Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 181
aprile 1991


Rivista Anarchica Online

Parola di eroe
di Carlo Oliva

La vicenda dei piloti italiani catturati e poi liberati dagli iracheni attraverso le dichiarazioni degli ex-prigionieri e le congetture dei vari neo-bellicisti del teleschermo. Perché i due soldati italiani devono considerarsi fortunati.

I lettori mi consentiranno di esprimere, per una volta, una perplessità. Non so con che spirito abbiano seguito loro, per le sei orribili settimane della guerra nel Golfo, la vicenda del capitano Cocciolone e del maggiore Bellini, i due ufficiali dell'aviazione italiana abbattuti dalla contraerea irachena nel corso della loro prima missione di volo, il 17 gennaio 1991, e liberati alla fine delle ostilità. Io le ho seguite, in definitiva, con enorme imbarazzo.
Era una situazione indubbiamente spinosa. Cocciolone, ricorderete, era stato esibito dalla televisione irachena, cui aveva rilasciato qualche dichiarazione utile alla propaganda di Saddam Hussein. Lo aveva fatto, evidentemente, perché costretto: un episodio in sé disdicevole, anche perché era chiaro come in prigionia l'avessero malmenato, ma che almeno aveva tranquillizzato sulla sua sorte. Di Bellini, invece, mancava praticamente qualsiasi notizia: si è saputo con certezza che era sopravvissuto solo a ostilità finite. E nel frattempo, entrambi avevano finito con l'assumere una sorta di pubblico ruolo simbolico.
Entrambi erano come l'incarnazione concreta, personale, dei "nostri ragazzi", nel Golfo; gli unici militari italiani che fossero largamente conosciuti per nome, gli unici sulla cui situazione non vigesse la censura militare (che degli altri equipaggi italiani permetteva di dire soltanto che avevano effettuato via via le loro "missioni", senza precisazioni di tempo e luogo). Varie stazioni televisive mandavano spesso in onda servizi e interviste con i loro familiari, con la moglie dell'uno e con la fidanzata dell'altro, persino con il parroco del Paese. E anche se la solidarietà espressa nei loro confronti da autorità e cittadini era stata larga e spontanea, a tutti, in sostanza, si chiedeva di esprimere di più. Quei pochi che s'erano rifiutati espressamente di farlo, o avevano proposto delle letture della vicenda non omologate a quella corrente, venivano duramente strapazzati in pubblico (citerò, per tutte, una vergognosa scenata televisiva del noto Trombadori ai danni del buon Luigi Manconi).

Babbi, mamme moglie, parroco
Credo che per molti di noi una richiesta del genere fosse più che altro imbarazzante. Era difficile, ovviamente, non essere solidale con chi si trovava in prigionia, in evidente pericolo, oggetto di preoccupazione legittima per i suoi cari e per chi, per un motivo o per l'altro, aveva a cuore la sua sorte. E poi, diciamolo, la ostentazione televisiva di babbi, mamme, moglie, parroco e fidanzata aiutava a ricordare a tutti una cosa che quando si parla di guerra si tende a dimenticare troppo spesso: che i combattenti sono uomini come gli altri, e come tutti hanno diritto al rispetto nostro ed altrui. La guerra si basa, almeno a livello di comunicazioni pubbliche, su una specie di ideologia della depersonalizzazione, perché non è facile per nessuno accettare l'idea che dei suoi confratelli in umanità facciano e subiscano quelle terribili cose che in guerra si subiscono e si fanno. Per cui, i morti ammazzati diventano, applicando una semplice metafora, "caduti" e "vittime civili", e i militari in azione spesso sono semplicemente "gli uomini", o "le nostre truppe", o "le forze della coalizione" (o affettuosamente "i nostri ragazzi") e così via. Un militare di cui si parla per nome e cognome, di cui si descrive o si intervista la fidanzata o il sacerdote che racconta di come lo ricordi da bambino giocare all'oratorio, contraddice a questa ideologia. Il che giova sempre alla causa della pace, quali che siano le intenzioni di chi promuove la diffusione di messaggi del genere.
D'altro canto, era altrettanto evidente che Cocciolone e Bellini erano combattenti, specializzati in un certo tipo d'attività bellica e portatori per definizione di certe responsabilità (anche se, naturalmente, le responsabilità della guerra non spettano soltanto ai combattimenti o ai militari). Come spesso si ripeteva, avevano "compiuto il loro dovere". Ma quale che sia lo statuto teoretico del "dovere" (Kant, si sa, aveva in proposito certe idee, ma la morale cattolica che vige nel nostro Paese, è in merito, se non proprio elastica, meno categorica), non per tutti "compiere il proprio dovere" è un valore assoluto, tale da determinare automaticamente la positività morale di ogni comportamento. Per molti dipende da qual è il dovere di cui si tratta. Taluni, com'è noto, si rifiutano persino di obbedire a certi ordini dell'autorità: credono che esistano altri doveri che impediscono, per esempio, di partecipare alla guerra. A volte la legislazione positiva riconosce questa opzione come un diritto. Altre volte, naturalmente, no: i lettori di questa rivista sono tra quanti conoscono meglio i termini della questione. Ma, insomma, il problema è complicato (pensiamo alle domande che ci facevamo nel numero scorso in tema di diritto di guerra) e può suscitare effettivamente qualche imbarazzo.
Adesso, però, la guerra è finita. I due ufficiali sono rientrati in patria, accolti come eroi dai concittadini (anche se dal punto di vista strettamente militare non credo si possa dire che il loro contributo alla vittoria della coalizione sia stato grandissimo, ma per fortuna la nostra società non ha una concezione strettamente militare dell'eroismo) e sono stati restituiti all'affetto dei loro cari. Hanno anche rilasciato un certo numero di dichiarazioni alla stampa. Che meritano, se ci è permesso, qualche commento sintetico.
Non che abbiano detto niente di particolarmente scandaloso, s'intende. Secondo i quotidiani del 9 e 10 marzo, al suo arrivo all'Aquila, a casa sua, Cocciolone ha fatto persino dell'understatement: "Io e il mio amico Bellini abbiamo voglia di fare una vita normale. Io eroe? Ho fatto meno del mio dovere". Ha espresso delle aspirazioni assolutamente pacifiche: "Un letto, un vero letto, è stata la cosa più bella della prima notte in Italia". Quando gli è stato chiesto un giudizio esplicito, si è attenuto a enunciazioni di principio sensate e poco impegnative: "La guerra? Bisognerebbe evitarla, ma la pace senza giustizia non esiste." (Che strano, commenta l'articolista che raccoglie la dichiarazione, sono le parole del Papa. Beh, forse non bisognava essere il Papa per arrivarci...).
Bellini aveva dimostrato un filo di iattanza in più quando era sbarcato all'aeroporto di Ciampino: "Dopo essermi catapultato dal Tornado ho perso i sensi. Ed è stata la mia fortuna. Se fossi stato cosciente avrei estratto la mia pistola, una calibro 9, e avrei sparato. E senz'altro sarei morto", che però si può leggere anche come una sensata raccomandazione su cosa fare e non fare per sopravvivere.
Comunque, appena sbarcato alla base aerea di Ghedi, presso la quale risiede, ha precisato anche lui, pur ostentando certi "feroci baffi alla mongola", di non sentirsi affatto un eroe: "I1 vero eroe, - ha anzi detto, - è mia moglie". La quale, apprendendo d'essere stata nominata "bresciana dell'anno" s'è affrettata a schermirsi con l'argomento canonico: "Credo d'aver fatto solamente il mio dovere". Entrambi, poi, si sono dichiarati d'accordo nel far studiare un bambino iracheno a loro spese.
Insomma, leggendo tre righe si nota una specie di linea comune. I "nostri ragazzi" hanno dimostrato una certa modestia e molta correttezza, e non si sono abbandonati a querimonie e lamentele contro gli ex nemici (ne ho trovato, in effetti, solo una: "Ero preoccupato - ha detto Bellini - perché non mi davano il tè. E io volevo il tè con lo zucchero". Che è grave, ma pensate a tutto quello che altri hanno detto su Saddam e il suo regime). Non hanno fatto ostentazione di bellicismo. Qualcuno dei nostri neo-bellicisti da salotto e da teleschermo per questo li ha implicitamente criticati. Ma che razza di esercito di mollaccioni è il nostro?

Come Superman
Errore. I due hanno comunque le idee chiare. Quando gli chiedono "Ma tornereste in guerra"? il capitano Cocciolone non si fa pregare. "A questa domanda rispondo così", dice l'ufficiale, aprendo la sua tuta da volo e mostrando alle telecamere la maglietta che indossa: è una T shirt bianca con il tricolore ed una scritta nera "Free Kuwait". "È stato il più bel regalo che ho ricevuto". Il gesto, che, probabilmente avrebbe orripilato un militare della vecchia scuola prussiana, è ricordato in più articoli di giornale (in uno, Cocciolone apre la tuta "proprio come farebbe Superman") e immortalato in una foto: il tricolore in questione, per la precisione, sembra quello kuwaitiano.
E Bellini, richiesto se questa esperienza abbia cambiato il suo modo di pensare alla guerra: "Sono convinto che nessun pilota sia particolarmente dotato per andare in guerra. E specialmente chi la fa sa quali rischi corre e che non è una cosa bella. C'è un'istituzione e noi dobbiamo obbedire agli ordini". In un'altra intervista (dopo i rituali "Macché eroe" e "Ho fatto solo il mio dovere"): "Comunque sia chiaro che i più convinti pacifisti siamo noi militari. Siamo andati a fare questa guerra sperando davvero che fosse l'ultima".
Insomma, modestia sì, nessuna indebita eroicizzazione (che suonerebbe come propaganda, e per di più abbastanza goffa), ma sicurezza sulle cose che contano. Nessun dubbio sugli obiettivi di guerra ("Free Kuwait": Kuwait libero, che cosa può esserci di giù giusto e morale?), conferma del vecchio principio dell'esercito come fattore di pace, fiducia incondizionata nelle istituzioni (ci sono, e bisogna obbedire, figuriamoci). Il messaggio è chiarissimo, e omologo a quanto ci è stato ripetuto per tutti questi mesi. E un'espressione di ideologia ufficiale.
Alla quale naturalmente, non ci sentiamo tenuti a esprimere solidarietà. I due ufficiali, evidentemente, sono di nuovo in servizio. Non sono più due vittime, due uomini in pericolo, e nemmeno due protagonisti. Sono rientrati nei ranghi di una guerra che, in Italia come altrove, si è combattuta più con le dichiarazioni pubbliche che con i Tornado e in cui quello che una volta si chiamava il "fronte interno" ha avuto tutta l'aria di contare di più di quello esterno. Niente di sorprendente, certo. Ma noi preferiamo pensare a loro come a due uomini fortunati, che hanno avuto la ventura di andare in guerra e tornarne senza farsi ammazzare e senza aver ammazzato nessuno. Un privilegio che non a tutti i combattenti è stato concesso.