Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 190
aprile 1992


Rivista Anarchica Online

Aids, l'identità negata
a cura di Filippo Trasatti

Questo dossier comprende, dopo l'introduzione del curatore Filippo Trasatti (pag.10), tre interviste rispettivamente con Mattia Morretta, promotore dell'ASA (Associazione Solidarietà Aids) di Milano; con Pasquale Messina, infermiere presso l'ospedale "Sacco" di Milano; e con Marco Fasan, medico infettivologo presso il medesimo ospedale. Per sottolineare l'uso e l'abuso delle immagini legate all'Aids, operati dai mass-media, abbiamo deciso di non illustrare il dossier e di lasciare bianchi gli spazi previsti per le illustrazioni

1 - Questo dossier

Ciclicamente, da dieci anni a questa parte, l'Aids torna di tanto in tanto a imporsi all'attenzione pubblica, per scomparire subito dopo nelle pieghe della vita degli individui. Due casi molto recenti permettono di vedere a distanza ravvicinata lo stesso fenomeno da due prospettive completamente differenti: il caso dei manifesti-choc della Benetton e la confessione pubblica del giornalista Forti sull"Espresso". Entrambe sembrano andare nella direzione della "pubblicizzazione" di un problema che ci riguarda tutti da vicino; entrambi sembrano portare a coscienza un tragica realtà che spesso vorremmo semplicemente dimenticare. Naturalmente lo fanno in modi e con scopi completamente diversi: la Benetton vuole guadagnare l'attenzione del pubblico sui suoi prodotti, utilizzando l'immagine di un malato di AIDS (che peraltro è un attivista di primo piano nella campagna anti-Aids americana) in fin di vita, tentando di rendere "esteticamente" la realtà tragica della morte; Forti ha invece scelto la strada della confessione personale intensa e onesta, rivelando una parte della propria storia, come molti hanno già fatto in molti paesi. In entrambi i casi ciò che viene dato in pasto a un pubblico in cerca di emozioni forti, al di là delle intenzioni, è sempre e comunque la morte in diretta, la riconferma dell'equazione malattia=morte che serva a scuotere per un attimo, come un brivido di freddo, le coscienze intorpidite degli spettatori.
Della malattia si dice che è terribile, che produce enormi sofferenze, che si diffonde rapidamente come un'epidemia: tutte cose senza dubbio vere. Ciò che non si dice e non si può dire è che la malattia è l'altra faccia della salute, la morte della vita, il dolore del piacere. Abituati come siamo stati negli ultimi anni a vivere sulla cresta della vita, abbiamo smesso di guardare la realtà tragica in cui siamo immersi. La malattia, il dolore, la fame, la morte sono sempre l'altrove rispetto al quale siamo continuamente esortati a compiere degli spostamenti strategici.
La logica massmediatica penetra ovunque e modifica profondamente la nostra percezione di quelle zone che sono come macchie bianche sulla nostra carta geografica del mondo. Spesso ci accontentiamo di un'etichetta e di una breve commozione, nulla più.
Il processo di de-sensibilizzazione progressiva è uno degli effetti di quel movimento storico di lunga durata che Elias chiama "civilizzazione".
Siamo privi di schemi di pensiero e di azione che ci consentano di avvicinarci e sostenere il lato tragico della malattia e della morte.
Sul malato inguaribile, per quanto si faccia per curarlo, resta sempre lo stigma di una differenza intollerabile: la vicinanza alla morte. La società proietta sulla scienza, e in questo caso particolare sulla medicina, il profondo e invincibile desiderio di sfuggire alla morte e alla sofferenza.
Non tutti i malati tuttavia sono uguali: anche di fronte a questa realtà umana incancellabile, che ci accompagna e ci minaccia per tutta la vita, ritagliamo le zone d'ombra e di luce, scegliamo, pur senza averne piena coscienza, ciò che più ci spaventa.

Il pensiero della morte
All'inizio i malati di Aids erano, si diceva, solo gay. Poi a poco a poco si sono aggiunte le altre "categorie" fino a comprendere tutto il corpo sociale. In un tentativo di rinforzo dei confini di difesa e di attacco del nemico che ricorda da vicino l'ideologia nazionalistica. Melucci fa una considerazione importante su un modo di pensare la malattia che si tende a dare per scontato: "la scelta delle categorie
a rischio può avere conseguenze importanti sul sistema giuridico e sulle forme di controllo sociale. Essa si fonda tuttavia su una fondamentale ambiguità, che solo pochi hanno cominciato a denunciare. (...) Il pericolo di infezione è legato essenzialmente a comportamenti a rischio, dunque a una serie di variabili prevalentemente individuali"(1). Ma l'individuo sfugge alle classificazioni e ai raggruppamenti statistici, per cui ancor oggi nei dati ufficiali viene mantenuta questa assurda ripartizione in comportamenti stagni che a me pare serva solo a negare l'umanità che ci accomuna: omosessuali, bisessuali, emofiliaci, tossicodipendenti, eterosessuali, ecc...
In un pezzo di tagliente humor nero Umberto Eco, con diversi anni di anticipo (è del 1985) ironizza sulla psicosi del contagio: "Sconsigliata l'affiliazione alla camorra, per via del rito col sangue. Chi tenti una carriera politica attraverso CL dovrà tuttavia evitare la comunione che trasmette germi di bocca in bocca attraverso i polpastrelli del celebrante, per non parlare dei rischi della confessione auricolare"(2).
Attraverso la classificazione e l'incasellamento il potere opera ripartizioni nel campo sociale che servono a dividere, a rimuovere il lato comune, a richiudere nelle prigioni di un'individualità monodimensionale.
L'Aids tocca tutti nel profondo perché si insinua, come una trappola, nel cuore delle relazioni tra le persone e mette in mostra, nella gran parie dei casi, la dimensione della sessualità. Su questo terreno si stende l'onda lunga e viscida della "colpevolizzazione" moralizzatrice che rimanda ai comportamenti e alle scelte individuali solo in quanto si tratta di negare la libertà. Questo processo di colpevolizzazione avviene a vari livelli: il più raffinato a me sembra ben espresso nella predica di padre Paneloux nella Peste di Camus: "Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei voi lo avete meritato. (...) Se oggi la peste vi riguarda, vuol dire che il momento di riflettere è venuto (...). Adesso voi sapete, finalmente, che bisogna giungere all'essenziale (...). Lo stesso flagello che vi martirizza, vi eleva e vi mostra la via"(3).
Poche pagine oltre il personaggio narratore, dr.Rieux, all'amico che gli chiede se sia convinto, come
padre Paneloux, dei benefici spirituali della peste, del fatto che costringe a pensare e a cambiare la vita, risponde: "Come tutte le malattie di questo mondo. Ma quello che è vero dei mali di questo mondo è vero anche della peste. Può servire a maturar qualcuno. Ciononostante quando si vedono la miseria e il dolore che porta bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste"(4).
L'Aids mostra, come altri fenomeni di crisi, quanto sia grande in realtà lo iato che ci separa gli uni dagli altri e quanto venga rafforzato dalle nostre barriere paranoicamente difensive. In questo modo non si fa che rafforzare la concezione dell'individuo come homo clausus in una situazione sociale in cui, già indipendentemente dal virus, la solitudine e l'isolamento angosciano e distruggono le persone, tolgono quel senso del vivere che solo può darsi pienamente nel convivere e nel condividere. "L'etica dell'homo clausus, dell'uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola come parte integrante della vita"(5).
Spesso si dimentica di dire, parlando del problema della morte, che è la morte delle persone a sconvolgerci, morte altrui e morte propria, con le sofferenze che a questa si accompagnano. Abbiamo paura del pensiero della morte e della sofferenza, anche perché sempre meno ci accostiamo ad essi. La morte è stata lasciata in pasto alle ideologie di destra, mentre per gli eredi dell'Illuminismo sembrava sufficiente considerarla un fenomeno "naturale", evitando di occuparsene troppo per non arrestare il
corso inarrestabile del progresso che non tollera limiti invalicabili come appunto la morte. "Il ritorno al pensiero della morte, intanto è un pensiero autentico, in quanto non si dà come mera consolazione etica, ma in quanto si protende anche a progettare una società diversa: una società nella quale abbiano rilievo la personalità dell'uomo, la partecipazione e la relazione,la comunità dell'uomo con l'uomo"(6).

Niente damine di San Vincenzo
Il modo di vivere la morte ha strette relazioni col modo di vivere la vita, propria e altrui, nei momenti di crisi e nella quotidianità. E poiché la vita è in gran parte costituita dai rapporti con gli altri, da qui parte il vero mutamento.
Questa è una delle tante ragioni che spingono le persone sulla strada dell'aiuto e del sostegno reciproco. E' facile equivocare sul "volontariato": vengono alla mente immagini di damine di San Vincenzo intente a nutrire bambini cenciosi in un'oleografia dalle tinte tenui quanto false. Concepisco il "volontariato" come un processo di attraversamento dei confini delle identità sociali, alla scoperta di quel residuo sempre sfuggente di umanità comune. Non c'è mai gratuità nello scambio che altrimenti non sarebbe tale: c'è però sicuramente lo sganciamento dalla logica di potere e di profitto in cui siamo tutti più o meno tranquillamente immersi. Se guadagno c'è, nel sostegno reciproco, è prima di tutto un certo rafforzamento del senso di sicurezza personale e la ricostruzione di una microcomunità in cui conta il valore della relazione prima della posizione che si occupa. E' un tentativo di approssimazione a un sistema di legami che mostrino l'esistenza di micromondi umani in un mondo disumanizzante. Un viaggio che passa attraverso progressive dis-identità per giungere ad un'identità più complessa.
Il dossier cerca di suggerire una pausa di riflessione sull'Aids attraverso le voci di tre persone che si occupano direttamente e attivamente della "cura" dei malati, da posizioni diverse. Lo completano dei riquadri informativi che pensiamo possano essere utili ai lettori interessati a proseguire per la propria strada l'approfondimento del problema.

1) A. Melucci, Il gioco dell'io, Feltrinelli, Milano 1991, p. 99.
2) Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano 1992, pp. 85-86.
3) A. Camus, La Peste, Bompiani, Milano 1970, p.72.
4) idem, p. 90.
5) N. Elias. La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, p. 82.
6) V. Melchiorre in AA.VV., La morte oggi, Feltrinelli, Milano 1989, p. 61.



2 - Una sfida antropologica

Intervista a Mattia Morretta, psichiatra e sessuologo. E' uno dei fondatori dell'ASA. Lavora inoltre come consulente nel centralino informazioni Aids della USSL 75 di Milano.


Potremmo cominciare parlando del contesto sociale in cui si è venuto ad inserire l'Aids, a dieci anni dalla sua comparsa sulla scena del mondo occidentale.

Mi sembra si debba partire dal ruolo dei mass-media nella nostra società, perché questo ha una grande
rilevanza per come l'Aids è stato poi vissuto e interpretato nel mondo. I mass-media, a mio avviso, non mirano ad affrontare veramente i problemi, a far circolare veramente informazione, per mettere le persone in condizione di vivere meglio la realtà, ma puntano a dar fondo a tutti quei fenomeni culturali
che hanno rispondenza a livello emotivo nelle persone e che suscitano paura, apprensione, bisogno di rassicurazione. Ciò crea uno stato di dipendenza psicologica da una verità che non è mai dato conquistare e che quindi conferma lo stato di minorità in cui un po' tutte le persone vivono, alimentando
il bisogno di tutela da parte dell'esperto o di qualcuno che ridefinisca di continuo il contesto.
Non c'è una fonte del sapere valida, non c'è una realtà che possa essere data per scontata, bensì uno stato di incertezza e instabilità che ostacola l'acquisizione di una competenza su cui fondare l'assunzione della responsabilità riguardo alla propria vita.
Da un lato si dice e prescrive (vi è infatti una sollecitazione precisa in questo senso) che tutti devono
sapere di più, essere più informati, avere l'enciclopedia medica in casa, diventare medici di se stessi, d'altro lato però vengono offerti strumenti approssimativi che mantengono a un livello molto superficiale la conoscenza effettiva del singolo e producono una rassicurazione di breve durata, lasciando spazio per l'ennesimo esperto e preparando la strada alla prossima inquietudine. In questo sistema di potere dei mass media si è inserito il problema dell'AIDS come un oggetto ideale da molti punti di vista. L'AIDS enfatizza una situazione in cui la "verità" mediata dai mass media, dipende da questa entità che nessuno autorizza e che però sembra essere più autorevole delle fonti istituzionali e ufficiali della cultura. Nessuna malattia in effetti ha mai goduto la diffusione di informazione che ha avuto l'AIDS, benché altre malattie abbiano grandissima diffusione sociale, come l'epatite.

Forse questo è dovuto anche al fatto che attualmente l'Aids è inguaribile e quindi richiama immediatamente la tematica della morte.

Sì, perché mai come negli ultimi decenni si è radicalizzato il problema del confronto con la morte, che è anche l'altra faccia della medaglia di questa educazione molto grossolana delle persone alla vita.
Tutto ciò che in realtà dovrebbe comunque far parte dell'esistenza e quindi della formazione degli uomini (la malattia, la sofferenza, il disagio, la morte) e che prima trovava accoglienza all'interno dei vecchi valori della cultura cristiana o della comunità, in una società consumistica ed edonistica non ha più spazio. Se si massificano le personalità e quel che conta è ciò che si mostra di avere; se il tempo va consumato e goduto, ciò che mette in discussione l'affermazione e la realizzazione di sé, come la malattia, la morte, il disagio deve essere tenuto fuori, deve essere evitato a tutti i costi.

A creare questa immagine ha certo contribuito anche una certa illusione scientifica dell'eliminazione assoluta di tutto ciò che è negativo.

La medicina ha un ruolo fondamentale, in effetti, nel sostenere questa illusione secondo cui si può tener
fuori dalla vita quello che non piace, quello che è sgradevole. Perciò la malattia e l'invecchiamento non sono più fenomeni naturali ma delle minacce, dei fallimenti, qualcosa di anti-naturale che bisogna assolutamente superare e vincere.
L'AIDS si è manifestato in un momento in cui per una serie di circostanze (di cui non abbiamo una percezione chiara perché vi siamo ancora troppo "dentro") è riuscito a diventare un oggetto culturale
polivalente, un concentrato di tematiche capaci di sconvolgere profondamente a livello emozionale in quanto relative a domande che tutte le persone tentano di evitare di porsi; per esempio cos'è propriamente la sessualità, che posto hanno la sofferenza e la malattia nella vita, come si tenta di scongiurare la morte. Tali quesiti sono dei nodi che prima o poi sarebbero comunque venuti al pettine,
benché questa società lasci intendere che si possa ormai vivere la sessualità senza responsabilità, senza
conseguenze e che ci sia la possibilità di posticipare all'infinito la morte o che si possa sconfiggere la malattia, in un delirio di onnipotenza per cui tutto si può comprare, tutto si può avere e sull'essere e sull'identità nessuno lavora più e si è autorizzati a non farlo.
Tutto ciò che è negativo e spiacevole viene proiettato lontano. E' un meccanismo che la società occidentale utilizza rispetto ai paesi del terzo mondo: esporta lì la guerra, la malattia, ecc. per poi impietosirsi e sentirsi solidale. Intanto sembra che all'interno tutto questo non esista.

Questa proiezione di ciò che non va sul terzo mondo l'occidente l'ha fatta anche per quanto riguarda l'Aids che viene dall'Africa.

Certo anche questo. Ma l'AIDS nel mondo occidentale e l'AIDS nel terzo e nel quarto mondo non sono affatto la stessa cosa; hanno significati e valenze del tutto diverse. L'AIDS nel terzo mondo in qualche modo non è che una delle tante epidemie o delle tante cause che aumentano la mortalità e coincide con il degrado e il sottosviluppo in quanto tali.
Essa pone un problema di economia, di politica sanitaria, di strategia verso i popoli sempre detti eufemisticamente in via di sviluppo, cioè non pone dei contenuti specifici riguardo ad esempio alla sessualità piuttosto che all'identità. E' una delle tante catastrofi che sono capitate e che capitano nel terzo mondo. È un'emergenza sanitaria e sociale legata alla situazione economica e al degrado sanitario in tali paesi, ma dice poco rispetto a quello che l'AIDS è come esperienza specifica. In realtà i significati e i contenuti che per noi ha l'AIDS sono tutti interni al mondo occidentale. È proprio tentando di prenderne coscienza e non cercando di esorcizzarli che si può ricavare dall'AIDS una riflessione che rimetta in discussione l'identità dell'uomo occidentale e riproponga quelle domande che l'uomo moderno non vuole più porsi.
Concepire l'AIDS solo come malattia, puntare soltanto alla risoluzione farmacologica, trasformare il problema della condizione della malattia in una problematica politica oppure sociologica, di bisogno
di case alloggio o di strutture residenziali, significa in realtà recuperare una logica che banalizza e annulla quei contenuti per i quali l'AIDS ha fatto e fa paura, coinvolge e affascina le persone.
Tutti sanno che l'AIDS dice qualcosa a proposito della dimensione della sessualità e del piacere e del
loro posto nella vita; delle conseguenze dei propri gesti nei rapporti di intimità; del proprio confronto
con la morte ecc.

Fermiamoci un momento a parlare del rapporto tra Aids e sessualità.

In principio l'AIDS è coincisa con il mondo dell'omosessualità e della devianza sessuale e poi è stata esportata in questa forma anche in Europa e in Italia. Tale legame permane nell'immaginario nonostante
gli sviluppi successivi. All'inizio abbiamo assistito ad un atteggiamento molto scandalistico e morboso, nella ricerca di qualcosa che sollecitasse la fantasia e l'immaginario delle persone riguardo alla sessualità deviante e diversa. Non a caso sono state fatte delle ipotesi sull'intenzionalità della diffusione
del virus, secondo cui l'HIV era stato prodotto in laboratorio, e fosse in atto una manovra contro gli omosessuali; il che però non mi è mai parso rilevante, anche se suggestivo.
In una società consumistica, edonistica, massificata le persone hanno l'idea che la sessualità preveda
un solo aspetto: quello del piacere, della facilità, del consumo. Viene negato l'altro aspetto, comunque
connaturato alla sessualità, cioè il fatto che essa implichi la realizzazione di rapporti personali, i quali non danno solo piacere, ma procurano molta sofferenza e sono sempre complicati, arrecano molto dolore e hanno in ogni caso conseguenze. In questo senso l'amore non è mai stato senza rischio, perché
avere rapporti con gli altri è sempre stato ed è "rischioso". Oggi più che mai, ma non per malattia, bensì a causa del grave deficit della capacità di entrare in intimità con gli altri. Si potrebbe dire che la società moderna vive il rapporto affettivo, l'intimità tra le persone come pericolosa perché fa deviare da una logica di affermazione individualistica, crea dei cortocircuiti, dei legami, anche delle solidarietà che
non sono previste e governabili. Ognuno dev'essere "singolo" e consumare in relazione alla sua posizione, al suo potere contrattuale nei confronti degli altri, alla sua produttività. Secondo me questo è indipendente dall'AIDS. L'intimità con le persone era associata, anche prima che l'AIDS esplodesse come epidemia, ad un vissuto di rischio e di pericolo. Non si capisce più su cosa vengano fondate le relazioni umane. Che cosa definisce una relazione umana, al di fuori della dimensione di lavoro e di quella gerarchica? Quali sono i soggetti in gioco e cosa viene scambiato in un rapporto tra uomini? Che cos'è una relazione affettiva? Su tutto questo già da tempo non c'è più riflessione a livello comune. Esisteva già la tendenza a spostare tutto su un altro piano: quello del consumo. La sessualità era propagandata come momento anti-ansia, anti-depressione, mezzo di affermazione di sé, il genere umano era ed è assimilato a un insieme di partner sessuali; prima di essere persone si era e si è dei potenziali partner sessuali di qualcuno. Tale modello di fatto sottrae contenuti al rapporto tra le persone e alla possibilità dello scambio di "cose" che non implichino la fruibilità immediata.
Si è trattato di una spoliazione di contenuti dell'esperienza di intimità con gli altri, per cui uno è costretto a viverla solo secondo un copione prestabilito, a non scoprire più niente nella relazione con gli altri che non sia già stato prescritto. È pure un'espropriazione delle possibilità di vivere l'esperienza
in prima persona e di trovarvi dei contenuti propri e personali.

Non ti sembra che ci sia un'attenzione prevalente sul vaccino rispetto alla cura dell'Aids, come se si dovesse prima di tutto salvaguardare i sani piuttosto che curare i malati? E più in generale non credi che si tenda ad un'eccessiva medicalizzazione del problema?

La propaganda sia rispetto al farmaco che al vaccino credo si iscriva in un discorso che depaupera molto l'esperienza delle persone sieropositive e impedisce agli altri di fare delle riflessioni e porsi degli
interrogativi per trovare o meno delle risposte a questioni molto rilevanti: che cosa vuol dire la salute,
cos'è la vita, cosa significa guarire. Si presume che grazie al vaccino tutto possa tornare come prima,
per una sorta di restaurazione dello stato precedente.
Si vuol evitare un vero cambiamento nelle persone, riguardo alle responsabilità "inevitabili" nella vita, facendo credere che sia possibile vivere senza assumersi responsabilità riguardo a se stessi e ai rapporti interpersonali. Si incoraggiano le persone a credere che la malattia sarà sempre più lontana e respinta; più si va avanti meno malattie ci saranno; il dolore, la morte e la malattia verranno eliminati o comunque tenuti sotto controllo. E' la riproduzione del modello attivo nel periodo della comparsa dell'AIDS, sicché quando questa sarà scomparsa si potrà tornare ad illudersi che la malattia e la morte possano non verificarsi, non essere.
Per certi aspetti mi sembra naturale un'attenzione maggiore verso il vaccino, se si trattasse di un discorso prettamente epidemiologico e sanitario. È evidente che impedire una diffusione dell'epidemia
è e dev'essere un interesse della collettività. Tutt'altra cosa è attribuire al vaccino il compito di rimettere
tutto a posto, per far tornare a credere che non bisogna aver paura di niente. D'altro canto non mi sembra sia stato fatto poco in termini di terapia per i malati; c'è una gara sostenuta anche da interessi
economici altissimi. Non direi che c'è una preferenza per il vaccino a svantaggio della cura. I vaccini
d'altronde hanno un tempo di realizzazione lunghissimo. Valga l'esempio dell'epatite: è da decenni che la malattia miete vittime eppure solo adesso c'è un vaccino.
Mi pare che si possa dire che entrambi gli obiettivi vengano perseguiti con lo stesso accanimento, benché in un'ottica particolare. Questo continuo far balenare alle persone che presto ci sarà il vaccino o il farmaco risolutore, crea delle condizioni per cui molte persone sono congelate in uno stato di attesa della salvezza e rinunciano nei fatti a rendersi conto di cosa concretamente potrebbero fare per migliorare la propria vita, non considerandosi alla mercé della scienza e di un farmaco che cambi la prospettiva della vita e della morte.
In realtà, comunque sia, credo che nella sieropositività vi siano delle domande non evitabili, e cioè che nessuna cura e nessun medico è in grado di affrontare e di risolvere. Alla persona sieropositiva si impongono molti di quegli interrogativi che gli altri pretendono di evitare. Per questo aspetto non esiste
alcuna "terapia", per fortuna, nel senso che non si possono mettere a tacere completamente le verità e i significati esistenziali dell'uomo. Da questo punto di vista le persone sieropositive non sono aiutate,
sono completamente abbandonate a se stesse. Qualcuno più fortunato ha l'occasione di essere accompagnato in tale percorso, ma la maggioranza è e sarà costretta a negare i contenuti, a subirli o a
soffrirli semplicemente e a potere affidarsi soltanto alla medicina o all'assistenzialismo o ancora al pietismo.
Il discorso sull'identità della persona, su come convivere con questi interrogativi esistenziali è ancora oggi estremamente raro. Le persone che possono passare attraverso l'esperienza della sieropositività
con dignità e rispettando la propria identità sono pochissime, perché non è consentito. Ci sono persone che vivono solo in attesa del farmaco e che abbracciano la medicalizzazione del proprio stato.
Altre lo banalizzano per reazione negando i significati specifici: la sieropositività non vuol dire niente;
la sieropositività non è niente, io sono come tutti gli altri, posso fare tutto quello che possono fare gli altri tranne che per alcuni dettagli che riguardano la vita sessuale. Il che non è vero.

In che cosa consiste la specificità dell'Aids rispetto ad altre malattie? Sta nella dimensione della sessualità o in quella della responsabilità verso gli altri per il fatto che è trasmissibile?

La specificità dell'AIDS consiste nella coniugazione di diversi temi inquietanti, come la sessualità, la trasmissibilità, lo scambio della morte tra le persone.
La sua originalità riguarda però anche altri aspetti. Come in tutti i fenomeni sociali la manipolazione
da parte della società non è univoca. Per esempio gli omosessuali nel mondo occidentale si sono appropriati dell'AIDS anche come occasione di riscatto, di rivalutazione, di moralizzazione. D'altra parte è in assoluto la prima volta, non ne troviamo esempi neppure nell'ambito delle malattie tumorali,
che si verifica una situazione in cui le persone colpite da una malattia divengono protagoniste anche di un lavoro di rielaborazione della loro condizione, si trasformano in portatori di un messaggio sociale di tipo umanitario, decidono di stabilire da sé quali sono i criteri e i modelli di convivenza. In Italia questo si vede troppo poco; si vede meglio in America e nel nord Europa, laddove le persone chiedono a viva voce, riconoscendosi dei diritti e delle risorse, di essere interlocutori in prima persona e accettano la sfida di provare a convivere con quello che per gli altri è assolutamente invivibile e inconcepibile, cioè con la sofferenza, con la minaccia della morte e con l'incertezza. In Italia Enrico
Barzaghi ha espresso lucidamente e in modo convincente questa ambizione di vivere positivamente tutto quello che per gli altri non è neppure concepibile. Si tratta di diventare dei "saggi" che lavorano
per migliorare la qualità della vita personale, ma anche altrui. Cogliere il messaggio esistenziale umano
e sociale di questa esperienza è molto difficile. L'auto-aiuto si riferisce di solito a situazioni in cui la condizione di cui l'individuo è portatore è superabile: ad esempio tossicodipendenti, alcolisti, bulimici,
soggetti con problemi comportamentali, ecc.. In genere tutti i gruppi di auto-aiuto, anche il gruppo ex-mastectomizzate, si basano sul fatto che la condizione è superata e superabile. Nell'AIDS invece il problema è "irrisolvibile", bisognerà conviverci sempre; non c'è prospettiva di uscita dalla condizione,
il che rende tutto più difficile. Il lavoro per arrivare a convivere con l'incertezza è quello più gravoso e spaventa la maggior parte delle persone, anche quelle non coinvolte che pensano o dichiarano: "se fossi sieropositivo mi sparerei" perché l'idea di vivere nell'incertezza riguardo alla malattia e alla morte è intollerabile per gli uomini.
Nel cancro mi pare che per certi aspetti ci sia molto più isolamento, non c'è mai stata la possibilità di
vivere la malattia tumorale in una dimensione sociale e l'esperienza è ridotta al silenzio. Così vediamo
i volontari che vanno a casa del malato di tumore, ma non le persone affette da cancro che si trovano
tra di loro e che cercano di capire come si può vivere. Invece la possibilità della socializzazione e della comunicazione c'è stata e c'è nell'AIDS, il che è una fortuna in quanto è proprio un aspetto positivo che manca nel cancro. Di contro nel tumore non c'è la stigmatizzazione, non c'è la vergogna associata alla condizione, benché un po' di vergogna ci sia sempre in chi è portatore di una malattia da cui non si esce e che porta alla morte, come se si trattasse del fallimento dell'individuo. I malati inguaribili non vengono "mostrati" agli altri perché ricordano che la morte c'è e può interrompere i progetti esistenziali
e la realizzazione personale.

Puoi spiegare a grandi linee l'esperienza dell'auto-aiuto all'A.S.A.?

L'auto-aiuto è molto difficile perché gran parte delle persone sieropositive anche prima avevano molti problemi rispetto alla propria identità e alla stima di sé. Per auto-aiutarsi occorre riconoscere di essere delle persone, di avere delle risorse. Molti sieropositivi provengono invece da situazioni di degrado sociale esistenziale e morale, non si vivevano insomma come soggetti che possono ricevere e dare aiuto, che hanno il diritto di aiutarsi e stimarsi reciprocamente.
All'Asa l'esperienza dell'auto-aiuto non è nata da persone sieropositive, è nata dal mio interesse di verificare anche in Italia quello che la letteratura e l'esperienza degli altri paesi riportava come possibilità, cercando di creare le condizioni per cui l'auto-aiuto fosse possibile. Noi abbiamo fatto questa esperienza organizzando prima gruppi di omosessuali (dal febbraio 1987) e poi di ex-tossicodipendenti (dall'inizio del 1989), non centrati quindi solo sulla sieropositività perché secondo me c'era e c'è ancora un lavoro parallelo da fare sull'identità. Nel gruppo di omosessuali si lavorava alla valorizzazione dell'identità della persona per poi cercare anche nella sieropositività dei contenuti positivi o dei significati di sfida costruttiva, di crescita, di umanizzazione.
E questo valeva anche per gli ex-tossicodipendenti, affinché poi potessero affrontare l'esperienza della sieropositività in maniera diversa. Nell'Asa si è riusciti a fare in modo che le persone con AIDS o sieropositive asintomatiche diventassero protagoniste della loro condizione. Non c'è nessun merito nella sieropositività; il merito sta nell'accettare di convivere con questa condizione responsabilmente.
Qualunque essere umano accetti di vivere consapevolmente con l'incertezza,con la malattia e la sofferenza ha delle cose da dire agli altri, diventa un punto di riferimento per gli altri. Il che non deve portare a mistificazioni e a banalizzazioni: la sieropositività e l'AIDS sono comunque condizioni tragiche. Nessuno può accogliere la notizia della sieropositività con leggerezza, poiché essa rimette in discussione l'esistenza e fa suonare un campanello rispetto alla morte, al limite della vita. Ciò enfatizza il ruolo che la persona ha nei riguardi della propria vita, che cosa fa per cogliere 1'opportunità di vivere una volta che ne diviene cosciente.
Senza una filosofia di fondo che sostenga questo lavoro, io credo che esista un rischio di involuzione in senso politico o sindacale. Accade per alcuni gruppi di sieropositivi formatisi in Italia e altrove, che non fanno un lavoro sulla convivenza con la condizione da un punto di vista umano, in senso antropologico, ma fanno un discorso sui diritti (civili, sociali, ecc.) in rapporto al servizio sanitario, alle
istituzioni, all'esistenza, il che è solo un aspetto del problema. I soggetti con HIV/AIDS hanno dei bisogni e delle richieste da fare e in questo senso sono sullo stesso piano di altre categorie di malati, come i diabetici per esempio, che hanno diritto di chiedere l'esenzione o altro. In tal caso, però, non c'è un contenuto antropologico che riguardi anche gli altri. Se viene migliorata l'assistenza sanitaria per le persone con AIDS, se ne avvantaggiano un po' tutti perché si spera che i miglioramenti si estendano
agli altri. In questo tuttavia, non c'è alcuna specificità e vengono passati sotto silenzio altri contenuti
della condizione per i quali ha anche senso che ci sia un'attenzione particolare da parte della società. In effetti molte volte ci si domanda perché in fondo bisognerebbe spendere così tanto e dedicare tanta attenzione per alcune fasce marginali della popolazione, alcune delle quali totalmente improduttive che sono un grosso peso, ad esempio i tossicodipendenti.
Se si tratta solo di fare un intervento assistenziale verso soggetti che sono portatori di degrado o di patologie sgradevoli, viene a mancare una motivazione riguardo al farne un discorso socialmente e culturalmente importante che può anche aiutare la società a crescere quanto a civiltà. C'è infatti la tentazione, pure da parte di strutture e istituzioni che lavorano nel campo dell'AIDS, di fare dell'AIDS un oggetto politico, oppure l'ultimo anello della catena del degrado sociale. E' molto difficile che venga messa in risalto l'esperienza delle persone coinvolte. Quello che la gente si vuol sentir dire è o che l'AIDS si può evitare oppure che è una condizione terribile e pietosissima.
A me è sempre interessato invece un altro aspetto: quel che accade quando l'AIDS riguarda persone
"normali". L'Asa ha in questo senso tentato una normalizzazione, benché si debba riconoscere che è
comunque che in tale forma l'auto-aiuto sia un'esperienza elitaria che non riguarda e non riguarderà mai tutte le persone sieropositive; elitaria anche perché le persone vi accedono intenzionalmente a partire dal bisogno di condivisione. L'Asa non si occupa del degrado, delle case alloggio ecc., nonostante fornisca l'assistenza domiciliare a persone che oltre ad avere l'AIDS hanno delle difficoltà di tipo sociale. Del resto non sarebbe in grado di far fronte a bisogni assistenziali complessi, non essendo una struttura dotata di operatori a tempo pieno.

Hai toccato il terna del volontariato. Come si differenzia il volontariato all'Asa da quello di un'associazione cattolica come la Caritas, ad esempio?

Nelle associazioni cristiane si parte dalla scelta morale di star vicini agli ultimi, ai diseredati, ai più emarginati. Bisogna riconoscere loro la capacità di lavorare sul bisogno materiale; hanno fatto e fanno
moltissimo e senza il loro aiuto moltissime persone con AIDS appartenenti a quest'area degradata sarebbero lasciate completamente a se stesse. Da queste situazioni però si ricava essenzialmente la conferma dell'umanitarietà di chi fa il volontario, non dell'umanità di chi è accudito e assistito. Chi è assistito non è portatore di valori umani, li riceve da chi si avvicina. L'accento non è posto sulla convivenza con la malattia e la sofferenza (che pure sono temi cari al Cristianesimo), bensì sul recupero dell'uomo debole e smarrito. Si fa un atto lodevole di carità verso qualcuno che è svantaggiato ma che resta comunque tale e non è sostenuto in un'opera di valorizzazione della propria esperienza. Il volontario invece si valorizza perché porta aiuto e dimostra che bisogna star vicini a quegli ultimi che nessuno vuole. All'altro restano tutte le cose negative che lo caratterizzano.
All'Asa si tenta un lavoro diverso: ci si avvicina per valorizzare la condizione dell'altro. Io accompagno
la persona con AIDS per aiutarla a capirne i contenuti e a capire come possa valorizzare la sua condizione, trasformandola in una occasione di realizzazione di sé e non di affermazione di chi sta accanto. In questo senso una promozione dell'auto-aiuto, cioè un incoraggiamento a trovare nella propria condizione dei valori, a conviverci, ed infine ad arricchirsi. Alla lunga anche chi si avvicina ricava moltissimo; se la persona con AIDS sceglie di convivere con la malattia e di confrontarsi con la morte, chi sta accanto guadagna enormemente. E' una scuola di vita, una ricchezza straordinaria. Tale operazione non passa sopra l'esperienza dell'altro ma la utilizza in senso positivo, crea le condizioni perché l'altro faccia una scelta di vita. Non sempre però egli è in grado di farla e non si può certo imporla. Perciò dicevo prima che si tratta di una situazione elitaria. Saranno sempre poche le persone che potranno scegliere di vivere lucidamente e addirittura in una prospettiva sociale e comunitaria questa condizione.

In questo mi sembra che si rovesci la logica tradizionale del rapporto tra volontario e assistito.

Viene ribaltata la staticità del rapporto tra assistito e assistente. Questo anche nell'Asa ha creato dei conflitti. Infatti in genere chi fa il volontario tende a confrontarsi con un'esperienza in cui serve il suo aiuto concreto, materiale, in cui lui è la persona "ricca"e l'altro la persona "povera". Riconoscere il bisogno dell'altro però non significa che l'altro abbia solo bisogno, cioè abbia solo limiti, bensì che abbia anche risorse. E' un'operazione di messa in discussione del proprio ruolo che arricchisce molto di più dell'andare semplicemente incontro a chi ha bisogno.
Questo approccio all'altro deve però essere sostenuto da una filosofia, non va affatto da sé. L'assistenza devia facilmente nell'assistenzialismo, nel pietismo e nella ruolizzazione schematica. Fare un lavoro per valorizzare l'altro costa moltissimo; è quello che è stato formulato come l'opposizione tra "amo il prossimo come me stesso" e "amo il prossimo come se stesso", cioè per come è l'altro, non per come sono io o per quello che penso si debba essere. Chi si avvicina pensando che l'esperienza dell'altro abbia in sé un valore e un significato aiuta l'altro a fare un lavoro di adattamento e di accettazione.
Se io vedo nella condizione dell'altro solo qualcosa di negativo, di spaventoso è chiaro che l'altro non può che desiderare di uscirne e io posso solo tentare un esorcismo affinché quella condizione non mi riguardi mai. Un'operazione di collusione in cui io ti aiuto per mettere a tacere la tua esperienza e tu ti servi di me per ricucire certi strappi o per far finta di non vedere tutto quello che esiste di negativo
e così si fugge insieme dalla realtà credendo di affrontarla.
Questo è il problema dei volontari: che cosa portano, quali contenuti cercano, che cos'hanno da dire
agli altri? Cosa si dice a una persona che è malata, si confronta con l'incertezza e potrebbe morire?
La gran parte degli uomini oggi non saprebbe cosa dire a un uomo che soffre. Perché se la sofferenza è inconciliabile con la vita, se è un disvalore e un fallimento e perciò va negata, allora non ci sono più parole.



3 - Io infermiere

Intervista a Pasquale Messina, che lavora da oltre un decennio come infermiere presso uno dei reparti di malattie infettive dell'Ospedale "L. Sacco" di Milano.


Si potrebbe partire dai primi casi di Aids che arrivarono al Sacco. Com'era la visione che si aveva di questa malattia all'interno dell'ospedale?

Sicuramente la maggioranza del personale era suggestionata dalle notizie provenienti dall'esterno che a quell'epoca i giornali diffondevano in una campagna isterica a livello di terrorismo ideologico.
La gente considerava questa malattia come una malattia esclusiva di certi gruppi, soprattutto i gay, visto che i primi casi che si erano verificati in America avevano colpito gli omosessuali. Quando si è cominciato a parlare di categorie a rischio si sono diversificati i gruppi; la malattia colpiva anche i tossicodipendenti, le prostitute e altri. L'informazione di quegli anni influiva negativamente sulla cosiddetta
opinione pubblica. All'interno di una struttura ospedaliera come la nostra, non c'erano gli stessi atteggiamenti isterici riscontrabili all'esterno, ma comunque l'Aids veniva vista come una malattia che uno si era andato a cercare e quindi come giusta punizione per un certo comportamento.

Ti sembra che ai malati di Aids venisse riservato un trattamento differenziato o discriminatorio, rispetto agli altri malati infettivi?

Direi che c'era qualche persona, piuttosto isolata, che poteva assumere questi atteggiamenti estremi. Anche da parte di qualche medico. Ma non si può generalizzare. Quando i casi sono cominciati ad aumentare c'è stata una maggiore consapevolezza e accettazione di questa nuova patologia, anche se rimaneva qualche *****, anche forse dovuto al continuo martellamento dei media.

Dall'esterno mi riesce difficile capire l'organizzazione della cura e dell'assistenza dei malati all'interno dell'ospedale. Come i malati vivono all'interno la loro condizione di isolamento?

Questa nuova patologia ha spiazzato un po' tutta la struttura. Già i reparti di infettivologia erano inadeguati per far fronte a tutte le malattie infettive. Le stanze sono molto piccole, mancano degli spazi vitali, non ci sono finestre, la socializzazione non esiste. Tutto questo rende ancora più pesante la cappa dell'isolamento. Si fanno spostamenti continui per associare malati delle stesse patologie.

Ci sono reparti riservati ai malati di Aids?

No, attualmente i malati sieropositivi sono ricoverati nei reparti di malattie infettive, nei quali rappresentano circa il 90% dei degenti. Ogni tanto, in questi reparti viene ospitato qualche malato con altre patologie infettive (epatite, meningite e, in certi periodi dell'anno, pazienti con malattie di tipo tropicale).

Volevo cercare di capire se questo stretto isolamento in cui si trova il malato dentro l'ospedale sia strettamente necessario per motivi esclusivamente sanitari.

Ci sono dei casi in cui l'isolamento è essenziale ed è un vantaggio sia per il paziente che per il personale sanitario. Se un paziente ha una tbc aperta non tutti possono entrare; il rischio di contagio è molto alto e il personale sanitario deve munirsi di camice monouso, mascherine e guanti. Purtroppo il vetro divisorio nei reparti di malattie infettive accentua il distacco con il mondo esterno mentre in molti casi
non è necessario un isolamento per i pazienti sieropositivi.

In linea di massima non ci sono contatti tra i malati?

No, anche perché molti di loro non sono autosufficienti e hanno difficoltà a deambulare. Quelli che sono autosufficienti potrebbero socializzare, ma la struttura non lo consente. In questi ultimi tempi c'è stata una maggior apertura per quanto riguarda i parenti che, in alcuni casi (in genere malati gravi) particolari, possono entrare in stanza. A Natale e Pasqua i malati si scambiano qualche regalo o li ricevono da gruppi di volontari esterni.

Tra tutte le persone che hai incontrato in questi anni, c'è stato qualcuno che vuoi ricordare e che ti ha colpito particolarmente per la sua storia?

In questi casi un rischio di coinvolgimento c'è e non può non esserci, perché non siamo dei robot. A livello emozionale possono scattare dei meccanismi per cui l'istinto di solidarietà in alcuni casi può essere maggiore che in altri, perché l'ammalato ha un'esperienza particolare alle spalle o perché in alcuni casi sono abbandonati dalle famiglie.
In particolare ricordo un ragazzo sudamericano che viveva da solo a Milano che mi ha confidato che da quando si era accorto, cinque anni prima, di essere sieropositivo, aveva vissuto una non vita, cinque anni di non esistenza. In un momento particolare di forte sofferenza mi ha chiesto se potevo aiutarlo a farla finita. Si è trattato di un caso in cui ho sentito più fortemente l'impotenza. Tra l'altro questo ragazzo era stato abbandonato dai familiari e questo aggiungeva altra sofferenza alla sua situazione, per cui si può capire la sua richiesta di essere aiutato a morire.

C'è a tuo parere una modalità diversa di organizzazione dell'assistenza ai malati, per esempio nelle comunità?

Non conosco con precisione i termini della cura a casa che in America è molto più sviluppata che da
noi. Ci sono ovviamente molti aspetti positivi per il malato: la possibilità di vedere chiunque come e
quando vuole, di avere spazi di socialità che lui sceglie. Ci sono situazioni in cui è prioritaria la cura in ospedale. Se il paziente ha una polmonite interstiziale è ovvio che debba essere curato in ospedale.
D'altronde se l'assistenza domiciliare è sicuramente meno onerosa per la collettività rispetto a quella
ospedaliera, quindi, quando possibile bisognerebbe optare per la prima.

Certo, però anche in casa potrebbe ripresentarsi, per alcune persone, il problema dell'isolamento. Mi piace immaginare una struttura di accoglienza che non sia un ospedale e neppure un ghetto, dove le persone possano comunicare con gli altri, stabilire anche nuovi rapporti.

Sarebbe certamente bello. Bisogna però considerare che per alcuni già l'ospedale è un punto di riferimento essenziale; per quelli che non hanno una casa e che a volte non vorrebbero andarsene dall'ospedale perché è solo qui che possono trovare un po' di calore umano. Succede spesso ai tossicodipendenti e ai carcerati. Nel nostro reparto è stato istituito un corpo di volontari, che dopo un corso di formazione, possono entrare nelle stanze e dialogare con i pazienti per alcune ore nella fascia oraria pomeridiana.

Come è cambiato il tuo rapporto con la morte da quando hai cominciato a lavorare con persone che stanno per morire?

Facendo l'infermiere ho cominciato a vedere le persone morire anche prima che ci fosse l'Aids. Ho provato spesso ad assistere malati con epatite fulminante che andavano in coma. Questa però è una morte più lenta in cui il paziente è consapevole di stare per morire. Quando l'ammalato era troppo sofferente ho augurato all'interessato di poter lasciare al più presto questa vita. Sorge talvolta una rabbia per l'impotenza, per il fatto di non poter far nulla.
Sicuramente nella cultura occidentale non si è preparati alla morte; abbiamo un rapporto con la morte che è molto diverso ad esempio da quello concepito all'interno delle filosofie orientali. Il problema della morte viene rimosso. Nella mia esperienza ho imparato ad accettare la morte , o per lo meno mi sforzo di capirla ed accettarla, e non la vedo più così negativamente come prima. La vedo come un fatto naturale, come qualcosa che fa parte integrante della vita. Il modo migliore per accompagnare le persone alla morte è la solidarietà, il calore umano; far sentire la propria presenza in maniera viva, far sì che l'avvicinarsi della morte sia il meno disperato possibile.

Quali sono le condizioni in cui si può effettivamente parlare di eutanasia senza mistificazioni?

In effetti l'ammalato non ha molte possibilità di scelta. Gli viene sempre prospettato il miraggio del
vaccino, che è di là da venire. Sui farmaci c'è uno spaventoso business per le multinazionali farmaceutiche che giocano sulla pelle dei malati. La casa farmaceutica che produce l'Azt guadagna circa 10 milioni all'anno per ogni singolo paziente, oltre agli altri farmaci impiegati nella cura di malattie correlate. Non so quanto interesse possa avere nel trovare soluzioni efficaci per questa malattia.

È un'ipotesi un po' agghiacciante.

Gli introiti in effetti sono enormi. Hanno tutto l'interesse a far sì che questa situazione permanga. Molti medici e ricercatori hanno fatto carriera grazie all'Aids. Credo che questa società abbia interesse a produrre malati. Queste cose le ho colte fin dal primo impatto con la struttura ospedaliera. Non credo che allo stato stia veramente a cuore la salute dei cittadini. Altrimenti come si spiegherebbe l'uso massiccio di prodotti chimici nell'agricoltura, prodotti che certamente incidono negativamente sull'alimentazione. La maggioranza delle patologie sono causate dall'alimentazione errata.

Vorrei chiederti qualcosa a proposito delle "terapie alternative" per l'Aids. In Italia, per esempio, è stato pubblicato un libro sulla "cura" macrobiotica dell'Aids. Ogni tanto si sente parlare di medici cinesi che avrebbero trovato la soluzione. Che ne pensi?

Sicuramente l'approccio della medicina tradizionale e di quella ufficiale sono speculari. Credo che l'alimentazione e un certo modo di vivere quotidiano abbiano sicuramente un'influenza sulla nostra struttura immunitaria. Un approccio di tipo naturale non può che avere una funzione positiva. Penso
che un'alimentazione, per esempio, come quella dell'ospedale non aiuti certo a sviluppare delle efficaci difese immunitarie.

Di questo sono convinto anch'io. Ma tu consiglieresti a un malato di Aids una cura alternativa?

Senza ombra di dubbio gli consiglierei un approccio sia alimentare che terapeutico più naturale possibile. E' anche una questione di scelta di vita; un mutamento nella direzione giusta ha influenza sia sulla sfera psichica che fisica, al di là ovviamente del fanatismo. Cambiare la vita significa cominciare a fare delle scelte radicali e crederci.

Ma pensi che sarebbe sufficiente o siamo in una fase in cui la medicina ufficiale è comunque indispensabile? Cosa diresti oggi a un malato di Aids che rifiuti di farsi curare con l'Azt o con gli altri farmaci attualmente disponibili?

Direi prima di tutto che è una persona che non vuole essere un numero, che non vuole essere soggiogata dal potere mastodontico della scienza, che vuole scegliere in prima persona, con coraggio e consapevolezza.

Conosci delle persone che hanno rifiutato la cura farmacologica?

No, conosco i casi di tossicodipendenti che rifiutano qualunque tipo di cura. Sono a conoscenza di persone che hanno rifiutato di subire interventi, consapevoli del fatto che sarebbero serviti solo a fini sperimentali. Ti racconto un fatto. Un primario ha avuto il coraggio, di fronte al rifiuto di un malato terminale di sottoporsi a biopsia cerebrale, di mentire spudoratamente, dicendogli:"Ma come? Vorrei farti conoscere tutti i pazienti che si sono sottoposti a questo intervento con risultati eccezionali". Naturalmente questi pazienti erano tutti morti.

Pensi che l'Aids abbia cambiato irrevocabilmente le abitudini sessuali delle persone? Sembra che talvolta, parlando di Aids e sessualità, si sovrappongano alle giuste preoccupazioni di limitare il contagio, giudizi di valore su modi di vivere la sessualità che in qualche modo non piacciono o che si considerano sbagliate.

Non credo che se si trovasse un antidoto all'Aids, la vita sessuale tornerebbe come prima. Ci sono altre malattie a trasmissione sessuale che possono essere deleterie nel corso del tempo. Io non ho dovuto modificare molto il mio comportamento sessuale. Come mi rapportavo prima con le persone lo faccio anche adesso, con una maggiore consapevolezza dei rischi che si possono correre. Non credo di essere diventato un moralista per quel che riguarda la sessualità o di essere diventato meno disponibile ai rapporti interpersonali. La comunicazione sessuale, con le sue dimensioni affettive ed emotive, per me resta fondamentale; non ha subito alterazioni, né inibizioni.

C'è tuttora una spettacolarizzazione e un'esibizione pubblica della malattia da parte dei media.
Sono di poco tempo fa le notizie sulla campagna pubblicitaria della Benetton che utilizza le foto di un malato di Aids morente. C'è stato poi il caso di Forti, giornalista dell'Espresso, che ha scelto invece di raccontare la sua storia di malato di Aids in prima persona. Come vedi questi casi?


Bisogna dare atto a Forti del coraggio di esporsi in prima persona, coraggio che molti altri, anche personaggi pubblici, non hanno. Questo atto non si presta a mistificazioni e spettacolarizzazioni. Forti parla in prima persona, senza secondi fini. Nel caso invece della campagna pubblicitaria ideata da Oliviero Toscani i secondi fini sono evidenti.

Ma che cosa arriva veramente alle persone anche nel caso in cui non ci siano secondi fini?

E' sempre presente il rischio della normalizzazione. La quotidianità ingloba anche casi esemplari di testimonianze dirette come quelle di Forti che comunque, secondo me, hanno valore positivo in quanto danno alla gente informazioni non inficiate da mistificazioni e interessi economici e politici.



4 - Hiv e dintorni

Intervista a Marco Fasan, medico infettivologo presso il reparto malattie infettive dell'Ospedale "L. Sacco" di Milano.

Partiamo da una semplice descrizione dell'Aids.

Fondamentalmente per infezione da Hiv, che è poi la base di partenza per l'Aids, si intende l'entrata nel nostro corpo di un virus, appunto l'Hiv (Human Immunodeficiency Virus), che ha la capacità di infettare alcune cellule del nostro corpo, che in superficie hanno una struttura particolare che consente al virus di entrare. E' un po' come se il virus avesse la chiave di una porta che c'è solo su alcune cellule; purtroppo le cellule che hanno questa porta sono tra le più importanti: alcune sono dei linfociti (T4 o CD4), alcune sono cellule del sistema nervoso. Ce ne sono poi innumerevoli altre, ma sicuramente meno importanti di queste. Il virus entra in queste cellule e come fanno praticamente quasi tutti i virus, è in grado di regolare la funzionalità di queste cellule o di ucciderle direttamente. Questo porta a due conseguenze fondamentali. Il virus, uccidendo i linfociti che sono cellule della famiglia più grande dei globuli bianchi che servono a difenderci dalle infezioni, aumenta il rischio che i soggetti vengano infettati e possano sviluppare delle malattie quali i tumori che normalmente sono tenute a bada dal sistema immunitario. D'altra parte infettando cellule del sistema nervoso aumenta la probabilità che queste persone vadano incontro a delle malattie di solito croniche ma con un'evoluzione molto rapida. Uno dei quadri patologici più comuni dell'Aids si chiama Aids dementia complex ed è una demenza del giovane che colpisce solo i malati sieropositivi.
L'infezione di Hiv è essenzialmente questo. Tanto più linfociti uccide il virus, tanto più probabile è che
ci si ammali di infezioni. Pian piano il virus uccide la squadra difensiva del nostro corpo e l'organismo diventa sempre più esposto alle infezioni. E questo è il dramma dell'Aids. Il problema è che le infezioni
spesso ce le portiamo dietro senza accorgercene. Dentro il nostro corpo abbiamo miliardi di batteri, funghi e altri tipi di parassiti, che però hanno un rapporto o di simbiosi (come capita per i cosiddetti fermenti lattici che abbiamo nell'intestino) o di commensalismo con questi germi che normalmente non
ci danno nessun fastidio. Evidentemente quando non trovano ostacoli i germi aumentano di numero e creano problemi al nostro corpo.

Vorrei tornare all'origine della malattia. Secondo me c'è stata come una sorta di congiura nel voler nascondere le origini della malattia. C'è insomma un'ipotesi secondo cui il virus sarebbe stato prodotto in laboratorio.

È evidente che oggi l'uomo in laboratorio può cambiare la natura. In laboratorio oggi viene prodotta l'insulina, che è un ormone prodotto dal pancreas. Per mezzo delle tecniche dell'ingegneria genetica le case farmaceutiche sono in grado di produrre in laboratorio esattamente l'insulina umana, con vantaggio notevole per i diabetici. Quindi è possibile che il virus sia stato prodotto in laboratorio, ma è altrettanto possibile che la sua mutazione sia avvenuta in natura. Si sa che il genoma, ossia il sistema che trasmette le informazioni dal genitore al figlio, è un sistema molto delicato e complesso.
Quando una cellula si divide, con una frequenza di una volta su un milione la cellula figlia cambia rispetto al patrimonio genetico del genitore. Evidentemente si tratta di una mutazione che può capitare
spontaneamente in natura. Le nostre cellule cutanee, ad esempio,si moltiplicano milioni di volte nel corso della nostra vita ed è evidente il pericolo che nascano delle cellule malformate. Questo è uno dei
motivi per cui nascono i tumori. Sicuramente ci sono molti fattori ambientali, partendo dai raggi ultravioletti del sole alle sostanze chimiche più disparate, che possono aumentare la frequenza della mutazione. L'organismo ha la capacità biochimica di riparare i danni e di eliminare, per esempio attraverso il sistema immuno-competente, la cellula mutata.
Torniamo all'Hiv. E' possibile che in laboratorio, nel corso di esperimenti, sia stata causata, suppongo involontariamente, la mutazione di un virus. Si deve però ricordare che i primi casi di Aids noti sono comparsi a cavallo del1979-80; dal 1981 si è capito che quella sindrome era causata verosimilmente da un virus. Giacché oggi si sa che questo virus può rimanere latente nel nostro corpo anche per 10-15 anni, si deve supporre che questa mutazione sia avvenuta in laboratorio verosimilmente tra il 1965 e il 1970. In questi anni c'era un'enorme possibilità di fare errori di laboratorio senza neppure accorgersene, ma sicuramente non c'era la tecnologia necessaria per poter causare volontariamente un danno di questo genere. E' possibile però che sia stato causato involontariamente. Ammesso e non concesso che sia avvenuto questo, dato il lungo periodo di incubazione della malattia, i danni si sono visti 15 anni dopo. Però contro questa ipotesi ci sono dei dati scientifici che vengono da diverse fonti. Per vedere se una persona è sieropositiva si vanno a cercare nel suo sangue gli anticorpi contro il virus. Questa ricerca si può fare anche sul siero congelato, perché gli anticorpi non vengono denaturati dal congelamento e dallo scongelamento. Quindi se ho il siero congelato di una persona morta nel 1959 per una malattia sconosciuta, posso andare oggi a vedere se contiene gli anticorpi dell'Hiv. Questo è stato fatto e si è visto che diverse persone morte di malattie ignote avevano gli anticorpi del virus Hiv. Da questo a dire che erano morti di Aids il passo è breve; comunque questo significa che il virus già esisteva.
Alcune di queste persone erano marinai che facevano rotta tra l'Africa e l'Europa. Allora si va a vedere cosa succede in Africa. Qui l'Aids ha il carattere di un'epidemia spaventosa. L'OMS prevede che entro il Duemila ci saranno in Africa circa 20 milioni di sieropositivi. Perché così tanto in Africa e da noi meno? Là il virus è trasmesso soprattutto attraverso i rapporti sessuali; hanno un tipo di vita sessuale completamente diversa dalla nostra. E' un dato che nelle grandi capitali africane, Nairobi ad esempio, il 70-80% delle prostitute sono sieropositive. Ma perché in Africa ha queste proporzioni?
Perché può darsi che il virus sia nato lì. In Africa è stato trovato un virus SIV, che è il virus dell'immunodeficienza della scimmia, che è molto simile al virus dell'Aids. Queste sono cose comuni in natura.
Noi siamo primati superiori e le scimmie sono primati inferiori; esistono delle malattie che colpiscono
solo i primati, come ci sono malattie che colpiscono tutti i mammiferi, ad esempio la rabbia. Esistono virus praticamente identici che colpiscono animali diversi come il morbillo e il cimurro: il primo colpisce l'uomo, il secondo il cane. L'ipotesi biologica dunque è questa: c'era un virus della scimmia endemicamente presente in alcune zone il quale, per condizioni naturali e ambientali, è mutato e ha avuto la possibilità di trasmettersi all'uomo dove è più facile che ci siano contatti con le scimmie. Adesso si dice che in Africa, che viene chiamata "la culla dell'Aids", il virus circolasse già dagli anni '20 o '30, ma ovviamente allora non se ne poteva sapere nulla.
Certo questa teoria può portare argomenti anche all'ipotesi dell'errore in laboratorio dove comunemente si facevano negli anni '60 esperimenti sulle scimmie. E' possibile che per un errore il virus mutato abbia infettato qualcuno che lavorava in laboratorio. Ma questo non spiega perché in Africa ci siano così tanti sieropositivi.

Puoi spiegarci meglio la distinzione tra infezione e malattia nel caso dell'Aids?

Normalmente noi siamo immersi nei batteri. Quotidianamente ci infettiamo, raramente ci ammaliamo. E' esperienza comune che se in una classe c'è qualche bambino con la varicella non tutti prenderanno questa malattia; è però quasi certo che se nei bambini che sono venuti in contatto con quello con la varicella, cerchiamo nel sangue gli anticorpi, li troviamo. Quindi vuol dire che si sono infettati tutti, ma solo alcuni si sono ammalati. Probabilmente alcuni più robusti hanno prodotto più rapidamente e con maggior efficacia anticorpi che hanno impedito al virus di causare la malattia.
Per sapere quanto tempo passa tra infezione e sviluppo della malattia bisognerebbe fare uno studio retrospettivo preciso che, nella maggioranza dei casi, è impossibile. In genere non si sa quando ci si è infettati. Per saperlo di solito si prendono delle coppie, più o meno fisse, in cui uno dei due partner è sieropositivo e l'altro no. Ogni mese chi è sieronegativo va a fare un controllo e quando diventa positivo si può sapere con precisione il periodo del contagio. In questo modo si può seguire l'evoluzione
della malattia nel tempo. Evidentemente studi di questo tipo sono iniziati al principio degli anni '80, quando si è scoperta la malattia. I dati americani più recenti dicono che dopo dieci anni circa il 60% dei sieropositivi ha già manifestato sintomi della malattia. Che cosa succede degli altri, non si sa. Può darsi che l'Aids gli venga tra 20 o 40 anni, oppure non gli venga mai. E' verosimile, e molti se lo augurano
anche se sempre meno ci si crede, che ci siano dei sieropositivi che non si ammaleranno mai. Il rischio del contagio c'è ed è elevato, ma non è che tutte le volte che si viene in contatto con il virus si è infettati. Io, ad esempio, mi sono punto tre volte con siringhe utilizzate per persone sieropositive e sono tuttora, e spero di restarlo, sieronegativo. Il virus non è un cecchino che tutte le volte colpisce nel segno.
Tra il momento in cui il virus entra nelle nostre cellule e rimane latente e il momento in cui si sveglia
c'è un periodo più o meno lungo che dipende da quante volte il virus viene "risvegliato". Di per sé il
virus dormirebbe, ma un'infinità di stimoli diversi, cofattori, stress ecc., ne accelerano il risveglio.

Credi che l'unica risposta all'Aids oggi sia quella farmacologica? Non pensi che, come è successo altre volte nella storia, l'epidemia possa risolversi da sé naturalmente?

Come abbiamo detto prima i virus e i batteri possono mutare spontaneamente. Una delle ragioni che
spiegano, ad esempio, come mai una volta ci fosse il colera nel Mediterraneo ed ora i casi siano pochissimi, è che il ceppo del vibrione del colera attualmente presente in questa zona è molto meno aggressivo di quello che c'è attualmente in Sudamerica, e quindi invece di dare il colera dà una blanda gastroenterite. Di fatto per il virus è un vantaggio non essere aggressivo, perché in questo caso subisce meno aggressioni e può sopravvivere più tranquillamente. Per loro è un vantaggio adattarsi.
Se però noi aspettiamo, nel caso dell'Aids, per lo stesso tempo che ha impiegato il colera ad adattarsi all'uomo, cioè secoli, al mondo ci saranno poche persone sopravvissute. Per questo la scienza sta correndo dietro al virus, oltre che per ragioni economiche. In questi anni ci sono state tantissime scoperte nel campo della virologia, anche dovute alla ricerca nel campo dell'Aids.
Io non vedo attualmente altre risposte alla malattia, al di là di quella farmacologica. Ho esperienza di miei pazienti che sono andati in Germania a fare ozonoterapia con risultati nulli. Se ci fosse qualcuno
in grado di mostrare una cura alternativa efficace, credo che tutti saremmo ben contenti.
Significherebbe un enorme risparmio di fondi, energie e vite umane.

Ormai è accettato da tutti che non esistono categorie a rischio, ma comportamenti a rischio. La cosa che mi lascia perplesso è di ritrovare ancora nelle statistiche ufficiali queste classificazioni. Hanno un significato medico e scientifico o servono come elementi discriminatori ?

L'Aids è partita con la distinzione in categorie a rischio: da un punto di vista statistico e di programmazione è molto più comodo proseguire su una strada già battuta, anche se non è quella corretta,
perché certamente è più corretto parlare di comportamenti a rischio che di categorie a rischio. Dal punto di vista dell'analisi dei risultati è più facile continuare a basarsi sulle vecchie statistiche, fatte tenendo conto di quelle categorie. Sicuramente ci sono delle differenze importanti per la trasmissione della malattia tra pratiche omosessuali ed eterosessuali a causa delle differenze anatomiche tra uomo e donna, ma se il rapporto anale è ad alto rischio, lo è sia nei rapporti omosessuali che in quelli eterosessuali. Quindi certamente c'è una discriminazione in quella classificazione. Sarebbe più corretto dire: rapporto anale = alto rischio. D'altra parte sotto-stratificare tutte le persone che sono già state classificate come eterosessuali, omosessuali ecc. secondo atteggiamenti e pratiche diverse rispetto al rischio di infezione vorrebbe dire cancellare tutti i risultati vecchi e partire da una statistica nuova.
Per compilare le schede di rilevazione si fanno delle domande. Se uno ti dice: io non sono mai stato omosessuale, però ho avuto rapporti occasionali con prostitute, nessuno gli va a chiedere che tipo di
rapporto ha avuto con le prostitute.
Un altro tipo di classificazione, che è stato usato soprattutto in America e in Africa, molto meno in Italia, è quella che consente di distinguere le persone che hanno contratto l'infezione Hiv avendo già
altre malattie sessualmente trasmissibili (sifilide, herpes ecc.) che evidentemente possono favorire il
passaggio del virus da una mucosa all'altra.
Il cambiamento nel sistema di classificazione può avvenire se viene richiesto dal basso, da un movimento che ne chiede il cambiamento in quanto discriminatorio.

Mi sembra che ci sia stata nei dieci anni che ci separano dalla comparsa dell'Aids un'evoluzione del modo di concepire e definire la malattia. Le definizioni cambiano, ma non si tratta solo di una questione di parole. All'inizio mi sembra ci fosse la tendenza ad allontanare sempre più la fase dell'infezione da quella dell'Aids conclamato; oggi invece, con la nuova definizione americana di Aids, si tende quasi a considerare ammalati i sieropositivi asintomatici. Tu che ne pensi?

All'inizio c'è stato un cambiamento della definizione da un punto di vista medico, molto restrittivo.
E' importante che questo mutamento sia recepito a livello sociale come un mutamento culturale.
Purtroppo, per quanto se ne sa oggi, tutti i sieropositivi svilupperanno prima o poi l'Aids, anche se poi può essere magari anche dopo 30 anni ed è questo che mantiene alta la paura del contagio.

Credi che sia alta la percentuale dei casi che il test Hiv non riesce a individuare?

Credo di no. La percentuale è sicuramente bassa anche perché i test sono più affidabili dei test di pochi anni fa. Oggi in generale in un centro attrezzato si segue questa procedura. Si esegue il test immunoenzimatico (uno dei quali è chiamato "Elisa") con i prodotti di due diverse case farmaceutiche: se vengono entrambi positivi o negativi si dà il risultato per certo; se uno dei due risultati è in contrasto con l'altro o si avvicina alla positività si dà il risultato per dubbio e si esegue un altro test, il "Wester Blot", dopo il quale si ha la certezza, pressoché assoluta, del risultato. La certezza assoluta in medicina non esiste. Rimane però un buco tra il momento dell'infezione e quello della siero-conversione: possono passare da un minimo di 4 settimane a un massimo di un anno. Si dice oggi che in genere nell'arco di tre mesi circa dal momento dell'infezione nel 90% delle persone si sono già formati gli anticorpi, visibili con il test immunoenzimatico. C'è solo un 1 per mille di persone che dopo un anno non ha ancora sviluppato gli anticorpi.
Per persone considerate a rischio, come le donne in gravidanza, viene utilizzato il PCR, che è un esame basato sulle tecniche di ingegneria molecolare, costosissimo e difficile da eseguire, attraverso il quale si può riuscire a individuare l'infezione anche prima che si manifestino gli anticorpi. Non è però utilizzabile a livello di massa.

Torniamo alla cura dei malati. Cosa pensi del problema dell'accanimento terapeutico, che vale più in generale per tutti i malati terminali?

Prima che un medico possa prendere autonomamente la decisione per un malato che non sia suo parente o suo amico, di praticare l'eutanasia, piuttosto che l'ortotanasia, ci vuole alle spalle una società che gli consenta di farlo. Io non mi sognerò mai di negargli una terapia se ha alle spalle una famiglia che mi dice: salviamolo. L'atteggiamento dei medici più giovani che oggi affrontano il problema dei malati terminali è quello di basare molto l'intervento terapeutico sulla famiglia dell'ammalato.
Se la famiglia è ricettiva verso un certo discorso, anche se non si parla mai direttamente di eutanasia, si possono fermare prima terapie che vengono considerate ormai inutili. E' una specie di contratto di fiducia stipulato con i familiari. L'ammalato consapevole ha ovviamente facoltà di decidere.
Soprattutto con i tossicodipendenti, che spesso hanno alle spalle una famiglia di basso livello culturale, questo discorso non è possibile farlo.

Cosa si fa adesso per l'assistenza ai malati e che cosa invece si potrebbe e dovrebbe fare secondo te?


In Italia esiste una legge che prevede che i malati di Aids debbano essere ricoverati nelle strutture apposite, che sarebbero poi i reparti di malattie infettive o i centri Aids. E' molto più vaga sui pazienti sieropositivi dove c'è spazio per diverse interpretazioni. Questo porta al fatto che persone sieropositive che non necessitano di interventi specialistici sull'Aids, ma magari hanno un problema chirurgico piuttosto che ortopedico, vengono ricoverate nel reparto infettivi e ghettizzate, mentre avrebbero bisogno di un letto nel reparto di chirurgia o ortopedia. In realtà all'estero le risposte sono state diverse: pochi centri di riferimento sul territorio per lo studio e l'approfondimento delle terapie per l'Aids, centri che possano formare medici che poi vanno a lavorare in altre strutture, in ospedali generali come consulenti per i casi di Aids lì ricoverati in un qualunque reparto. La persona verrebbe dunque seguita dal medico di reparto con la consulenza dello specialista infettivologo. Questa è la risposta data nella stragrande maggioranza degli altri paesi. In Italia si tende invece a concentrare tutto sui reparti di malattie infettive, che comunque avranno sempre a disposizione meno posti letto di quanti ne serviranno. Adesso c'è una situazione assurda per cui se non ci sono posti letto a Milano in reparti specializzati, il malato di Aids viene ricoverato addirittura a Modena, quando potrebbe benissimo essere curato in un reparto di medicina con la consulenza di un medico specializzato. Per superare questo problema all'ospedale "Sacco" c'è una sorta di accordo non scritto per cui, quando non c'è posto in reparti specializzati in Lombardia, si ricovererà il malato in altri reparti di medicina dello stesso ospedale o di altri ospedali della città, a condizione che nello stesso ci siano medici addestrati per curare l'Aids.
Il passo successivo è quello dell'assistenza domiciliare. Si cerca, fin che è possibile, di curare gli ammalati a domicilio, o comunque di rendere operativa una cooperazione tra medici di famiglia, in generale molto reticenti, Ussl e volontari che agiscono con la consulenza del medico infettivologo. Bisogna cercare di creare un tessuto intorno al malato, altrimenti la situazione non è gestibile: al minimo problema viene riportato in ospedale. Lo stato ha poi dato alle Regioni facoltà di emanare delle leggi per la gestione pratica del patrimonio di medici e infermieri che lavorano a domicilio. La legge prevede che tutto questo sia coordinato dalle Ussl con la consulenza dei medici dell'ospedale. I medici sono comunque sotto il controllo dei primari che hanno il potere di gestire la situazione.

Pensavo di chiudere con la questione del vaccino e delle terapie risolutive che sembra quasi ciclicamente rispuntano sui giornali.

C'è in generale un discorso da fare sul rapporto fra media e salute che vale anche per l'Aids.
Sicuramente all'inizio c'è stata un'enorme speculazione da parte delle case farmaceutiche. In America si dice addirittura che abbiano prezzolato i giornali per sostenere l'efficacia dell'Azt. La casa farmaceutica che produce questo farmaco ha aumentato il valore delle sue azioni di più del 100%. Oggi c'è qualcuno che ha dei dubbi sull'efficacia reale dell'Azt.
Probabilmente è efficace se preso nelle fasi iniziali delle infezioni per ritardare la replicazione del virus
e il raggiungimento dell'Aids conclamato. E' presto per dire quanto realmente funzioni e quale sia la differenza tra chi lo prende e chi no. Ancora troppo presto per dire se gli altri farmaci, come la Ddi e la Ddc, siano più o meno efficaci. La mia impressione è che abbiano più o meno la stessa efficacia. Hanno
tossicità diverse e perciò si propone l'alternanza tra farmaci diversi. Si tende cioè a praticare una terapia sequenziale in cui si usano alternativamente questi farmaci. Nel tempo si provano queste terapie per verificarne l'efficacia. Oggi quello che si sa è che il malato sieropositivo lasciato a sé prima o poi sviluppa l'Aids. La speranza è che quel prima o poi sia sempre più poi e meno prima. Di fatto credo che su migliaia di farmaci proposti quelli effettivamente utilizzati siano questi tre che ho citato. Sulle novità
il fatto è che evidentemente fa comodo al giornalista avere lo scoop, fa comodo al laboratorio che in
questo modo può ricevere più fondi.
Oggi in verità esiste ancora tanta ignoranza sulla reale immuno-biologia dell'infezione. Non è ancora
ben chiaro se l'eventuale vaccino poi mi protegga veramente o addirittura mi faciliti l'infezione da Hiv; questo rischio teorico c'è. Certo si stanno facendo molti esperimenti. Una volta trovato il vaccino si risolvono tutti i problemi, come è successo per altre malattie come ad esempio il vaiolo, che si è estinto per le vaccinazioni di massa. Ed era una malattia che fino agli anni '50 mieteva centinaia di migliaia di vittime in Africa e in Asia.

Bibliografia minima sull'Aids

- A.A.V.V., Aids. Conoscerla per prevenirla, Regione Lombradia 1991.
- B. Grmek, Aids. Storia di un'epidemia attuale, Laterza, Bari 1989.
- G. Dall'Orto e R. Ferracini, Aids, Ed. Gruppo Abele, Torino 1989.
- T. O'Connor, Living with Aids, Corwin Publisher, S. Francisco 1987.
- S. Sontag, L'Aids e le sue metafore, Einaudi, Torino 1989

Sono inoltre disponibili presso l'A.S.A. (Associazione Solidarietà Aids, Via Torricelli 19, Milano) alcuni utili e interessanti opuscoli informativi:
- Come restare in buona salute
- Dire fare baciare
- Quando un amico ha l'Aids
- La vita oltre la morte
- Un amico come te è impagabile.