSA di Udine è molto particolare, sicuramente differente, se non altro per la caratterizzazione ecologico-sociale nazionalitaria friulana, da quella della maggior parte dei CSA in Italia.
Nato a metà degli anni ottanta come luogo di aggregazione dell'area punk e anarchica di Udine e dei paesi del territorio si è successivamente diversificato in una rete di individualità e realtà collettive di forte proposizione libertaria e antagonista.
La pratica autogestionaria vista come punto di partenza per un percorso di liberazione individuale (inteso questo sia da un punto di vista di autonomia economica-spazio abitativo, mensa e concerti gratuiti, cooperativa di lavoro - che da un dato di liberazione mentale - arte, socialità, affettività, superamento dell'identificazione con la cultura del dominio -) si compenetra con una crescente e correlata affermazione culturale la cui complessa teoria non è altro che l'incontro delle diverse esperienze esistenti in Friuli (quella antimilitarista, quella ecologico-sociale, quella trans-artistica, quella relativa alle lotte contro la distruzione dell'ambiente, quella impegnata non solo negli studi ma anche nella creazione di una dinamica di divenire della cultura e della lingua friulana) legate fra loro da una comune intenzione nazionalitaria friulana, internazionalista, federalista e libertaria.
La presenza nel CSA di alcuni immigrati africani ospitati dal 1990 serve da pretesto per un durissimo sgombero da parte delle forze dell'ordine nel Dicembre del 1991 di una delle due palazzine occupate nella quale si trova anche la Cjanive (cantina) di Usmis, ovvero lo spazio espositivo autogestito dalla realtà più specificatamente creativa del C.S.A., luogo di incontri, mostre, performances ed altro ancora. Uno dei dati più interessanti della realtà complessiva di questo CSA è dato dal fatto che alla sua vita partecipano individualità di tutto il Friuli altrimenti impegnate in molte attività politiche e culturali. Il risultato di ciò è un ampliamento delle proposte e delle pratiche presenti nel CSA in una dinamica aperta in cui agiscono molte realtà non in subordinazione. Attualmente di queste realtà le più attive sono:
- il Collettivo Antimilitarista Ecologista (quello delle servitù militari è un problema particolarmente tangibile in Friuli) che propone un'analisi delle vicende drammatiche di guerra che si stan verificando, in un'ottica anarchica e federalista: «Come libertari siamo per una rivoluzione sensibile (ma non troppo verso chi detiene i privilegi), una libera federazione dei popoli e delle etnie (esatto! siamo secessionisti per la dissoluzione dello stato), un modello di sviluppo sociale ed economico auto-centrato (sui bisogni delle comunità e non su quello che dicono a Maastricht) e biocompatibile: se invece di saccheggiare gli ecosistemi impariamo ad osservarli con curiosità etica chissà che non impariamo qualcosa di buono!». Stefano Del Fabbro, appartenente al collettivo, ha recentemente scontato tre mesi di reclusione per il proprio rifiuto del servizio militare.
- Usmis banda nomade rizomatica per lo sviluppo di nuove culture friulane e planetarie. Non si può dire in poche righe delle molteplici attività di Usmis (presagi) in questi ultimi cinque anni (rivista, videorivista, poesia e proposizione politica, performances multimediali in ogni luogo praticabile e impraticabile, musiche, video e oltreinstallazioni, invenzioni, edizioni, rivoluzioni, studi, incontri, dibattiti, seminari, narrazioni, collaborazioni, piazze, campi, fabbriche, officine, cantine...).
La cosa più semplice è andarli a trovare o leggere, guardare, ascoltare le loro produzioni (determinatamente a-commerciali): USMIS - via Slataper, 20 - 33050 Cjasteons di Strade (UD).
- Dumbles, donne libertarie friulane, laddove la forte caratterizzazione identificativa è data dalla consapevolezza della propria specificità individuale, sessuale, etnica, politica, culturale:
«La dimensione di coloro che identificano se stesse/i anche in relazione all'appartenenza etnica dovrebbe essere un po' la dimensione dell'"autocoscienza" del singolo, che si evolve ed articola in modo organico e complessivo come auto-etno-coscienza» (v. Germinal n° 01).
Recentemente le Dumbles hanno partecipato a iniziative e incontri sul tema della guerra in Bosnia, entrando ovviamente in polemica con quanti (anche da sinistra) caldeggiando soluzioni ONU-militari o con altri (anche libertari) che vogliono individuare nella appartenenza etnica le scaturigini dei conflitti armati (un po' come dire che la responsabilità in una violenza sessuale è data dal sesso!).
Il CSA di Udine non è l'unica realtà antagonista e libertaria del Friuli. A Pordenone, il collettivo «Arkano» - di forte tensione libertaria - pur avendo subito recentemente lo sgombero del proprio spazio occupato sta continuando le attività autogestionarie.
Vi sono poi le situazioni emblematiche di Monfalcone e Gorizia. A Monfalcone i collettivi «Brankaleone» e «Sempre Kontro» propongono iniziative di lotta da alcuni anni senza avere un vero e proprio luogo fisico.
Nel 1992 vi è stata una breve occupazione subito contrastata.
Una situazione simile è quella di Gorizia, dove i compagni libertari da diversi anni organizzano mostre, esposizioni e concerti cercando di creare una sensibilità più estesa che gli possa permettere una futura concretizzazione. CSA Collettivo antimilitarista ecologista/Dumbles - via Volturno, 26/28 33100 Udine.

Raffaele BB Lazzera