Rivista Anarchica Online
Le regioni della
natura
di Kirkpatrick Sale
Pubblichiamo alcuni
stralci del libro Le regioni della natura di
imminente pubblicazione presso la casa editrice Elèuthera. L'autore,
segretario della Shumacher Society e fondatore del North American
Bioregional Congress, sviluppa un'esposizione organica ed
articolata dell'ipotesi bioregionale e dei suoi fondamenti
teorici.
Qualche tempo fa sono stato invitato dalla
facoltà di Filosofia di una importante università a
partecipare ad un convegno su "Risposte morali alle minacce
incombenti sull'ambiente", o qualcosa del genere, durante il
quale sono stato costretto a misurarmi con molti documenti lunghi e
noiosi sulle risposte corrette dal punto di vista morale al problema
della fame nel mondo, delle specie a rischio, della distruzione
delle risorse e altre cose del genere. Era chiaro che molta gente
del pubblico che partecipava al convegno era più sconcertata
di me di fronte a questi discorsi e al momento del dibattito ha
sfidato gli oratori chiedendo come potevano pensare che uno abbia un
atteggiamento morale rispetto a qualcosa che evidentemente
non ha alcun nesso con la sua vita e con le sue possibilità
di influire sulla realtà. Dopo tutto, quale dovrebbe
essere la "risposta morale" di fronte alla caccia
sterminatrice dei giapponesi alla balena, ammesso che se ne sia al
corrente? Cosa ha a che fare questo con la moralità? Forse si
è più o meno morali per il fatto di starne male, di
protestare o di boicottare la Toyota? E che differenza può
fare tutto ciò nei confronti dell'industria giapponese della
pesca? Dovrebbero forse avere una "dimensione morale" nel
loro lavoro e introdurre considerazioni di ordine morale al fine di
salvare gli animali di cui sono cacciatori? E perché fare di
tutti i problemi ambientali dei problemi morali, quando
evidentemente costituiscono puramente e semplicemente dei problemi
pratici, come per esempio quello di dare da mangiare alla gente
affamata o sviluppare dei progetti di impiego dell'energia solare al
posto dei combustibili fossili? (...) A questo punto, forse
incautamente, ho deciso di intervenire. La questione, ho detto, non
è quella della moralità, ma quella della scala,
della dimensione. Non esiste un modo efficace di insegnare, o di
costringere a adottare un punto di vista morale o di garantire una
corretta risposta morale a un problema qualunque. L'unico modo in
cui la gente può adottare un "comportamento corretto"
e comportarsi in modo responsabile è affrontando
concretamente il problema e comprendendo il proprio legame diretto
con la questione, il che può essere fatto solo su scala
limitata. Si può farlo solo quando le strutture di potere
della società sono direttamente riconoscibili e
comprensibili, solo dove i rapporti fra le persone sono realmente
intimi, e dove gli esiti dei comportamenti individuali sono
controllabili; dove e quando le intoccabili astrazioni hanno ceduto
il posto al qui e ora, al visto e sentito, al reale e conosciuto .
La gente costruirà un ambiente "corretto" non
perché si tratti di un obiettivo "morale", ma
perché si tratta di uno scopo "pratico". Ciò
non può essere realizzato su scala globale , né
continentale e neppure nazionale, poiché l'animale uomo,
piccolo e limitato, dispone solo di una visione modesta del mondo e
di ciò che egli può fare al suo interno. Le
questioni di scala, in altri termini, sono la chiave per risolvere
problemi teorici e astratti nei quali i filosofi si avvolgono in
modo irresolubile. Solo così si possono ottenere
"risposte alle minacce incombenti sull'ambiente" che non
siano un argomento accademico ed astratto. Se esiste una dimensione
nella quale si può sviluppare una coscienza ecologica, nella
quale i cittadini possono concepire se stessi come cause
degli effetti ambientali, questa dimensione è quella
regionale; è solo a questo livello che i problemi ecologici
sono trattati fuori dalle dimensioni filosofiche e morali e si
esprimono come fatti immediati e personali. La gente non inquina o
rovina i sistemi naturali dai quali dipende la sua vita se si rende
direttamente conto di quel che sta succedendo; allo stesso modo non
spreca risorse che ha sotto i piedi o di fronte agli occhi quando
capisce che gli sono preziose, necessarie e vitali; e ancora, non
massacra le specie animali che capisce essere importanti per un
normale funzionamento dell'ecosistema. Quando la gente guarda con
gli occhi di Gea e ha coscienza dei valori di Gea - cosa che non
può avvenire che in una dimensione bioregionale - non vi è
alcuna necessità di preoccuparsi delle astruse fantasie sui
"rapporti etici" con il mondo circostante. (1) La
ragione per cui ho cominciato la discussione sul modello
bioregionale a partire dal concetto di scala, è perché,
in fondo, penso che si tratti dell'unico elemento decisivo e
determinante di qualsiasi opera umana, si tratti di una
costruzione, un sistema qualunque, o una organizzazione sociale.
Nessuna opera umana, per quanto ingegnosa, può avere successo
se troppo piccola o, come è più spesso il caso, troppo
grande; proprio come una porta se troppo piccola per consentire il
passaggio, o troppo grande per poter essere manovrata; o come
un'economia troppo limitata per garantire la sussistenza o un
governo troppo complesso per consentire a tutti i cittadini di
essere al corrente delle sue decisioni e di poterle
influenzare. Alla giusta dimensione il potenziale umano è
liberato, la comprensione umana è massimizzata,
la realizzazione dell'uomo moltiplicata. Vorrei concludere che la
scala ottimale è quella bioregionale, una scala non tanto
piccola da essere impotente e miserabile , né così
grande da essere pesante e incontrollabile, una dimensione in cui il
potenziale umano può affrontare la realtà ecologica
(...)
Confini un po'
imprecisi Ovviamente
identificare le bioregioni non è una cosa semplice, ma le
grandi categorie di classificazione sono abbastanza chiare per
chiunque voglia osservare - non si possono confondere il deserto di
Sonora e gli altopiani di Ozark - e probabilmente, allo stadio
attuale, lo sviluppo del bioregionalismo è più legato
alla valutazione di queste categorie generali, gli elementi di base
del progetto Gea, che alla preoccupazione di definire profili
elaborati e immutabili. I confini saranno sempre imprecisi, dato che
abbiamo a che fare con i modi di essere flessibili della natura;
niente potrà costringere il millefoglie o la pulce entro i
confini stabili dell'altopiano di Ozark, né limitare la
graziosa fenopepla entro i confini del bassopiano di Sonora. E'
meglio tenere i confini un po' imprecisi, anche se ciò
contraddice al bisogno scientista di esattezza perché così
si facilita la mescolanza, la fertilizzazione reciproca delle
culture ai punti di contatto delle bioregioni, smussando quelle
possessività e diffidenze che i confini rigidi spesso
determinano, e tenendo sotto controllo la tendenza umana ad imporre
alla natura i nostri schemi e propositi. Infine, il compito di
definire i confini bioregionali corretti - e stabilire fino a che
punto assumerli come definitivi - dovrà sempre essere
lasciato agli abitanti dell'area, gli abitanti della Terra, che
saranno sempre quelli che li conoscono meglio. Non dovrebbe
trattarsi di un processo eccessivamente difficile, visto che ha
fatto parte del modo di organizzarsi delle società arcaiche
strettamente legate al territorio. Come si può chiaramente
vedere se si prendono in considerazione le popolazioni indiane che
per prime si sono insediate nel continente americano. Dato che
dovevano vivere dei prodotti della terra e che i loro modi di vita
dipendevano dai caratteri del territorio, si distribuirono secondo
schemi che noi chiameremmo bioregionali. (...) Il mosaico
bioregionale, dunque, potrebbe logicamente essere costituito da
comunità strutturate, sviluppate e complesse quanto si
vuole, ciascuna con la sua propria identità e spiritualità
ma, nello stesso tempo, con molti elementi in comune con le
comunità della stessa bioregione. Seppure la dimensione
finale del mosaico finisca con l'essere bioregionale, eco-regionale,
geo-regionale o morfo-regionale, la sua forza, la sua coerenza, il
suo colore e la sua luminosità dipendono dalle diverse
tessere comunitarie. Alcune delle caratteristiche complessive di
questo mosaico sono state descritte una decina di anni fa dagli
autori di un volume inglese che è diventato in seguito un
bestseller mondiale. Progetto per la sopravvivenza:
Anche se crediamo
che la piccola comunità dovrebbe essere l'unità di
base della società e che una simile piccola comunità
dovrebbe essere per quanto possibile autosufficiente, vorremmo
sottolineare che non proponiamo certo che queste comunità
siano per così dire "introspettive", fissate su se
stesse o comunque chiuse al resto del mondo. I concetti basilari
dell'ecologia, quali l'interrelazione fra tutte le cose e le
ripercussioni di ampia dimensione e lunga durata che hanno i
processi ecologici o la loro manomissione, dovrebbero influenzare le
decisioni prese dalla comunità, e di conseguenza dovrebbe
esistere una rete sufficiente e sensibile di comunicazione fra tutte
le comunità.
Una tale rete, attiva
su uno o più livelli bioregionali, costituirebbe un
allargamento reale degli altri generi di rete che abbiamo
quotidianamente intorno - i formicai, gli alveari, i branchi di
pesci, gli stormi di uccelli - consentendoci di svolgere quel
compito che propriamente Gea ci ha affidato: la raccolta, la
selezione, l'elaborazione, l'immagazzinamento e l'uso
dell'informazione.
Nuovi valori Suppongo che molti
temano che una economia bioregionale basata sulla stabilità e
sulla conservazione finirebbe col portarci a una tremenda miseria,
alla perdita di tutti i nostri beni materiali, alla regressione
verso uno stato di sussistenza che ci costringerebbe a vivere nelle
caverne ed a nutrirci di bacche. Lascerò la confutazione di
questi argomenti ad altri, specificamente qualificati a farlo, fra i
quali economisti come Kenneth Boulding, E.J. Mishan, Nicholas
Georgescu Roegen e E.F. Schumacher (la lista completa di queste
opere è inclusa in bibliografia, e posso assicurarvi che
questi autori hanno esposto le loro posizioni in modo tale da
rispondere ad ogni ragionevole obiezione), ma è necessario
prendere brevemente in esame l'inevitabile questione dei "livelli
di vita" e di cosa, a questo proposito, un futuro bioregionale
potrebbe comportare. Partiamo da questo presupposto: è
ovvio che non possiamo continuare a calcolare i livelli di vita con
i metodi tradizionali basati su uno sfruttamento incosciente e su
una crescita irresponsabile, ma dobbiamo incominciare a pensare in
altri termini. Dobbiamo imparare a misurare i nostri standard di
vita sull'aria pulita piuttosto che sulle grandi automobili, sulla
salubrità degli alimenti senza componenti chimici piuttosto
che sugli utili che si possono ricavare dai surgelati dei
supermercati, sul lavoro indipendente piuttosto che su cospicue
buste paga, su giorni senza ore di punta, senza spot commerciali
televisivi e senza spazzatura pubblicitaria postale. Cose che non
possono essere misurate secondo i canoni tradizionali del Prodotto
Nazionale Lordo (che giustamente viene chiamato lordo, cioè
sporco) ma che hanno un valore - e per molti un valore primario - ed
in un calcolo sensato debbono essere prese in considerazione nella
valutazione del livello di vita. L'economia bioregionale deve
essere più ad alta intensità di lavoro che di energia,
in modo da produrre un maggior numero di posti di lavoro. Deve
produrre beni durevoli in maggior quantità in modo da ridurre
rifiuti, valorizzando la qualità piuttosto che la quantità.
Deve ridurre l'inquinamento dell'aria, dell'acqua, del cibo,
migliorando così la salute pubblica. Deve eliminare
l'inflazione naturale in un'economia basata sulla crescita, in modo
da rendere i redditi, le spese e tutte le monete più stabili.
Sono valori, questi, evidenti a chiunque. Insomma, ci sono più
valori nel sistema bioregionale, Orazio, che nei sogni degli
economisti tradizionali. Del resto sarebbe pazzesco, a parte le
altre considerazioni, rifiutare un nuovo sistema economico solo
perché non sarebbe coerente con quello attuale,
caratterizzato dall'ingiustizia patente e dall'instabilità.
Non voglio certo negare che l'ultimo secolo di sfruttamento della
natura abbia prodotto un esempio enorme, esorbitante di quella che
gli ecologisti chiamano fioritura, cioè un periodo di
crescita straordinariamente rapida, di espansione rapida degli
ecosistemi con uso di enormi quantità di energia - e che gli
Stati Uniti abbiano creato una delle società più
prospere dal punto di vista materiale di tutto il mondo. Ma lo
abbiamo fatto, come quasi tutti gli scienziati riconoscono,
attraverso un uso sconsiderato, eccessivo, incredibile e non
riproducibile delle risorse del mondo, utilizzando il 30 o 40%
delle disponibilità attuali per sostenere solo il 6% della
popolazione mondiale. In ogni modo, ammesso che le ricadute di
questo sviluppo siano positive per qualcuno, non si tratta di una
crescita di cui abbia beneficiato la maggioranza della popolazione.
Statistiche ufficiali (e ufficiose) indicano che qualcosa come 35/50
milioni di statunitensi vivono una condizione di grave povertà,
ai limiti della fame; il 20% più ricco delle famiglie
americane dispone del 40% del reddito nazionale (il 41% nel 1980) e
così è stato per decenni; solo il 50% del totale delle
famiglie ha un reddito netto di circa 4.000 dollari; e il 5% del
livello più alto detiene la metà della ricchezza
nazionale, mentre un 25% costituente il livello più basso non
possiede nulla o piuttosto ha solo debiti. Una fioritura di
assurdità e ingiustizia: qualcosa che non è così
prezioso da meritare di essere protetto - mi sembra - o di essere
considerato immutabile; che non è così positivo ed
efficace da rendere indegna di considerazione ogni alternativa
ragionevole. Specialmente quando esistono altre alternative alla
soluzione del problema. In effetti la concezione darwinista
secondo cui l'evoluzione favorirebbe la sopravvivenza degli
individui più adatti attraverso una lotta senza sosta, oggi
ha ceduto il posto alla convinzione che il successo nell'evoluzione
si identifica con la sopravvivenza delle comunità più
adatte grazie alla loro capacità di interconnessione e
cooperazione. Quelle famiglie e quei gruppi che si univano ed
apprendevano a cooperare nella cura del fuoco, nella spartizione del
cibo, nella caccia dei grossi animali, nella difesa degli
accampamenti (o, nel linguaggio corrente dell'antropologia, delle
"strutture abitative"), avevano più possibilità
di sopravvivere degli altri. Questo genere di cooperazione, dopo
centinaia di migliaia di anni, è diventato un istinto
innato nella specie umana (Dubos e altri biologi ritengono che sia
iscritto nel codice genetico e si esprime nei caratteri
della collaborazione, del lavoro di gruppo, della solidarietà
e della federazione (...)
Modello comunitario La nozione di economia
cooperativa piuttosto che competitiva è così incongrua
rispetto all'esperienza occidentale degli ultimi 500 anni che è
difficile farsene un'idea. Ma è bene ricordare che quel che
diamo per scontato nel nostro sistema di mercato, quello che
assumiamo come la "natura umana" dei venditori e dei
compratori, costituisce in realtà una evoluzione recente.
Nelle economie semplici delle società antecedenti all'era
moderna, nelle economie tribali e contadine conosciute dagli
antropologi, vige un sistema concettuale e di valori per lo più
diretti a realizzare l'armonia sociale piuttosto che l'utile
personale. Secondo le ricostruzioni di questi studiosi, tali società
(penso a L'economia dell'età della pietra di Marshall
Sahlins e a La Grande Trasformazione di Karl Polanyi, fra gli
altri) sembra che abbiano molto da insegnare ad una società
bioregionale: valutazione dei beni in base alla loro utilità
o bellezza piuttosto che in base al loro costo; uno scambio
effettuato sulla base delle necessità piuttosto che sulla
base dei valori di scambio; una distribuzione sociale senza
relazione alla quantità di lavoro prestato dai suoi membri;
una prestazione di lavoro senza l'idea di un salario o di un utile
personale, o addirittura lo stesso concetto di "lavoro".
(Una gran parte delle società primitive semplicemente non
conoscono la parola "lavoro", essendo l'idea estranea a
culture nelle quali non sono intraprese attività che non
siano consuetudinarie, rituali o espressioni spontanee della
socialità nelle quali raramente si esercitano costrizioni
o forzature per obbligare qualcuno a farle). Se questo strano
modello comunitario fosse adottato da una società
bioregionale, quali ne sarebbero oggi i principi? Per
cominciare, presumibilmente ci sarebbe la coscienza che le ricchezze
della natura sono ricchezze di tutti (la gente non potrebbe
possedere la terra, i suoi minerali o i suoi alberi, non più
di quanto possa possedere il cielo e le nuvole) e che quanto può
essere ricavato dal regno di Gea non può essere accumulato e
usato a vantaggio personale, ma distribuito ed usato a beneficio di
tutta la regione. Le economie bioregionali sarebbero quindi mirate
ad una ridistribuzione delle risorse: una popolazione di una
determinata dimensione, possiamo calcolare, ha bisogno di X ettari
coltivati con Y tipi di prodotti, di una certa prevedibile quantità
di energia all'anno, di tante tonnellate di questa o di quella
risorsa, di un prevedibile quantitativo di litri d'acqua potabile,
eccetera; compito dell'economia è quello di produrre
precisamente quell'insieme di beni che in condizioni normali possa
consentire il sostentamento di ogni individuo, di ogni famiglia, di
ogni comunità. Se la produzione eccede il previsto, una
parte dell'eccedenza può essere immagazzinata in vista di
future annate magre, una parte scambiata sul mercato, un'altra
trasformata in metano, fontane, fuochi d'artificio o sculture. Se
si rendono necessari complicati scambi di beni e di servizi, il
ricorso ad un mezzo monetario può essere utile - anche se
è bene tenere presente che vi sono state più società
nella storia che hanno funzionato sulla base del baratto e del dono
di quante invece abbiano fatto ricorso alle monete - ma questo solo
se la moneta è basata sulle risorse locali ed è
controllata da istituzioni locali. La proprietà, di
terreni, fabbriche, officine e magazzini, insomma di tutto ciò
che ovviamente non è privato, dovrebbe essere nelle mani
della comunità piuttosto che della regione o dell'individuo,
ma una lunga storia di interessi personali suggerisce che gli
individui e le famiglie abbiano un diritto di uso, un usufrutto, di
beni e terre a proprio vantaggio. (...) Una forma simile di
decentralismo, la ricorrente tendenza al separatismo,
all'indipendenza e all'autonomia locale contro la concentrazione,
esiste anche nella società umana. In tutta la storia umana,
anche negli ultimi cento anni, la gente ha mostrato una certa
tendenza a vivere in piccoli gruppi separati, a una "frammentazione
della società umana" che Harold Isaacs, docente di
problemi internazionali al MIT, ha descritto come "una forza
pervasiva nella società umana che esiste da sempre".
Anche quando si sono imposti imperi e nazioni, fa notare, questi non
sono mai riusciti a rendere solide le forme del potere centrale
contro la tendenza innata dell'uomo alla decentralizzazione:
L'esperienza
dimostra che vi possono essere ritardi di ogni genere, che il
declino può richiedere tempi lunghi, ma che in queste
condizioni non possono essere conservate per tempi indefiniti. Sotto
pressioni esterne ed interne, di solito entrambe, l'autorità
centrale viene erosa, la sua legittimità è messa in
questione e in un contesto di guerre, crolli e rivoluzioni, il
sistema di potere si sfascia.
E, prendendo in esame
tutti i cataclismi del XX secolo, Isaacs afferma che questo processo
opera anche ai nostri tempi, ovunque, facendo crollare imperi,
travolgendo nazioni nuove e dividendo le vecchie, in "una
grande spinta verso la frammentazione".
Ciò che
stiamo sperimentando, dunque, non è la formazione di nuove
omogeneità, ma un mondo che si frammenta, che scoppia come le
stelle piccole e grandi delle galassie in espansione, ciascuna su
una sua orbita centrifuga, e ciascuna a sua volta impegnata ad
impedire la "fuga" verso orbite proprie delle sue parti
componenti.
Le lezioni politiche
che ne derivano sono abbastanza chiare, almeno a mio parere: le
istituzioni bioregionali debbono cercare di realizzare un potere
diffuso, la decentralizzazione delle istituzioni, senza concedere
al livello più alto nulla che non risponda alla pura e
semplice necessità, in un sistema che consenta un flusso di
autorità dal basso verso l'alto, dalle unità politiche
più piccole a quelle più grandi. La sede del
meccanismo decisionale, dunque, e del controllo politico ed
economico, dovrebbe essere la comunità base, il gruppo più
o meno ristretto, al livello del villaggio di un migliaio di persone
o, più probabilmente, a quello della comunità più
ampia di 5.000 o 10.000 persone che così spesso si ritrova
come unità politica fondamentale, vuoi in modo formale o
informale. Qui dove la gente si conosce e condivide le condizioni
ambientali, dove le informazioni elementari per risolvere i problemi
sono note o facilmente reperibili, proprio qui dovrebbe collocarsi
la gestione comunitaria. Le decisioni prese a questo livello, come
innumerevoli secoli dimostrano, hanno una maggiore possibilità
di essere corrette e una ragionevole probabilità di essere
portate a termine; e anche nel caso in cui le scelte fossero errate
o la loro attuazione insufficiente, il danno per la società
umana e per l'ecosfera sarebbe irrilevante. È questo il
tipo di governo stabilito dalle popolazioni primitive in tutto il
globo, quello che si è sviluppato per raggiungere quel tanto
di efficienza necessaria a risolvere i problemi della sopravvivenza.
Le riunioni tribali, gli incontri popolari, le assemblee di
villaggio e quelle cittadine, costituiscono le istituzioni umane che
si sono dimostrate nel corso del tempo gli strumenti più
adatti ad un sistema di autogoverno. (...) Società di
abitanti Nonostante quanto
abbia affermato in precedenza a proposito del carattere
essenzialmente pacifico e benigno di un ecosistema nel suo stato
maturo, resta comunque vero che l'aggressione, e qualcosa che
assomiglia molto alla guerra, esiste nel regno animale, specialmente
fra i vertebrati, e certamente in molte società tribali. In
un certo senso, quello dell'aggressione appare come un istinto
ecologico, poiché nelle società animali assolve
chiaramente a certe funzioni: ad esempio serve a tenere a distanza
certe comunità all'interno di uno stesso spazio ecologico
proporzionando la popolazione alle capacità nutritive del
territorio; e la guerra in se stessa serve a limitare le popolazioni
in assoluto. Di conseguenza, quello che in generale constatiamo nel
mondo della natura non è la tendenza a eliminare
l'aggressività e la lotta (questo è un sogno
fuorviante dei pacifisti), ma a minimizzarla, a limitarla, a
ritualizzarla, a canalizzarla in modo che non provochi danni
irrimediabili. Per una società bioregionale lo scopo non
sarebbe tanto quello di eliminare ogni forma di aggressività,
quanto quello di formulare delle regole che consentano di
controllarla e di limitarne gli effetti dannosi. Probabilmente
non è possibile prevedere tutti i modi in cui una bioregione
stabile potrebbe cercare di realizzare l'armonia all'interno e la
sua protezione all'esterno, modi che sarebbero certo di una grande
varietà. Ma possiamo farcene un'idea se prendiamo in
considerazione quelle che storicamente sono state le cause
dell'aggressività umana cercando di individuare gli strumenti
con cui una società bioregionale potrebbe minimizzarle o
anche eliminarle del tutto. Dobbiamo incominciare necessariamente
dalle relazioni di una società con il suo ambiente. Credo che
le riflessioni di Karl Wittvogel e Lewis Mumford, completate dalle
ricerche della Scuola di Francoforte e specialmente dai contributi
di Murray Bookchin, forniscano una prova convincente del fatto che,
in sintesi, le società che esercitano un dominio sulla
natura, esercitano un dominio analogo sulle persone. Dove vige
l'idea che si debba costruire una diga massiccia per controllare il
corso di un fiume, troveremo anche l'idea che la gente deve essere
ridotta in schiavitù per costruire la diga; dove si ritiene
che una metropoli gigantesca possa depredare il territorio
circostante e rapinarlo delle sue materie prime per il proprio uso,
ivi si costruiranno caste e gerarchie destinate a garantire la
riuscita di questo disegno; e dove vige una filosofia secondo cui
una società ha il diritto di esercitare il suo controllo
assoluto sulle piante e gli animali che la circondano, usandoli per
il suo massimo profitto, vigerà anche la filosofia della
guerra, che è una semplice estensione agli esseri umani di
una concezione che pretende di imporsi a tutta la biosfera. La
società bioregionale, così come abbiamo cercato di
descriverla, sarebbe chiaramente diversa da tutto ciò.
Poiché interpreterebbe se stessa come una società di
abitanti della Terra, come parte del tessuto vitale di Gea, sarebbe
non guidata da uno spirito di dominio ma di umiltà, non di
controllo ma di armonia interna, non di conquista del potere ma di
gratitudine per i privilegi di cui dispone. E di conseguenza,
l'interesse e la stessa capacità di fare la guerra ne
risulterebbero molto ridotte.
1) So bene che c'è
gente che distrugge volontariamente il proprio ambiente come i
balenieri giapponesi che distruggono quegli stessi animali di cui
hanno bisogno per sopravvivere, i coltivatori di grano dell'Ogallala
che sprecano le acque di cui hanno bisogno per alimentare i loro
campi e altri che vivono già al di là di quella breve
parabola che Garret Hardin ha descritto come "la tragedia delle
comunità". Ma costoro non vivono in una dimensione
bioregionale. Concepiscono la realtà non in termini
ecologici, ma economici, ed in genere si mettono al servizio di
forze economiche remote che non hanno alcun rispetto per il loro
ambiente particolare, e che sono ben felici di usarlo per i loro
profitti immediati, quali che siano gli effetti distruttivi che ne
possono conseguire a lungo termine.
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