A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
La manutenzione ideologica di Robin Hood
Chiunque voglia approntare un rifacimento (rifrittura o remake, a seconda di gusti o competenze) si trova
alle prese con due problemi - il secondo dei quali non so quanto sufficientemente consapevolizzato -:
innanzitutto, con l'adeguazione spettacolare (i colpi di scena non potranno essere gli stessi, per esempio, se
no addio colpi di scena; una certa quantità d'informazione dovrà mutare variando sul tema
e senza discostarsene eccessivamente, pena la perdita del modello di riferimento e delle sue storiche fortune);
e poi con la manutenzione ideologica. Se racconti qualcosa oggi, voglio dire, non lo racconti più come
l'avresti raccontato ieri; le nostre narrazioni non sono mai disincarnate dai valori che adottiamo nel momento
stesso in cui narriamo; i valori dell'oggi tenderanno a rimpiazzare quelli di ieri. A cominciare dal titolo:
Robin Hood il principe dei ladri, per esempio, dove la parola "ladro" fa il suo debutto
nei titoli in omaggio a quanto è cambiata la concezione sociale del furto (molto sbrigativamente,
da reato a furbizia) - mentre i titoli classici recitano Le avventure di Robin Hood o Robin Hood
e i compagni della foresta, figli come sono di anni in cui bastava il nome dell'eroe per ottenere
investiture di positività, ma badando bene a non estendere quella stessa positività a certi
aspetti comportamentali, diciamo così, disdicevoli del medesimo eroe (che dava sì ai poveri,
ma, ahimè, quel che fatalmente prendeva ai ricchi). Allora, questo Robin Hood, firmato da Reynolds
(regista) e da Costner (attore), ritocca il vecchio paradigma costituito dalle antiche Cronache di Scozia,
ballate popolari e apparizioni nell'lvahnoe di Walter Scott - cui si aggiungono, ovviamente, le varie
versioni cinematografiche - con una serie d'innovazioni narrative utili a risolvere entrambi i problemi. Di
questo campionario, siamo qui lieti di ricordare: una strega cattiva (sputacchiante, pallida da morire, con un
occhio andato a male e un'unghia meritevole di accorciatina), un rappresentante dell'Alto Clero molto
interessato al suo potere temporale, una fuga dalle infernali prigioni di Gerusalemme, un nero musulmano
a fianco del nobile rampollo di Locksley, un fratellino frutto della colpa, perennemente in bilico fra
lealtà e tradimento, una comparsata di Celti, certi vizietti dello Sceriffo di Nottingham - peraltro
dannosi alla sua cagionevole salute -, un parto cesareo nella foresta di Sherwood (conclusosi meglio di quanto
accade in un qualsiasi ospedale italiano d'oggidì), qualche accorgimento tecnologico sull'uso delle
frecce e un paio di argomentazioni (del tipo: Robin era andato alle Crociate per contrasti con il padre sul
concetto di vedovanza = Robin Hood ha finalmente letto Freud, il padre di Robin era fieramente avverso
alle Crociate medesime in nome della tolleranza universale = dopo il Vietnam, ogni spedizione militare va
vista con sospetto e, quando già fatta, attribuita a svista e sconsideratezza).
Cosa tocchi allo spettacolo e cosa alla manutenzione ideologica è chiaro: soprattutto la spalla
"nera" - il solito pozzo di cultura d'oriente: invulnerabile combattente, chimico, ottico, chirurgo
e ginecologo - contribuisce a riscattare Robin dal servaggio iniquo delle Crociate (valore negativo) e a
riaffrancarlo con tutti i crismi della democraticità: duro apprendistato per acquisire l'arte del
comando nonché il comando medesimo, comunismo come transizione al medioevo prossimo venturo,
tolleranza razziale, senso dell'amicizia virile e sopportazione dei poveri (valori positivi).
A completare il quadro, coerentemente, sta la perfetta compatibilità fra battute dei personaggi
(deliziosamente demenziali quelle messe in bocca al cattivo) e cultura degli spettatori cui il film è
destinato: non mancano neppure i commentativi di cattivo gusto, né i riferimenti sessuali né
le malizie di una Marion che ai veli conventuali preferisce le sfarzose crinoline delle sue mutande.
Così Robin Hood - a dire il vero più Robin che Hood, visto che in inglese "hood"
vuol dire "cappuccio", e qui Robin, ubbidiente allo stilista hollywoodiano, si guarda bene dal
portarlo, il cappuccio - ne esce con quelle nuove qualità organolettiche che tanto ben si adattano ai
palati d'oggidì. A testimonianza di cosa non si debba sudare per rimanere il Buon Eroe Universalmente
Amato alla faccia dei tempi che corrono, degli storiografi che scavano e della gente che crede di farsi
furba.
P.S.: nell'ultimo minuto di film, a festeggiamenti iniziati e spettatori in uscita, arriva Re Riccardo, tanto
Cuor di Leone da essere rapidissimamente interpretato da Sean Connery. E' il caso in cui la manutenzione
ideologica sfora dal puro ambito narrativo per andare sui mezzi stessi della narrazione. Come dire che un
attore - che in quanto tale dovrebbe dar corpo a valori altrui - ha acquisito tanto, nella storia del proprio
cinema, da rappresentare un valore in proprio.