Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 175
estate 1990


Rivista Anarchica Online

Tutte le bandiere al vento
di Carlo Oliva

Un amico che, diversamente da me, si intende di queste cose mi ha assicurato che se la Germania quest'anno ha vinto la Coppa del Mondo di calcio - un evento che dipende, come è noto, da un'opportuna sequenza di spinte arbitrali e sorteggi pilotati - non è stato perché il mondo calcistico volesse festeggiare, come avevo supposto io, la prossima riunificazione e il presumibile ruolo di grande potenza del Quarto Reich, ma perché un'importante ditta produttrice di scarpe e articoli d'abbigliamento per il tempo libero, che su quel fatto sportivo esercita un ruolo, per così dire, di super sponsor, era di proprietà prevalentemente tedesca. Non so se sia vero, ma suppongo di sì. Comunque, c'è sempre modo di verificarlo: la maggioranza di quell'impresa è passata da poco in mani francesi, per cui se alla prossima edizione della Coppa la Francia avrà una sorte migliore sapremo che cosa pensare.
Non ci ho trovato, comunque, nulla di scandaloso. Che dietro ai "grandi eventi" sportivi di oggi si muovano interessi di tutt'altra natura, è un concetto tanto risaputo da essere quasi banale: non turba minimamente chi a quei grandi eventi si appassiona, figuriamoci noi happy few che ci ostiniamo a ostentare indifferenza. Da che mondo è mondo, i potenti vincono e i deboli perdono, nello sport come altrove. E tutti sappiamo che quello di Grande Potenza è un concetto che va definito secondo parametri nuovi, che la superiorità di un paese non si manifesta più nei termini politici tradizionali, ma si esprime (si sostanzia) nelle forme più varie di controllo economico. I1 logo di una multinazionale esprime dominio, proprio come le bandiere di ieri e le armi nobiliari di ieri 1'altro.
È strano, però. In giugno e luglio, di bandiere se ne sono viste parecchie lo stesso. Bandiere non sempre canoniche, perché spesso adorne di stemmi, iscrizioni e simboli che non avrebbero ottenuto l'approvazione delle varie Consulte Araldiche, ma indubbiamente bandiere. Sventolate da cittadini variamente entusiasti, usate dalle amministrazioni pubbliche e dalle associazioni di bottegai per pavesare le vie, appese ai balconi, issate sui mezzi di trasporto più vari. A Milano, mi risulta persino che ne sia stata bruciata una (una bandiera argentina, data alle fiamme in una piazza in cui si raccoglievano soprattutto i tifosi ascoltatori di una emittente radiofonica democratica e popolare): probabilmente è successo anche altrove. Come a dire che un evento dichiaratamente sportivo e notoriamente manovrato da tutt'altri interessi è stato emotivamente vissuto in chiave nazionale.
È singolare. In un mondo deideologizzato, la gente ha probabilmente un gran bisogno di forme simboliche di proiezione-identificazione-schieramento, il che spiega i fasti e i progressi delle tifoserie, ma a quanto pare non ha difficoltà a coprire queste sue proiezioni fantastiche con dei tipici simboli ideologici tradizionali. Come le bandiere.

Sport di massa

La faccenda si complica perché in questi casi, naturalmente, lo scontro non si limita al campo di gioco. Sappiamo che per godere di qualche chance a livello mondiale, una squadra deve poter schierare un numero adeguato di sostenitori attorno al campo. Il calcio è uno sport di massa, nel senso che abbisogna di masse - come dire - reali, che paghino i biglietti d'ingresso allo stadio e manifestino in modo acconcio la propria presenza, oltre a quelle virtuali che indossano le tute e le calze da jogging prodotte dal super sponsor, consumano i prodotti degli sponsor minori e fanno salire l'indice di ascolto delle reti televisive che si sono assicurate i diritti sull'evento.
Da questo punto di vista, la sagra di Italia '90 è stata un grande successo: la penisola è stata debitamente percorsa dalle masse migranti dei supporter, e le speculazioni dei media sul loro comportamento e la loro funzione socio-culturale sono assurte in quei giorni alla dignità di genere letterario. In fondo, anch'esse avevano una funzione precisa: permettevano in qualche modo di sentirsi coinvolto anche a chi non si considerava particolarmente a giorno sulle problematiche sportive o era per altri versi incapace di giudicare la finezze del giorno.
Anche questa è un'operazione culturale a non altissimo tasso d'originalità, nel senso che esiste tutta una tradizione di attribuzioni di caratteristiche standard ai tipi tradizionali (sapete, quella degli americani Che Vivono nei Grattacieli e degli Italiani Suonatori di Mandolino), ma ha il vantaggio di permettere una certa flessibilità nella definizione degli stereotipi. Nel nostro caso, al ruolo di protagonisti assoluti di questo aspetto della contesa sono assurti i Tedeschi Minacciosi E Possenti e gli Inglesi Irresponsabili. Ma tenuti Sotto Ferreo Controllo Dalle Solerti Forze Dell'Ordine, cui si sono affiancati altri modelli tipologico-valoristici (notati, fra gli altri, gli Olandesi Bonari e un Po' Anzianotti, gli Irlandesi Simpatici E Tanto Sportivi e i Camerunesi Assenti Per Ovvi Motivi Ma Cari Lo Stesso Al Nostro Cuore). Nei casi più favorevoli, l'operazione poteva essere estesa all'intero paese interessato: un esempio, il comportamento delle masse migranti poteva essere utilmente giustapposto a quello delle rispettive autorità e opinioni pubbliche (deplorando, ad esempio, che in Gran Bretagna taluno deplorasse le tecniche sbrigative applicate qui da noi contro i temibili hooligans), creando interessanti polemiche pubblicistiche, il cui interesse era per lo meno pari a quelle sul valore etico del divieto di smerciare bevande alcooliche nei giorni e nei luoghi di scontro. Insomma, non sono stati risparmiati né i tentativi né gli sforzi perché tutti i cittadini potessero trovare, ciascuno dal proprio punto di vista, motivi d'interesse nel grande psicodramma delle nazionalità calcistiche.

Problemi d'identificazione

Niente di strano, naturalmente. Se non forse il fatto che persino i meno esperti hanno potuto notare come la natura "nazionale" delle singole squadre fosse, per usare un eufemismo, una forzatura. Che non esistevano stili o caratteristiche nazionali di gioco, o comunque parametri di riconoscibilità delle squadre più sottili di quello rappresentato dal colore delle maglie (o della pelle, nel caso dei camerunesi, anche se questo non era un valore assoluto, visto che, per motivi di storia coloniale o d'altro, in campo si sono distinti anche olandesi, inglesi e quant'altri dall'incarnato abbastanza scuro). Oggi, la maggior parte degli atleti - in sostanza - non appartiene nemmeno alla realtà calcistica dei rispettivi paesi, nel senso che si tratta di professionisti che, per lo più, giocano fuori casa, in campionati altrui, e a quelli naturalmente guardano in termini di prospettiva e carriera, o di converso, sono abituati a operare in assetti plurinazionali (come quelli delle squadre del campionato italiano) e allora poco o niente significa chiedergli di collaborare una tantum soltanto con i propri compatrioti. Questa situazione era tanto evidente da creare sovrapposizioni interessanti (a Milano gli interisti favorevoli alla Germania e i milanisti all'Olanda...) e persino seri problemi d'identificazione alle tifoserie, come nel celebre caso dei Napoletani e di Maradona.
E allora, forse varrebbe la pena di chiedersi che significato abbiano queste forme d'immedesimazione delirante, soprattutto in una Europa che si è scoperta meno immune di quanto credeva dal virus dei nazionalismi e degli irredentismi. Di avanzare, magari, l'ipotesi che siano indizio di un forte scadimento della moralità pubblica. Come tutti i fatti importanti del mondo della comunicazione o dello spettacolo, le Coppe del Mondo e gli altri eventi parasportivi, in fondo, sono uno specchio in cui si riflettono le nostre miserie. Facendo tutti un senechiano esame di coscienza, potremmo chiederci se lo stato d'animo di divertita e irresponsabile partecipazione con cui li abbiamo accettati, invece di combatterli a spada tratta come manifestazioni ostili, organizzate a nostro danno da enti e persone che non hanno a cuore il progresso delle masse popolari, non abbia rappresentato un ennesimo esempio di trahison des cleros.
Con il nazionalismo c'è poco da scherzare: ce lo insegna anche la cronaca extra-calcistica di questa estate. Per anni e anni abbiamo dato per scontato che le ideologie principali e gli stili di vita prevalenti nel nostro civilissimo continente fossero in una fase, diciamo, di convergenza e assimilazione, che il concetto di unità europea non fosse soltanto una finzione diplomatica e propagandistica atta a celare le conseguenze più imbarazzanti della seconda guerra mondiale, ma si riferisse a un processo politico in atto, che il nazionalismo stesso fosse un relitto, un fossile politico limitato a situazioni periferiche e arretrate (l'Irlanda, i Paesi Baschi...) oltre che un utile strumento per creare complicazioni e fare dispetti oltre cortina. Solo in parte, adesso, si comincia a realizzare come la vitalità - la virulenza- del fenomeno è maggiore del previsto, se ha potuto mettere in crisi forse irreversibilmente delle realtà statali su cui il sistema internazionale faceva comunque conto (non per niente le cancellerie si guardano bene dal prendere sul serio l'indipendenza unilaterale dei paesi baltici o delle repubbliche jugoslave). Ma non ci si rende conto, forse, delle possibilità che questa specie di bomba ideologica riesploda a casa nostra, nell'Occidente ricco e evoluto e "multinazionale".

Bovina acquiescenza

Forse gli hooligans non sono soltanto un tipico prodotto del folclore britannico: sono il modello perfetto del proletariato integrato e incapace di ribellione prodotto dalla restaurazione degli anni '80. La bovina acquiescenza al potere espressa dai loro omologhi di tutti i paesi, Italia compresa, è direttamente proporzionale alla capacità di esprimere entusiasmo per questo tipo di asseriti (ma fittizi) successi nazionali. Si continua a dire che lo sport è sport, figuriamoci, e spettacolo , e media event, ed è largamente internazionalizzato, e quello che conta sono le sponsorizzazioni, che trascendono queste banalità, e le bandiere sono soltanto una nota di colore superficiale, ma forse non è tanto vero. Forse le varie coppe del mondo sono solo un pretesto, un'occasione gradita per sventolare bandiere e organizzare cacce all'inglese, pestaggi di tedeschi, inseguimenti di argentini e chi più ne ha più ne metta. Sono tutte forme attraverso cui si esprime soprattutto la rassegnazione alla condizione servile.
Forse le bandiere che sventolano sugli spalti degli stadi hanno lo stesso significato sinistro che le bandiere, ovunque sventolino, hanno sempre avuto.