Rivista Anarchica Online
Parola di eroe
di Carlo Oliva
La vicenda dei
piloti italiani catturati e poi liberati dagli iracheni attraverso
le dichiarazioni degli ex-prigionieri e le congetture dei vari
neo-bellicisti del teleschermo. Perché i due soldati
italiani devono considerarsi fortunati.
I lettori mi
consentiranno di esprimere, per una volta, una perplessità.
Non so con che spirito abbiano seguito loro, per le sei orribili
settimane della guerra nel Golfo, la vicenda del capitano Cocciolone
e del maggiore Bellini, i due ufficiali dell'aviazione italiana
abbattuti dalla contraerea irachena nel corso della loro prima
missione di volo, il 17 gennaio 1991, e liberati alla fine delle
ostilità. Io le ho seguite, in definitiva, con enorme
imbarazzo. Era una situazione indubbiamente spinosa. Cocciolone,
ricorderete, era stato esibito dalla televisione irachena, cui aveva
rilasciato qualche dichiarazione utile alla propaganda di Saddam
Hussein. Lo aveva fatto, evidentemente, perché costretto: un
episodio in sé disdicevole, anche perché era chiaro
come in prigionia l'avessero malmenato, ma che almeno aveva
tranquillizzato sulla sua sorte. Di Bellini, invece, mancava
praticamente qualsiasi notizia: si è saputo con certezza che
era sopravvissuto solo a ostilità finite. E nel frattempo,
entrambi avevano finito con l'assumere una sorta di pubblico ruolo
simbolico. Entrambi erano come l'incarnazione concreta,
personale, dei "nostri ragazzi", nel Golfo; gli
unici militari italiani che fossero largamente conosciuti per
nome, gli unici sulla cui situazione non vigesse la censura militare
(che degli altri equipaggi italiani permetteva di dire soltanto che
avevano effettuato via via le loro "missioni", senza
precisazioni di tempo e luogo). Varie stazioni televisive mandavano
spesso in onda servizi e interviste con i loro familiari, con la
moglie dell'uno e con la fidanzata dell'altro, persino con il
parroco del Paese. E anche se la solidarietà espressa nei
loro confronti da autorità e cittadini era stata larga e
spontanea, a tutti, in sostanza, si chiedeva di esprimere di più.
Quei pochi che s'erano rifiutati espressamente di farlo, o avevano
proposto delle letture della vicenda non omologate a quella
corrente, venivano duramente strapazzati in pubblico (citerò,
per tutte, una vergognosa scenata televisiva del noto Trombadori ai
danni del buon Luigi Manconi).
Babbi, mamme
moglie, parroco
Credo che per molti di
noi una richiesta del genere fosse più che altro
imbarazzante. Era difficile, ovviamente, non essere solidale con chi
si trovava in prigionia, in evidente pericolo, oggetto di
preoccupazione legittima per i suoi cari e per chi, per un motivo o
per l'altro, aveva a cuore la sua sorte. E poi, diciamolo, la
ostentazione televisiva di babbi, mamme, moglie, parroco e fidanzata
aiutava a ricordare a tutti una cosa che quando si parla di guerra
si tende a dimenticare troppo spesso: che i combattenti sono uomini
come gli altri, e come tutti hanno diritto al rispetto nostro ed
altrui. La guerra si basa, almeno a livello di comunicazioni
pubbliche, su una specie di ideologia della depersonalizzazione,
perché non è facile per nessuno accettare l'idea che
dei suoi confratelli in umanità facciano e subiscano quelle
terribili cose che in guerra si subiscono e si fanno. Per cui, i
morti ammazzati diventano, applicando una semplice metafora,
"caduti" e "vittime civili", e i militari in
azione spesso sono semplicemente "gli uomini", o "le
nostre truppe", o "le forze della coalizione" (o
affettuosamente "i nostri ragazzi") e così via. Un
militare di cui si parla per nome e cognome, di cui si descrive o si
intervista la fidanzata o il sacerdote che racconta di come lo
ricordi da bambino giocare all'oratorio, contraddice a questa
ideologia. Il che giova sempre alla causa della pace, quali che
siano le intenzioni di chi promuove la diffusione di messaggi del
genere. D'altro canto, era altrettanto evidente che Cocciolone e
Bellini erano combattenti, specializzati in un certo tipo
d'attività bellica e portatori per definizione di certe
responsabilità (anche se, naturalmente, le responsabilità
della guerra non spettano soltanto ai combattimenti o ai militari).
Come spesso si ripeteva, avevano "compiuto il loro dovere".
Ma quale che sia lo statuto teoretico del "dovere" (Kant,
si sa, aveva in proposito certe idee, ma la morale cattolica che
vige nel nostro Paese, è in merito, se non proprio elastica,
meno categorica), non per tutti "compiere il proprio dovere"
è un valore assoluto, tale da determinare automaticamente la
positività morale di ogni comportamento. Per molti dipende da
qual è il dovere di cui si tratta. Taluni, com'è noto,
si rifiutano persino di obbedire a certi ordini dell'autorità:
credono che esistano altri doveri che impediscono, per esempio, di
partecipare alla guerra. A volte la legislazione positiva riconosce
questa opzione come un diritto. Altre volte, naturalmente, no: i
lettori di questa rivista sono tra quanti conoscono meglio i termini
della questione. Ma, insomma, il problema è complicato
(pensiamo alle domande che ci facevamo nel numero scorso in tema di
diritto di guerra) e può suscitare effettivamente qualche
imbarazzo. Adesso, però, la guerra è finita. I due
ufficiali sono rientrati in patria, accolti come eroi dai
concittadini (anche se dal punto di vista strettamente militare non
credo si possa dire che il loro contributo alla vittoria della
coalizione sia stato grandissimo, ma per fortuna la nostra società
non ha una concezione strettamente militare dell'eroismo) e sono
stati restituiti all'affetto dei loro cari. Hanno anche rilasciato
un certo numero di dichiarazioni alla stampa. Che meritano, se ci è
permesso, qualche commento sintetico. Non che abbiano detto
niente di particolarmente scandaloso, s'intende. Secondo i
quotidiani del 9 e 10 marzo, al suo arrivo all'Aquila, a casa
sua, Cocciolone ha fatto persino dell'understatement: "Io e il
mio amico Bellini abbiamo voglia di fare una vita normale. Io eroe?
Ho fatto meno del mio dovere". Ha espresso delle aspirazioni
assolutamente pacifiche: "Un letto, un vero letto, è
stata la cosa più bella della prima notte in Italia".
Quando gli è stato chiesto un giudizio esplicito, si è
attenuto a enunciazioni di principio sensate e poco impegnative: "La
guerra? Bisognerebbe evitarla, ma la pace senza giustizia non
esiste." (Che strano, commenta l'articolista che raccoglie la
dichiarazione, sono le parole del Papa. Beh, forse non bisognava
essere il Papa per arrivarci...). Bellini aveva dimostrato un filo
di iattanza in più quando era sbarcato all'aeroporto di
Ciampino: "Dopo essermi catapultato dal Tornado ho perso i
sensi. Ed è stata la mia fortuna. Se fossi stato cosciente
avrei estratto la mia pistola, una calibro 9, e avrei sparato. E
senz'altro sarei morto", che però si può leggere
anche come una sensata raccomandazione su cosa fare e non fare per
sopravvivere. Comunque, appena sbarcato alla base aerea di Ghedi,
presso la quale risiede, ha precisato anche lui, pur ostentando
certi "feroci baffi alla mongola", di non sentirsi affatto
un eroe: "I1 vero eroe, - ha anzi detto, - è mia
moglie". La quale, apprendendo d'essere stata nominata
"bresciana dell'anno" s'è affrettata a schermirsi
con l'argomento canonico: "Credo d'aver fatto solamente il mio
dovere". Entrambi, poi, si sono dichiarati d'accordo nel far
studiare un bambino iracheno a loro spese. Insomma, leggendo tre
righe si nota una specie di linea comune. I "nostri ragazzi"
hanno dimostrato una certa modestia e molta correttezza, e non si
sono abbandonati a querimonie e lamentele contro gli ex nemici
(ne ho trovato, in effetti, solo una: "Ero preoccupato - ha
detto Bellini - perché non mi davano il tè. E io
volevo il tè con lo zucchero". Che è grave, ma
pensate a tutto quello che altri hanno detto su Saddam e il suo
regime). Non hanno fatto ostentazione di bellicismo. Qualcuno dei
nostri neo-bellicisti da salotto e da teleschermo per questo li ha
implicitamente criticati. Ma che razza di esercito di mollaccioni è
il nostro?
Come Superman Errore. I due hanno
comunque le idee chiare. Quando gli chiedono "Ma tornereste
in guerra"? il capitano Cocciolone non si fa pregare. "A
questa domanda rispondo così", dice l'ufficiale,
aprendo la sua tuta da volo e mostrando alle telecamere la maglietta
che indossa: è una T shirt bianca con il tricolore ed una
scritta nera "Free Kuwait". "È stato il più
bel regalo che ho ricevuto". Il gesto, che, probabilmente
avrebbe orripilato un militare della vecchia scuola prussiana, è
ricordato in più articoli di giornale (in uno, Cocciolone
apre la tuta "proprio come farebbe Superman") e
immortalato in una foto: il tricolore in questione, per la
precisione, sembra quello kuwaitiano. E Bellini, richiesto se
questa esperienza abbia cambiato il suo modo di pensare alla guerra:
"Sono convinto che nessun pilota sia particolarmente dotato
per andare in guerra. E specialmente chi la fa sa quali rischi corre
e che non è una cosa bella. C'è un'istituzione e noi
dobbiamo obbedire agli ordini". In un'altra intervista (dopo
i rituali "Macché eroe" e "Ho fatto solo il
mio dovere"): "Comunque sia chiaro che i più
convinti pacifisti siamo noi militari. Siamo andati a fare questa
guerra sperando davvero che fosse l'ultima". Insomma,
modestia sì, nessuna indebita eroicizzazione (che suonerebbe
come propaganda, e per di più abbastanza goffa), ma
sicurezza sulle cose che contano. Nessun dubbio sugli obiettivi di
guerra ("Free Kuwait": Kuwait libero, che cosa può
esserci di giù giusto e morale?), conferma del vecchio
principio dell'esercito come fattore di pace, fiducia incondizionata
nelle istituzioni (ci sono, e bisogna obbedire, figuriamoci). Il
messaggio è chiarissimo, e omologo a quanto ci è stato
ripetuto per tutti questi mesi. E un'espressione di ideologia
ufficiale. Alla quale naturalmente, non ci sentiamo tenuti a
esprimere solidarietà. I due ufficiali, evidentemente, sono
di nuovo in servizio. Non sono più due vittime, due uomini in
pericolo, e nemmeno due protagonisti. Sono rientrati nei ranghi di
una guerra che, in Italia come altrove, si è combattuta più
con le dichiarazioni pubbliche che con i Tornado e in cui quello che
una volta si chiamava il "fronte interno" ha avuto tutta
l'aria di contare di più di quello esterno. Niente di
sorprendente, certo. Ma noi preferiamo pensare a loro come a due
uomini fortunati, che hanno avuto la ventura di andare in guerra e
tornarne senza farsi ammazzare e senza aver ammazzato nessuno. Un
privilegio che non a tutti i combattenti è stato
concesso.
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