Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Pistoleri a responsabilità limitata
Chi, utilizzando come Guida Gli spietati di Clint Eastwood, tornasse a quel vecchio West cui
tanto cinema lo
aveva abituato - compreso, a maggior ragione, il cinema con cui proprio Clint Eastwood, da attore o da regista,
aveva avuto a che fare -, troverebbe le cose un po' cambiate. Il giovane killer dagli occhi di ghiaccio, in
realtà,
non ci vede bene e, dietro le bugie della pubblicità, non ha mai ucciso nessuno; il mitico pistolero con
biografo
al seguito racconta di duelli epici che mai sono stati epici, bensì piuttosto vili; chi cavalca - sempre che
sia
riuscito a salirci, sul cavallo - intere giornate e dorme all'addiaccio si busca l'influenza, come una persona
normale con i suoi acciacchi dell'età; chi trova la morte, infine, la trova per un ghiribizzo della sorte
piuttosto
che per piani e volontà altrui ben precisi. Nel vecchio West, insomma, non ci si trova più eroici
e infallibili
pistoleri, ma gente rosa dai dubbi, da memorie moleste e dalla paura di morire: per passare dal dire al fare,
perché la coscienza dell'inettitudine si assopisca e lasci il posto alla pratica animale, nove volte su dieci,
ci vuole
una buona dose di alcool. Si dirà che in ciò non c'è un granché di nuovo - che
tanto cinema di buon livello ci
ha saputo esprimere tesi così poco consolatorie -, ma non sempre si potrà dire che ciò
sia stato incarnato in una
storia con un minimo di originalità, nonché raccontata con vigore e rispetto degli eventi narrati.
Senza giungere
al formato complessivo di un film come I cancelli del cielo di Cimino, è, comunque, il
caso de Gli spietati,
prova registica matura di Eastwood, niente a che fare con certi maldestri tentativi che l'avevano preceduta. Non
si tratta di pura "rivisitazione" di un contesto storico per correggervi quanto l'ideologia eroica vi aveva iniettato
di falso e di spudorato, ma della costituzione di un terreno di riflessione di più ampia portata che la
"rivisitazione" ha sarchiato e dissodato. E, se nell'operazione si fa ricorso al Maestro - al Sergio Leone che
diresse Eastwood in Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e
ne Il buono il brutto il cattivo -, lo
si fa per mera simpatia, ma in piena indipendenza. Certi particolari - come l'acqua che filtra dal tetto, come lo
scontro fra la cultura tecnourbana e quella colonica, come, soprattutto, certo spirito antimilitarista e l'elogio
dell'inermità - appartengono di sicuro al repertorio di Leone, ma qui non figurano mai come orpelli
gratuiti o
colti, perfettamente integrati, come sono, nell'unitarietà figurativa e concettuale del film. In gioco
è la
responsabilità della scelta: perché si fa una cosa, perché già mentre la si fa si
vorrebbe essere altrove, perché
il se stessi a cui ci si riferisce è cosi dannatamente fluente - perché la costanza é una
finzione del rappresentare
e del dire. Eastwood sperimenta in un cattivo della vita il filtro dell'amore e trova la vanità delle nostre
categorie
morali: la vita la si toglie anche in nome dei migliori principi - colpevolezza o innocenza, e tantomeno le
redenzioni, non costituiscono garanzie per nessuno. Allo spettatore sono offerti eroi senza qualità della
cui sorte
si può fremere solo con un briciolo di vergogna: c'è chi muore e chi sopravvive, ma in entrambi
i casi non c'è
sollievo. La catarsi è lasciata a chi, accontentandosi delle parole, non è sceso sufficientemente
nelle oscure e
ingannevoli profondità dell'animo umano. È una storia dove "i meriti non c'entrano", come fa
dire Eastwood
al suo personaggio nello scarno, drastico e conclusivo dialogo con lo sceriffo (interpretato da un memorabile
Gene Hackmann) - perché la responsabilità di checchessia può essere attribuita tanto
ad una bottiglia di whisky
che al cervello di un essere umano. E con ciò, lo spettatore in cerca di emozioni facili a deglutirsi -
implicite
nelle regole per costruire un buon film di genere, dove il buono, che sopravviva o no, è ben distinguibile
dal
cattivo - è servito.
|