Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 190
aprile 1992


Rivista Anarchica Online

Morte in una fabbrica di morte
di Gianni Sartori

Rischia di venire nuovamente insabbiata l'inchiesta sulla morte di Maurizio Giaron

La tragica morte di Maurizio Giaron, avvenuta nella fabbrica d'armi Remie, risaliva al 3 ottobre 1985 ma l'opinione pubblica cominciò a sentirne parlare con una certa insistenza solo due anni dopo, nell'87. Il 15 maggio di quell'anno si tenne la prima manifestazione di protesta davanti ai cancelli della fabbrica in questione (protetta dal filo spinato elettrificato e da una ventina di sorveglianti e da quasi altrettanti cani da guardia). Si denunciava questa "produzione di morte" e i suoi traffici: con il Sudafrica razzista e nella guerra Iran-Iraq. Inoltre i manifestanti protestavano per il modo ignobile con cui sulla morte di Maurizio si era steso un velo di omertà, anche da parte di chi, come il sindaco, avrebbe dovuto denunciare con forza il fatto. Invece niente, neanche un minuto di sciopero.
La fabbrica sorge nei pressi di Rossano Veneto ma in comune di Rosà. Qui dal dopoguerra operava una polveriera che ebbe varie gestioni, ultima quella dei Gasparotto.
I genitori di Maurizio Giaron ci raccontano come all'epoca il personale fosse "composto da qualche decina di lavoratori. Questi operavano non solo con la paura dei materiali che maneggiavano (esplosivi, bombe, detonatori...), ma anche con quella di perdere il posto di lavoro in quanto questi proprietari (Gasparotto, n.d.r.) usavano minacciare di continuo il licenziamento".
Si sapeva con certezza che in questa polveriera, nonostante avesse solo la licenza di scaricare ordigni e residuati bellici, si costruivano bombe che poi venivano regolarmente inviate a entrambi i contendenti della guerra Iran-Iraq, realizzando ingenti guadagni. Parla la madre, Regina Piovesan: "uno dei dipendenti era nostro figlio, di 23 anni. Un giorno lo mandarono da solo in un cortile a smontare materiali esplosivi che servivano da espulsori dei sedili di aereo. Tali cariche esplosive erano disposte in casse munite di cartelli regolamentari con su la dicitura "materiale altamente pericoloso. Da manomettere soltanto da parte di personale altamente qualificato". Ossia da artificieri. Da queste casse i cartellini erano stati tolti.
"Nostro figlio, che era stato assunto e lavorava in qualità di manovale, ignaro del pericolo, fu investito dallo scoppio di una di quelle vere e proprie bombe e morì nel giro di qualche ora. Fu aperta una inchiesta che i Gasparotto riuscirono a far insabbiare; anche quello che doveva essere il nostro avvocato di fiducia fece scadere i termini legali a nostra insaputa".
Abbiamo chiesto alla moglie di Maurizio, Antonella, che all'epoca aveva solo vent'anni (erano sposati da nove mesi) da che cosa fosse stata determinata la scelta di Maurizio di lavorare alla Reime, se avesse espresso qualche preoccupazione per i rischi possibili...
"Non si può parlare certamente di una scelta ma piuttosto di un ripiego dopo mesi di inutile ricerca di un posto di lavoro. Mio marito aveva studiato fino alla quarta geometri ma non aveva concluso e senza diploma non aveva trovato nessuno disposto ad assumerlo. Maurizio pur di lavorare si sarebbe accontentato di un posto qualsiasi ma purtroppo l'aveva trovato soltanto in quella fabbrica maledetta.
Io mi accorgevo che si preoccupava per quella situazione. Diceva sempre: "Faccio il peggior lavoro che esista" e poi spiegava in una fabbrica di armi, "di bombe" sottolineava. E questo glielo sentivo ripetere spesso quando ne parlava con altri. Con me non lo dichiarava quasi mai esplicitamente perché ogni volta io lo scongiuravo di cambiare lavoro. Ma lui rispondeva "E dove lo trovo un altro lavoro?".
Maurizio aveva chiesto dappertutto ma sembrava veramente difficile, quasi impossibile. Poco tempo prima della sua morte era capitato ad un suo amico un piccolo incidente senza conseguenze (era scoppiata una spoletta) ma che aveva rinnovato le mie paure. In quella occasione lo avevo supplicato di rimanere a casa, di non tornare in quella fabbrica.
Anche lui aveva paura, più di quanto mi lasciasse intuire. Ogni sera, quando usciva da quei cancelli, ripeteva: "Ringrazio Dio che anche oggi sono vivo".
Ma questo io l'ho saputo solo dopo la sua morte. A me non lo diceva, temeva che mi preoccupassi ancora di più. Sapeva che avevo già tanta paura perché lui era la cosa più importante della mia vita e non auguro a nessuno di provare quello che io sto provando ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Anzi quello che abbiamo provato tutti, in particolare i suoi genitori. Era il loro unico figlio ed era una persona che non meritava questa morte orribile".
Le chiedo quale sia stato l'atteggiamento dei proprietari della Remie dopo la tragica morte di Maurizio.
"Praticamente tutto l'interessamento e l'aiuto da parte dei proprietari si è limitato ad una lettera di condoglianze inviatami dalla madre del titolare Gasparotto, in cui mi diceva che evidentemente questa era la volontà divina, che ormai mio marito era in cielo e che mi era vicino: tante parole per poi concludere che "se avevo bisogno" lei abitava in via Roma 60. Non so di quale "bisogno" parlasse e comunque io con loro non ho mai voluto avere rapporti anche se hanno raccontato falsamente di esserci stati vicini e di averci "pagati". Sostengo invece che hanno mostrato soltanto tanta indifferenza e cattiveria: come quando i compagni di mio marito hanno deposto un mazzo di fiori sul luogo dove è accaduto il fatto e loro, impietosamente, lo hanno fatto togliere (dopo il 3 ottobre dell'85, quando Maurizio era stato mandato all'estremo limite del cortile della fabbrica, da solo, a compiere un lavoroaltamente pericoloso come quello di scaricare il propulsore per l'eiezione dei seggiolini di aerei militari n.d.r.). Io penso che non ci si comporta così di fronte alla morte di un ragazzo di 23 anni, sposato da nove mesi. Inoltre non ritennero opportuno sospendere il lavoro nemmeno per un'ora di lutto, niente. Dopo soli due mesi hanno fatto normalmente la festa di Santa Barbara, protettrice degli artificieri. Certamente per loro Maurizio era uno qualsiasi, soltanto uno dei loro operai, ma io penso che un essere umano non dovrebbe comportarsi così cinicamente".
Dopo la morte di Maurizio devono passare quasi due anni prima che scoppi il caso Remie-Junghans.
Infatti la Remie aveva affittato bunker e capannoni alla nota multinazionale. La convivenza era ottima al punto che spesso le due ditte si prestavano anche gli operai, divenendo in pratica una sola fabbrica.
Le due aziende occupavano rispettivamente 80 dipendenti. La Junghans era già famosa per le sue spolette e i suoi traffici con i razzisti di Pretoria, ampiamente documentati a suo tempo da Nigrizia.
Come venne poi confermato da un'inchiesta, la Junghans era anche in ottimi rapporti con le aziende del gruppo Borletti (quelle della "Valsella") e non era raro che a Rosà arrivassero commesse per timer e spolette.

Campagna antiapartheid
Proprio in relazione alle prime campagne antiapartheid, per il boicottaggio nei confronti del Sudafrica, nel bassanese viene a crearsi un movimento "contro le produzioni di morte" della Remie-Junghans, considerata complice del regime di Botha. Tra l'altro questo movimento riesce a far riaprire l'inchiesta sulla morte di Maurizio. Un appello in tal senso viene sottoscritto da una quarantina di medici, tra cui Paolo Benciolini dell'Istituto di medicina legale e Giuseppe Giuliani, primario della divisione chirurgica dell'ospedale di Cittadella, dove era morto il giovane operaio. Evidentemente non tutti sono convinti che si sia trattato di una "tragica fatalità".
Secondo gli esponenti dell'"Assemblea di lotta contro la Remie-Junghans" su questi "incidenti" (assai numerosi se si parla di circa 40 morti dal dopoguerra) sono in diretto rapporto con la "mancanza totale di norme di sicurezza, la discrezionalità assoluta di assunzioni e licenziamenti, la mobilità selvaggia (tra le due fabbriche, n.d.r.)...".
Pochi giorni dopo la seconda manifestazione, avvenuta il 10 giugno '87, l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Padova formalizzava la riapertura dell'inchiesta per la morte sul lavoro dell'operaio Maurizio Giaron. La stessa inchiesta che ora si cerca nuovamente di insabbiare.
Dopo averli rintracciati abbiamo chiesto ad alcuni esponenti dell'"Assemblea" perché a suo tempo si fossero "accaniti" in particolar modo contro la Remie. In fondo era solo una delle tante fabbrichette del genere...
"Per noi la situazione della Remie-Junghans era emblematica; sia per i livelli di sfruttamento che per tipologia della produzione, dato che era inserita in un sistema militarista e che era direttamente in rapporto con il regime sudafricano. Naturalmente non è stata l'unica (attualmente la Remie ha chiuso n.d.r.): nel solo Triveneto le fabbriche di questo tipo si contano a decine ma in genere è difficile avere una chiara visione del problema".
"Delle fabbriche di Rossano si è parlato dopo la morte di Maurizio Giaron e questo "omicidio bianco" ha portato a conoscenza dell'opinione pubblica la vera natura dell'attività che si svolge dietro quei fili spinati...Diciamo che per noi è stato giusto individuare nella Remie-Junghans tutta la negatività della produzione di armamenti. Questa resta una questione di principio, al di là delle dimensioni della fabbrica e della consistenza numerica degli addetti".
E, a proposito di addetti, come vi siete rapportati con il problema di garantire il posto di lavoro agli operai?
"Innanzitutto non dimentichiamo che in queste due fabbriche le garanzie del posto di lavoro erano già blande per conto loro...La Remie non ha poi chiuso per causa delle nostre manifestazioni...Erano anni che entrambe facevano cassa-integrazione...Una parte dell'Assemblea per esempio aveva proposto nell'87 di destinare ad altro uso il miliardo che il Comune spende per l'Opera-Estate. Si sarebbe potuto impiegarlo per garantire il reddito agli operai e intanto chiudere le fabbriche cominciando a riconvertirle, ad individuare altri committenti, civili e non militari. Contro il ricatto occupazionale noi proponevamo il reddito garantito. Noi non siamo mai stati contro gli operai ma soltanto contro le produzioni di morte".

In prescrizione
Ma torniamo ancora ai diretti interessati, alle vittime di tutta questa vicenda. La mamma di Maurizio, Regina Piovesan, è grata ai membri dell'"Assemblea contro la Remie" per essere riusciti, tramite un avvocato di Padova, ad ottenere la riapertura dell'inchiesta. "Ma - aggiunge - ancora non sappiamo se questo processo sarà mai celebrato, in quanto i proprietari hanno assunto fior di avvocati per riuscire a smantellare, con cavilli e argomentazioni, tutto quello che c'è di vero e reale e cioè la morte di mio figlio dovuta al loro disprezzo della vita altrui e alla loro avidità di ricavare quanto più potevano dalla loro fabbrica di morte, mettendo a tacere la coscienza per il profitto, con cinica determinazione".