Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 183
giugno 1991


Rivista Anarchica Online

Le regioni della natura
di Kirkpatrick Sale

Pubblichiamo alcuni stralci del libro Le regioni della natura di imminente pubblicazione presso la casa editrice Elèuthera. L'autore, segretario della Shumacher Society e fondatore del North American Bioregional Congress, sviluppa un'esposizione organica ed articolata dell'ipotesi bioregionale e dei suoi fondamenti teorici.

Qualche tempo fa sono stato invitato dalla facoltà di Filosofia di una importante università a partecipare ad un convegno su "Risposte morali alle minacce incombenti sull'ambiente", o qualcosa del genere, durante il quale sono stato costretto a misurarmi con molti documenti lunghi e noiosi sulle risposte corrette dal punto di vista morale al problema della fame nel mondo, delle specie a rischio, della distruzione delle risorse e altre cose del genere. Era chiaro che molta gente del pubblico che partecipava al convegno era più sconcertata di me di fronte a questi discorsi e al momento del dibattito ha sfidato gli oratori chiedendo come potevano pensare che uno abbia un atteggiamento morale rispetto a qualcosa che evidentemente non ha alcun nesso con la sua vita e con le sue possibilità di influire sulla realtà. Dopo tutto, quale dovrebbe essere la "risposta morale" di fronte alla caccia sterminatrice dei giapponesi alla balena, ammesso che se ne sia al corrente? Cosa ha a che fare questo con la moralità? Forse si è più o meno morali per il fatto di starne male, di protestare o di boicottare la Toyota? E che differenza può fare tutto ciò nei confronti dell'industria giapponese della pesca? Dovrebbero forse avere una "dimensione morale" nel loro lavoro e introdurre considerazioni di ordine morale al fine di salvare gli animali di cui sono cacciatori? E perché fare di tutti i problemi ambientali dei problemi morali, quando evidentemente costituiscono puramente e semplicemente dei problemi pratici, come per esempio quello di dare da mangiare alla gente affamata o sviluppare dei progetti di impiego dell'energia solare al posto dei combustibili fossili? (...)
A questo punto, forse incautamente, ho deciso di intervenire. La questione, ho detto, non è quella della moralità, ma quella della scala, della dimensione. Non esiste un modo efficace di insegnare, o di costringere a adottare un punto di vista morale o di garantire una corretta risposta morale a un problema qualunque. L'unico modo in cui la gente può adottare un "comportamento corretto" e comportarsi in modo responsabile è affrontando concretamente il problema e comprendendo il proprio legame diretto con la questione, il che può essere fatto solo su scala limitata. Si può farlo solo quando le strutture di potere della società sono direttamente riconoscibili e comprensibili, solo dove i rapporti fra le persone sono realmente intimi, e dove gli esiti dei comportamenti individuali sono controllabili; dove e quando le intoccabili astrazioni hanno ceduto il posto al qui e ora, al visto e sentito, al reale e conosciuto . La gente costruirà un ambiente "corretto" non perché si tratti di un obiettivo "morale", ma perché si tratta di uno scopo "pratico". Ciò non può essere realizzato su scala globale , né continentale e neppure nazionale, poiché l'animale uomo, piccolo e limitato, dispone solo di una visione modesta del mondo e di ciò che egli può fare al suo interno. Le questioni di scala, in altri termini, sono la chiave per risolvere problemi teorici e astratti nei quali i filosofi si avvolgono in modo irresolubile. Solo così si possono ottenere "risposte alle minacce incombenti sull'ambiente" che non siano un argomento accademico ed astratto. Se esiste una dimensione nella quale si può sviluppare una coscienza ecologica, nella quale i cittadini possono concepire se stessi come cause degli effetti ambientali, questa dimensione è quella regionale; è solo a questo livello che i problemi ecologici sono trattati fuori dalle dimensioni filosofiche e morali e si esprimono come fatti immediati e personali. La gente non inquina o rovina i sistemi naturali dai quali dipende la sua vita se si rende direttamente conto di quel che sta succedendo; allo stesso modo non spreca risorse che ha sotto i piedi o di fronte agli occhi quando capisce che gli sono preziose, necessarie e vitali; e ancora, non massacra le specie animali che capisce essere importanti per un normale funzionamento dell'ecosistema. Quando la gente guarda con gli occhi di Gea e ha coscienza dei valori di Gea - cosa che non può avvenire che in una dimensione bioregionale - non vi è alcuna necessità di preoccuparsi delle astruse fantasie sui "rapporti etici" con il mondo circostante. (1)
La ragione per cui ho cominciato la discussione sul modello bioregionale a partire dal concetto di scala, è perché, in fondo, penso che si tratti dell'unico elemento decisivo e determinante di qualsiasi opera umana, si tratti di una costruzione, un sistema qualunque, o una organizzazione sociale. Nessuna opera umana, per quanto ingegnosa, può avere successo se troppo piccola o, come è più spesso il caso, troppo grande; proprio come una porta se troppo piccola per consentire il passaggio, o troppo grande per poter essere manovrata; o come un'economia troppo limitata per garantire la sussistenza o un governo troppo complesso per consentire a tutti i cittadini di essere al corrente delle sue decisioni e di poterle influenzare. Alla giusta dimensione il potenziale umano è liberato, la comprensione umana è massimizzata, la realizzazione dell'uomo moltiplicata. Vorrei concludere che la scala ottimale è quella bioregionale, una scala non tanto piccola da essere impotente e miserabile , né così grande da essere pesante e incontrollabile, una dimensione in cui il potenziale umano può affrontare la realtà ecologica (...)

Confini un po' imprecisi
Ovviamente identificare le bioregioni non è una cosa semplice, ma le grandi categorie di classificazione sono abbastanza chiare per chiunque voglia osservare - non si possono confondere il deserto di Sonora e gli altopiani di Ozark - e probabilmente, allo stadio attuale, lo sviluppo del bioregionalismo è più legato alla valutazione di queste categorie generali, gli elementi di base del progetto Gea, che alla preoccupazione di definire profili elaborati e immutabili. I confini saranno sempre imprecisi, dato che abbiamo a che fare con i modi di essere flessibili della natura; niente potrà costringere il millefoglie o la pulce entro i confini stabili dell'altopiano di Ozark, né limitare la graziosa fenopepla entro i confini del bassopiano di Sonora. E' meglio tenere i confini un po' imprecisi, anche se ciò contraddice al bisogno scientista di esattezza perché così si facilita la mescolanza, la fertilizzazione reciproca delle culture ai punti di contatto delle bioregioni, smussando quelle possessività e diffidenze che i confini rigidi spesso determinano, e tenendo sotto controllo la tendenza umana ad imporre alla natura i nostri schemi e propositi.
Infine, il compito di definire i confini bioregionali corretti - e stabilire fino a che punto assumerli come definitivi - dovrà sempre essere lasciato agli abitanti dell'area, gli abitanti della Terra, che saranno sempre quelli che li conoscono meglio. Non dovrebbe trattarsi di un processo eccessivamente difficile, visto che ha fatto parte del modo di organizzarsi delle società arcaiche strettamente legate al territorio. Come si può chiaramente vedere se si prendono in considerazione le popolazioni indiane che per prime si sono insediate nel continente americano. Dato che dovevano vivere dei prodotti della terra e che i loro modi di vita dipendevano dai caratteri del territorio, si distribuirono secondo schemi che noi chiameremmo bioregionali. (...)
Il mosaico bioregionale, dunque, potrebbe logicamente essere costituito da comunità strutturate, sviluppate e complesse quanto si vuole, ciascuna con la sua propria identità e spiritualità ma, nello stesso tempo, con molti elementi in comune con le comunità della stessa bioregione. Seppure la dimensione finale del mosaico finisca con l'essere bioregionale, eco-regionale, geo-regionale o morfo-regionale, la sua forza, la sua coerenza, il suo colore e la sua luminosità dipendono dalle diverse tessere comunitarie.
Alcune delle caratteristiche complessive di questo mosaico sono state descritte una decina di anni fa dagli autori di un volume inglese che è diventato in seguito un bestseller mondiale. Progetto per la sopravvivenza:

Anche se crediamo che la piccola comunità dovrebbe essere l'unità di base della società e che una simile piccola comunità dovrebbe essere per quanto possibile autosufficiente, vorremmo sottolineare che non proponiamo certo che queste comunità siano per così dire "introspettive", fissate su se stesse o comunque chiuse al resto del mondo. I concetti basilari dell'ecologia, quali l'interrelazione fra tutte le cose e le ripercussioni di ampia dimensione e lunga durata che hanno i processi ecologici o la loro manomissione, dovrebbero influenzare le decisioni prese dalla comunità, e di conseguenza dovrebbe esistere una rete sufficiente e sensibile di comunicazione fra tutte le comunità.

Una tale rete, attiva su uno o più livelli bioregionali, costituirebbe un allargamento reale degli altri generi di rete che abbiamo quotidianamente intorno - i formicai, gli alveari, i branchi di pesci, gli stormi di uccelli - consentendoci di svolgere quel compito che propriamente Gea ci ha affidato: la raccolta, la selezione, l'elaborazione, l'immagazzinamento e l'uso dell'informazione.

Nuovi valori
Suppongo che molti temano che una economia bioregionale basata sulla stabilità e sulla conservazione finirebbe col portarci a una tremenda miseria, alla perdita di tutti i nostri beni materiali, alla regressione verso uno stato di sussistenza che ci costringerebbe a vivere nelle caverne ed a nutrirci di bacche. Lascerò la confutazione di questi argomenti ad altri, specificamente qualificati a farlo, fra i quali economisti come Kenneth Boulding, E.J. Mishan, Nicholas Georgescu Roegen e E.F. Schumacher (la lista completa di queste opere è inclusa in bibliografia, e posso assicurarvi che questi autori hanno esposto le loro posizioni in modo tale da rispondere ad ogni ragionevole obiezione), ma è necessario prendere brevemente in esame l'inevitabile questione dei "livelli di vita" e di cosa, a questo proposito, un futuro bioregionale potrebbe comportare.
Partiamo da questo presupposto: è ovvio che non possiamo continuare a calcolare i livelli di vita con i metodi tradizionali basati su uno sfruttamento incosciente e su una crescita irresponsabile, ma dobbiamo incominciare a pensare in altri termini. Dobbiamo imparare a misurare i nostri standard di vita sull'aria pulita piuttosto che sulle grandi automobili, sulla salubrità degli alimenti senza componenti chimici piuttosto che sugli utili che si possono ricavare dai surgelati dei supermercati, sul lavoro indipendente piuttosto che su cospicue buste paga, su giorni senza ore di punta, senza spot commerciali televisivi e senza spazzatura pubblicitaria postale. Cose che non possono essere misurate secondo i canoni tradizionali del Prodotto Nazionale Lordo (che giustamente viene chiamato lordo, cioè sporco) ma che hanno un valore - e per molti un valore primario - ed in un calcolo sensato debbono essere prese in considerazione nella valutazione del livello di vita. L'economia bioregionale deve essere più ad alta intensità di lavoro che di energia, in modo da produrre un maggior numero di posti di lavoro. Deve produrre beni durevoli in maggior quantità in modo da ridurre rifiuti, valorizzando la qualità piuttosto che la quantità. Deve ridurre l'inquinamento dell'aria, dell'acqua, del cibo, migliorando così la salute pubblica. Deve eliminare l'inflazione naturale in un'economia basata sulla crescita, in modo da rendere i redditi, le spese e tutte le monete più stabili. Sono valori, questi, evidenti a chiunque. Insomma, ci sono più valori nel sistema bioregionale, Orazio, che nei sogni degli economisti tradizionali. Del resto sarebbe pazzesco, a parte le altre considerazioni, rifiutare un nuovo sistema economico solo perché non sarebbe coerente con quello attuale, caratterizzato dall'ingiustizia patente e dall'instabilità. Non voglio certo negare che l'ultimo secolo di sfruttamento della natura abbia prodotto un esempio enorme, esorbitante di quella che gli ecologisti chiamano fioritura, cioè un periodo di crescita straordinariamente rapida, di espansione rapida degli ecosistemi con uso di enormi quantità di energia - e che gli Stati Uniti abbiano creato una delle società più prospere dal punto di vista materiale di tutto il mondo. Ma lo abbiamo fatto, come quasi tutti gli scienziati riconoscono, attraverso un uso sconsiderato, eccessivo, incredibile e non riproducibile delle risorse del mondo, utilizzando il 30 o 40% delle disponibilità attuali per sostenere solo il 6% della popolazione mondiale.
In ogni modo, ammesso che le ricadute di questo sviluppo siano positive per qualcuno, non si tratta di una crescita di cui abbia beneficiato la maggioranza della popolazione. Statistiche ufficiali (e ufficiose) indicano che qualcosa come 35/50 milioni di statunitensi vivono una condizione di grave povertà, ai limiti della fame; il 20% più ricco delle famiglie americane dispone del 40% del reddito nazionale (il 41% nel 1980) e così è stato per decenni; solo il 50% del totale delle famiglie ha un reddito netto di circa 4.000 dollari; e il 5% del livello più alto detiene la metà della ricchezza nazionale, mentre un 25% costituente il livello più basso non possiede nulla o piuttosto ha solo debiti. Una fioritura di assurdità e ingiustizia: qualcosa che non è così prezioso da meritare di essere protetto - mi sembra - o di essere considerato immutabile; che non è così positivo ed efficace da rendere indegna di considerazione ogni alternativa ragionevole. Specialmente quando esistono altre alternative alla soluzione del problema.
In effetti la concezione darwinista secondo cui l'evoluzione favorirebbe la sopravvivenza degli individui più adatti attraverso una lotta senza sosta, oggi ha ceduto il posto alla convinzione che il successo nell'evoluzione si identifica con la sopravvivenza delle comunità più adatte grazie alla loro capacità di interconnessione e cooperazione. Quelle famiglie e quei gruppi che si univano ed apprendevano a cooperare nella cura del fuoco, nella spartizione del cibo, nella caccia dei grossi animali, nella difesa degli accampamenti (o, nel linguaggio corrente dell'antropologia, delle "strutture abitative"), avevano più possibilità di sopravvivere degli altri. Questo genere di cooperazione, dopo centinaia di migliaia di anni, è diventato un istinto innato nella specie umana (Dubos e altri biologi ritengono che sia iscritto nel codice genetico e si esprime nei caratteri della collaborazione, del lavoro di gruppo, della solidarietà e della federazione (...)

Modello comunitario
La nozione di economia cooperativa piuttosto che competitiva è così incongrua rispetto all'esperienza occidentale degli ultimi 500 anni che è difficile farsene un'idea. Ma è bene ricordare che quel che diamo per scontato nel nostro sistema di mercato, quello che assumiamo come la "natura umana" dei venditori e dei compratori, costituisce in realtà una evoluzione recente. Nelle economie semplici delle società antecedenti all'era moderna, nelle economie tribali e contadine conosciute dagli antropologi, vige un sistema concettuale e di valori per lo più diretti a realizzare l'armonia sociale piuttosto che l'utile personale. Secondo le ricostruzioni di questi studiosi, tali società (penso a L'economia dell'età della pietra di Marshall Sahlins e a La Grande Trasformazione di Karl Polanyi, fra gli altri) sembra che abbiano molto da insegnare ad una società bioregionale: valutazione dei beni in base alla loro utilità o bellezza piuttosto che in base al loro costo; uno scambio effettuato sulla base delle necessità piuttosto che sulla base dei valori di scambio; una distribuzione sociale senza relazione alla quantità di lavoro prestato dai suoi membri; una prestazione di lavoro senza l'idea di un salario o di un utile personale, o addirittura lo stesso concetto di "lavoro". (Una gran parte delle società primitive semplicemente non conoscono la parola "lavoro", essendo l'idea estranea a culture nelle quali non sono intraprese attività che non siano consuetudinarie, rituali o espressioni spontanee della socialità nelle quali raramente si esercitano costrizioni o forzature per obbligare qualcuno a farle). Se questo strano modello comunitario fosse adottato da una società bioregionale, quali ne sarebbero oggi i principi? Per cominciare, presumibilmente ci sarebbe la coscienza che le ricchezze della natura sono ricchezze di tutti (la gente non potrebbe possedere la terra, i suoi minerali o i suoi alberi, non più di quanto possa possedere il cielo e le nuvole) e che quanto può essere ricavato dal regno di Gea non può essere accumulato e usato a vantaggio personale, ma distribuito ed usato a beneficio di tutta la regione. Le economie bioregionali sarebbero quindi mirate ad una ridistribuzione delle risorse: una popolazione di una determinata dimensione, possiamo calcolare, ha bisogno di X ettari coltivati con Y tipi di prodotti, di una certa prevedibile quantità di energia all'anno, di tante tonnellate di questa o di quella risorsa, di un prevedibile quantitativo di litri d'acqua potabile, eccetera; compito dell'economia è quello di produrre precisamente quell'insieme di beni che in condizioni normali possa consentire il sostentamento di ogni individuo, di ogni famiglia, di ogni comunità. Se la produzione eccede il previsto, una parte dell'eccedenza può essere immagazzinata in vista di future annate magre, una parte scambiata sul mercato, un'altra trasformata in metano, fontane, fuochi d'artificio o sculture. Se si rendono necessari complicati scambi di beni e di servizi, il ricorso ad un mezzo monetario può essere utile - anche se è bene tenere presente che vi sono state più società nella storia che hanno funzionato sulla base del baratto e del dono di quante invece abbiano fatto ricorso alle monete - ma questo solo se la moneta è basata sulle risorse locali ed è controllata da istituzioni locali.
La proprietà, di terreni, fabbriche, officine e magazzini, insomma di tutto ciò che ovviamente non è privato, dovrebbe essere nelle mani della comunità piuttosto che della regione o dell'individuo, ma una lunga storia di interessi personali suggerisce che gli individui e le famiglie abbiano un diritto di uso, un usufrutto, di beni e terre a proprio vantaggio. (...) Una forma simile di decentralismo, la ricorrente tendenza al separatismo, all'indipendenza e all'autonomia locale contro la concentrazione, esiste anche nella società umana. In tutta la storia umana, anche negli ultimi cento anni, la gente ha mostrato una certa tendenza a vivere in piccoli gruppi separati, a una "frammentazione della società umana" che Harold Isaacs, docente di problemi internazionali al MIT, ha descritto come "una forza pervasiva nella società umana che esiste da sempre". Anche quando si sono imposti imperi e nazioni, fa notare, questi non sono mai riusciti a rendere solide le forme del potere centrale contro la tendenza innata dell'uomo alla decentralizzazione:

L'esperienza dimostra che vi possono essere ritardi di ogni genere, che il declino può richiedere tempi lunghi, ma che in queste condizioni non possono essere conservate per tempi indefiniti. Sotto pressioni esterne ed interne, di solito entrambe, l'autorità centrale viene erosa, la sua legittimità è messa in questione e in un contesto di guerre, crolli e rivoluzioni, il sistema di potere si sfascia.

E, prendendo in esame tutti i cataclismi del XX secolo, Isaacs afferma che questo processo opera anche ai nostri tempi, ovunque, facendo crollare imperi, travolgendo nazioni nuove e dividendo le vecchie, in "una grande spinta verso la frammentazione".

Ciò che stiamo sperimentando, dunque, non è la formazione di nuove omogeneità, ma un mondo che si frammenta, che scoppia come le stelle piccole e grandi delle galassie in espansione, ciascuna su una sua orbita centrifuga, e ciascuna a sua volta impegnata ad impedire la "fuga" verso orbite proprie delle sue parti componenti.

Le lezioni politiche che ne derivano sono abbastanza chiare, almeno a mio parere: le istituzioni bioregionali debbono cercare di realizzare un potere diffuso, la decentralizzazione delle istituzioni, senza concedere al livello più alto nulla che non risponda alla pura e semplice necessità, in un sistema che consenta un flusso di autorità dal basso verso l'alto, dalle unità politiche più piccole a quelle più grandi. La sede del meccanismo decisionale, dunque, e del controllo politico ed economico, dovrebbe essere la comunità base, il gruppo più o meno ristretto, al livello del villaggio di un migliaio di persone o, più probabilmente, a quello della comunità più ampia di 5.000 o 10.000 persone che così spesso si ritrova come unità politica fondamentale, vuoi in modo formale o informale. Qui dove la gente si conosce e condivide le condizioni ambientali, dove le informazioni elementari per risolvere i problemi sono note o facilmente reperibili, proprio qui dovrebbe collocarsi la gestione comunitaria. Le decisioni prese a questo livello, come innumerevoli secoli dimostrano, hanno una maggiore possibilità di essere corrette e una ragionevole probabilità di essere portate a termine; e anche nel caso in cui le scelte fossero errate o la loro attuazione insufficiente, il danno per la società umana e per l'ecosfera sarebbe irrilevante. È questo il tipo di governo stabilito dalle popolazioni primitive in tutto il globo, quello che si è sviluppato per raggiungere quel tanto di efficienza necessaria a risolvere i problemi della sopravvivenza. Le riunioni tribali, gli incontri popolari, le assemblee di villaggio e quelle cittadine, costituiscono le istituzioni umane che si sono dimostrate nel corso del tempo gli strumenti più adatti ad un sistema di autogoverno. (...)

Società di abitanti
Nonostante quanto abbia affermato in precedenza a proposito del carattere essenzialmente pacifico e benigno di un ecosistema nel suo stato maturo, resta comunque vero che l'aggressione, e qualcosa che assomiglia molto alla guerra, esiste nel regno animale, specialmente fra i vertebrati, e certamente in molte società tribali. In un certo senso, quello dell'aggressione appare come un istinto ecologico, poiché nelle società animali assolve chiaramente a certe funzioni: ad esempio serve a tenere a distanza certe comunità all'interno di uno stesso spazio ecologico proporzionando la popolazione alle capacità nutritive del territorio; e la guerra in se stessa serve a limitare le popolazioni in assoluto. Di conseguenza, quello che in generale constatiamo nel mondo della natura non è la tendenza a eliminare l'aggressività e la lotta (questo è un sogno fuorviante dei pacifisti), ma a minimizzarla, a limitarla, a ritualizzarla, a canalizzarla in modo che non provochi danni irrimediabili. Per una società bioregionale lo scopo non sarebbe tanto quello di eliminare ogni forma di aggressività, quanto quello di formulare delle regole che consentano di controllarla e di limitarne gli effetti dannosi. Probabilmente non è possibile prevedere tutti i modi in cui una bioregione stabile potrebbe cercare di realizzare l'armonia all'interno e la sua protezione all'esterno, modi che sarebbero certo di una grande varietà. Ma possiamo farcene un'idea se prendiamo in considerazione quelle che storicamente sono state le cause dell'aggressività umana cercando di individuare gli strumenti con cui una società bioregionale potrebbe minimizzarle o anche eliminarle del tutto.
Dobbiamo incominciare necessariamente dalle relazioni di una società con il suo ambiente. Credo che le riflessioni di Karl Wittvogel e Lewis Mumford, completate dalle ricerche della Scuola di Francoforte e specialmente dai contributi di Murray Bookchin, forniscano una prova convincente del fatto che, in sintesi, le società che esercitano un dominio sulla natura, esercitano un dominio analogo sulle persone. Dove vige l'idea che si debba costruire una diga massiccia per controllare il corso di un fiume, troveremo anche l'idea che la gente deve essere ridotta in schiavitù per costruire la diga; dove si ritiene che una metropoli gigantesca possa depredare il territorio circostante e rapinarlo delle sue materie prime per il proprio uso, ivi si costruiranno caste e gerarchie destinate a garantire la riuscita di questo disegno; e dove vige una filosofia secondo cui una società ha il diritto di esercitare il suo controllo assoluto sulle piante e gli animali che la circondano, usandoli per il suo massimo profitto, vigerà anche la filosofia della guerra, che è una semplice estensione agli esseri umani di una concezione che pretende di imporsi a tutta la biosfera. La società bioregionale, così come abbiamo cercato di descriverla, sarebbe chiaramente diversa da tutto ciò. Poiché interpreterebbe se stessa come una società di abitanti della Terra, come parte del tessuto vitale di Gea, sarebbe non guidata da uno spirito di dominio ma di umiltà, non di controllo ma di armonia interna, non di conquista del potere ma di gratitudine per i privilegi di cui dispone. E di conseguenza, l'interesse e la stessa capacità di fare la guerra ne risulterebbero molto ridotte.

1) So bene che c'è gente che distrugge volontariamente il proprio ambiente come i balenieri giapponesi che distruggono quegli stessi animali di cui hanno bisogno per sopravvivere, i coltivatori di grano dell'Ogallala che sprecano le acque di cui hanno bisogno per alimentare i loro campi e altri che vivono già al di là di quella breve parabola che Garret Hardin ha descritto come "la tragedia delle comunità". Ma costoro non vivono in una dimensione bioregionale. Concepiscono la realtà non in termini ecologici, ma economici, ed in genere si mettono al servizio di forze economiche remote che non hanno alcun rispetto per il loro ambiente particolare, e che sono ben felici di usarlo per i loro profitti immediati, quali che siano gli effetti distruttivi che ne possono conseguire a lungo termine.