Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 189
marzo 1992


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Etnie del cinema

Quando esci da un film come Mio Papà, che eroe di Gerard Lauzier, dici di aver visto un film spesso gradevole, forse più profondo di quel che appare, forse poco necessario, ma, di sicuro, "tipicamente francese". Esattamente come dici che Terminator (uno, due o dodicesimo che sia) è un film americano o che Maledetto il giorno che ti ho incontrato è un film italiano. Poi, può capitare che vedi quel gioiello di film giallo che è Prova schiacciante e ti viene da dire che sì, è un film americano, ma che si vede la "mano europea".
Chiunque abbia un po' di dimestichezza con il cinema ha esperienza di giudizi simili - categorizzazioni che magari vanno oltre il problema del "mi è piaciuto/non mi è piaciuto" per fissarsi, invece, sui caratteri etnici o, più specificatamente, culturali del fare cinema. Chiunque ne ha esperienza, ma, se fosse chiamato a risponderne, di questa esperienza, e ad esplicitare tutti i criteri applicati per ottenere quel risultato e non un altro, si troverebbe presumibilmente in difficoltà.
Per esempio: tempo fa, un porno-locale milanese prometteva film "rigorosamente americani", come fosse chissà quale titolo di merito, come se i prepuzi e le ghiandole del Bartolini di stampo europeo chissà quali difetti avessero. In proposito un'opinione ce l'ho: una rapida analisi dei porno-prodotti relativi evidenzia la mancanza di qualsiasi forma di umorismo o di ironia nelle soluzioni narrative (si fa per dire) Usa. Oscenizzazione del sesso e humour, per gli americani, non andrebbero d'accordo - da qui la probabile caratterizzazione del loro prodotto (oltre ad altri elementi che, di sicuro, mi saranno sfuggiti) e l'investitura positiva per il pubblico degli specialisti.
Ma è pur vero che, per narrazioni e stili narrativi di più ampio respiro, le cose si complichino non poco.
In Mio papà, che eroe, per esempio, i punti di svolta nella vicenda narrata sono pochini e più segnati da momenti psicologici che da episodi di spettacolare manifestazione. Si racconta di più l'intimo che l'esteriore interrelazionale. Rispetto a certi modi italiani o americani d'intendere il patrimonio minimo per farne un film, ci si accontenta di più poco. Gli stessi tempi dei dialoghi sembrano più rarefatti e la situazione comica non è mai drastica o enfatizzata - rimane più sfumata, come nella maggior parte delle occasioni quotidiane delle persone che non vivono recitando in un film. Gli attori, infine, sembrano stare a loro agio nei panni che gli hanno improvvisato addosso (il papà in questione è Depardieu, attore di tale sensibilità che sa far proprio tutto quasi "senza recitare", ma l'annotazione vorrebbe valere un po' per tutti, anche per i meno bravi e meno famosi).
Anche il modo di trattare il momento "clou" mi sembra del tutto caratteristico, e in Mio papà, che eroe la cosa è addirittura lampante. Si tratta del rapporto fra genitore separato e figlia quattordicenne, parigini di classe di mezzo, vacanze insieme e vacanze ovviamente esotiche - tutto come l'ideologia corrente prescrive nella forma di imperativo categorico -: lui all'ennesima crisi sentimentale e lei che, nel tentativo di conferirsi un peso sessuale, finisce trafitta al cuore da una freccia di Cupido. Orbene, fra balle raccontate a destra e a manca per sfuggire alla propria età, indulgenze e ripulse, silenzi e dialoghi, abbracci paterni e distacchi filiali, giunge anche il fatidico momento, tanto atteso a parole, del "primo bacio d'amore": sequenza cinematografica quasi per eccellenza, canone d'obbligo per la riproduzione sociale delle emozioni, in Mio papà, che eroe viene addirittura glissato, appena citato di passaggio, verbalmente, come mero accidente di una cronaca i cui contenuti siano di ben altro spessore.
Uno dice: così, allora, raccontano i francesi. Ma poi si chiede se una tale asserzione riposi su un minimo di correttezza metodologica, e non sia, invece, fondata sull'impressione epidermica, sull'abitudine fatta pensiero e sul sentito dire. Di certo che uno "stile nazionale" si avvale di un quadro di elementi caratterizzanti ben più ricco e più indecifrabile di quel che può apparire ad una prima disamina effettuata da semplice spettatore: si dovrebbe indagare su quelle speciali grammatiche e sintassi formulate dall'uso stesso della macchina da presa (tecniche di inquadratura, alternanza dei piani, rapporti fra immagini e commenti musicali, etc.), analizzare il rapporto fra esplicito ed implicito nella narrazione, classificare i ritmi narrativi e, laddove ci si riesca, scavare fino a far emergere quel gioco dei valori che ogni narrazione custodisce. Un lavoro lungo e difficile che, grossomodo, mira al cuore del linguaggio cinematografico per enuclearne la logica - quella logica che, come quella sottesa a ciascuna lingua umana, ha una base largamente condivisa e applicazioni diversificate dalle tante condizioni materiali in cui l'uomo che ne usa è venuto a trovarsi. Senza presumere la liceità di una tale indagine, ogni riconduzione di pensieri o comportamenti ad una etnia - anche quando non ci sia un giudizio decisamente negativo - prelude già alla pratica del razzismo.