Rivista Anarchica Online
Tutte le bandiere al vento
di Carlo Oliva
Un amico che, diversamente da me, si
intende di queste cose mi ha assicurato che se la Germania quest'anno
ha vinto la Coppa del Mondo di calcio - un evento che dipende, come è
noto, da un'opportuna sequenza di spinte arbitrali e sorteggi
pilotati - non è stato perché il mondo calcistico volesse
festeggiare, come avevo supposto io, la prossima riunificazione e il
presumibile ruolo di grande potenza del Quarto Reich, ma perché
un'importante ditta produttrice di scarpe e articoli d'abbigliamento
per il tempo libero, che su quel fatto sportivo esercita un ruolo,
per così dire, di super sponsor, era di proprietà
prevalentemente tedesca. Non so se sia vero, ma suppongo di sì.
Comunque, c'è sempre modo di verificarlo: la maggioranza di
quell'impresa è passata da poco in mani francesi, per cui se
alla prossima edizione della Coppa la Francia avrà una sorte
migliore sapremo che cosa pensare.
Non ci ho trovato, comunque, nulla di
scandaloso. Che dietro ai "grandi eventi" sportivi di oggi
si muovano interessi di tutt'altra natura, è un concetto tanto
risaputo da essere quasi banale: non turba minimamente chi a quei
grandi eventi si appassiona, figuriamoci noi happy few che ci
ostiniamo a ostentare indifferenza. Da che mondo è mondo, i
potenti vincono e i deboli perdono, nello sport come altrove. E tutti
sappiamo che quello di Grande Potenza è un concetto che va
definito secondo parametri nuovi, che la superiorità di un
paese non si manifesta più nei termini politici tradizionali,
ma si esprime (si sostanzia) nelle forme più varie di
controllo economico. I1 logo di una multinazionale esprime dominio,
proprio come le bandiere di ieri e le armi nobiliari di ieri 1'altro.
È strano, però. In giugno
e luglio, di bandiere se ne sono viste parecchie lo stesso. Bandiere
non sempre canoniche, perché spesso adorne di stemmi,
iscrizioni e simboli che non avrebbero ottenuto l'approvazione delle
varie Consulte Araldiche, ma indubbiamente bandiere. Sventolate da
cittadini variamente entusiasti, usate dalle amministrazioni
pubbliche e dalle associazioni di bottegai per pavesare le vie,
appese ai balconi, issate sui mezzi di trasporto più vari. A
Milano, mi risulta persino che ne sia stata bruciata una (una
bandiera argentina, data alle fiamme in una piazza in cui si
raccoglievano soprattutto i tifosi ascoltatori di una emittente
radiofonica democratica e popolare): probabilmente è successo
anche altrove. Come a dire che un evento dichiaratamente sportivo e
notoriamente manovrato da tutt'altri interessi è stato
emotivamente vissuto in chiave nazionale.
È singolare. In un mondo
deideologizzato, la gente ha probabilmente un gran bisogno di forme
simboliche di proiezione-identificazione-schieramento, il che spiega
i fasti e i progressi delle tifoserie, ma a quanto pare non ha
difficoltà a coprire queste sue proiezioni fantastiche con dei
tipici simboli ideologici tradizionali. Come le bandiere.
Sport di massa
La faccenda si complica perché
in questi casi, naturalmente, lo scontro non si limita al campo di
gioco. Sappiamo che per godere di qualche chance a livello mondiale,
una squadra deve poter schierare un numero adeguato di sostenitori
attorno al campo. Il calcio è uno sport di massa, nel
senso che abbisogna di masse - come dire - reali, che paghino i
biglietti d'ingresso allo stadio e manifestino in modo acconcio la
propria presenza, oltre a quelle virtuali che indossano le tute e le
calze da jogging prodotte dal super sponsor, consumano i prodotti
degli sponsor minori e fanno salire l'indice di ascolto delle reti
televisive che si sono assicurate i diritti sull'evento.
Da questo punto di vista, la sagra di
Italia '90 è stata un grande successo: la penisola è
stata debitamente percorsa dalle masse migranti dei supporter, e le
speculazioni dei media sul loro comportamento e la loro
funzione socio-culturale sono assurte in quei giorni alla dignità
di genere letterario. In fondo, anch'esse avevano una funzione
precisa: permettevano in qualche modo di sentirsi coinvolto anche a
chi non si considerava particolarmente a giorno sulle problematiche
sportive o era per altri versi incapace di giudicare la finezze del
giorno.
Anche questa è un'operazione
culturale a non altissimo tasso d'originalità, nel senso che
esiste tutta una tradizione di attribuzioni di caratteristiche
standard ai tipi tradizionali (sapete, quella degli americani Che
Vivono nei Grattacieli e degli Italiani Suonatori di Mandolino), ma
ha il vantaggio di permettere una certa flessibilità nella
definizione degli stereotipi. Nel nostro caso, al ruolo di
protagonisti assoluti di questo aspetto della contesa sono assurti i
Tedeschi Minacciosi E Possenti e gli Inglesi Irresponsabili. Ma
tenuti Sotto Ferreo Controllo Dalle Solerti Forze Dell'Ordine, cui si
sono affiancati altri modelli tipologico-valoristici (notati, fra gli
altri, gli Olandesi Bonari e un Po' Anzianotti, gli Irlandesi
Simpatici E Tanto Sportivi e i Camerunesi Assenti Per Ovvi Motivi Ma
Cari Lo Stesso Al Nostro Cuore). Nei casi più favorevoli,
l'operazione poteva essere estesa all'intero paese interessato: un
esempio, il comportamento delle masse migranti poteva essere
utilmente giustapposto a quello delle rispettive autorità
e opinioni pubbliche (deplorando, ad esempio, che in Gran Bretagna
taluno deplorasse le tecniche sbrigative applicate qui da noi contro
i temibili hooligans), creando interessanti polemiche
pubblicistiche, il cui interesse era per lo meno pari a quelle sul
valore etico del divieto di smerciare bevande alcooliche nei giorni e
nei luoghi di scontro. Insomma, non sono stati risparmiati né
i tentativi né gli sforzi perché tutti i cittadini
potessero trovare, ciascuno dal proprio punto di vista, motivi
d'interesse nel grande psicodramma delle nazionalità
calcistiche.
Problemi d'identificazione
Niente di strano, naturalmente. Se non
forse il fatto che persino i meno esperti hanno potuto notare come la
natura "nazionale" delle singole squadre fosse, per usare
un eufemismo, una forzatura. Che non esistevano stili o
caratteristiche nazionali di gioco, o comunque parametri di
riconoscibilità delle squadre più sottili di quello
rappresentato dal colore delle maglie (o della pelle, nel caso dei
camerunesi, anche se questo non era un valore assoluto, visto che,
per motivi di storia coloniale o d'altro, in campo si sono distinti
anche olandesi, inglesi e quant'altri dall'incarnato abbastanza
scuro). Oggi, la maggior parte degli atleti - in sostanza - non
appartiene nemmeno alla realtà calcistica dei rispettivi
paesi, nel senso che si tratta di professionisti che, per lo più,
giocano fuori casa, in campionati altrui, e a quelli naturalmente
guardano in termini di prospettiva e carriera, o di converso, sono
abituati a operare in assetti plurinazionali (come quelli delle
squadre del campionato italiano) e allora poco o niente significa
chiedergli di collaborare una tantum soltanto con i propri
compatrioti. Questa situazione era tanto evidente da creare
sovrapposizioni interessanti (a Milano gli interisti favorevoli alla
Germania e i milanisti all'Olanda...) e persino seri problemi
d'identificazione alle tifoserie, come nel celebre caso dei
Napoletani e di Maradona.
E allora, forse varrebbe la pena di
chiedersi che significato abbiano queste forme d'immedesimazione
delirante, soprattutto in una Europa che si è scoperta meno
immune di quanto credeva dal virus dei nazionalismi e degli
irredentismi. Di avanzare, magari, l'ipotesi che siano indizio di un
forte scadimento della moralità pubblica. Come tutti i fatti
importanti del mondo della comunicazione o dello spettacolo, le Coppe
del Mondo e gli altri eventi parasportivi, in fondo, sono uno
specchio in cui si riflettono le nostre miserie. Facendo tutti un
senechiano esame di coscienza, potremmo chiederci se lo stato d'animo
di divertita e irresponsabile partecipazione con cui li abbiamo
accettati, invece di combatterli a spada tratta come manifestazioni
ostili, organizzate a nostro danno da enti e persone che non hanno a
cuore il progresso delle masse popolari, non abbia rappresentato un
ennesimo esempio di trahison des cleros.
Con il nazionalismo c'è poco da
scherzare: ce lo insegna anche la cronaca extra-calcistica di questa
estate. Per anni e anni abbiamo dato per scontato che le ideologie
principali e gli stili di vita prevalenti nel nostro civilissimo
continente fossero in una fase, diciamo, di convergenza e
assimilazione, che il concetto di unità europea non fosse
soltanto una finzione diplomatica e propagandistica atta a celare le
conseguenze più imbarazzanti della seconda guerra mondiale, ma
si riferisse a un processo politico in atto, che il nazionalismo
stesso fosse un relitto, un fossile politico limitato a situazioni
periferiche e arretrate (l'Irlanda, i Paesi Baschi...) oltre che un
utile strumento per creare complicazioni e fare dispetti oltre
cortina. Solo in parte, adesso, si comincia a realizzare come la
vitalità - la virulenza- del fenomeno è maggiore del
previsto, se ha potuto mettere in crisi forse irreversibilmente delle
realtà statali su cui il sistema internazionale faceva
comunque conto (non per niente le cancellerie si guardano bene dal
prendere sul serio l'indipendenza unilaterale dei paesi baltici o
delle repubbliche jugoslave). Ma non ci si rende conto, forse, delle
possibilità che questa specie di bomba ideologica riesploda a
casa nostra, nell'Occidente ricco e evoluto e "multinazionale".
Bovina acquiescenza
Forse gli hooligans non sono
soltanto un tipico prodotto del folclore britannico: sono il modello
perfetto del proletariato integrato e incapace di ribellione prodotto
dalla restaurazione degli anni '80. La bovina acquiescenza al potere
espressa dai loro omologhi di tutti i paesi, Italia compresa, è
direttamente proporzionale alla capacità di esprimere
entusiasmo per questo tipo di asseriti (ma fittizi) successi
nazionali. Si continua a dire che lo sport è sport,
figuriamoci, e spettacolo , e media event, ed è
largamente internazionalizzato, e quello che conta sono le
sponsorizzazioni, che trascendono queste banalità, e le
bandiere sono soltanto una nota di colore superficiale, ma forse non
è tanto vero. Forse le varie coppe del mondo sono solo un
pretesto, un'occasione gradita per sventolare bandiere e organizzare
cacce all'inglese, pestaggi di tedeschi, inseguimenti di argentini e
chi più ne ha più ne metta. Sono tutte forme attraverso
cui si esprime soprattutto la rassegnazione alla condizione servile.
Forse le bandiere che sventolano sugli
spalti degli stadi hanno lo stesso significato sinistro che le
bandiere, ovunque sventolino, hanno sempre avuto.
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