Rivista Anarchica Online
Le sbarre e la notte
di Agostino Manni
Aveva già scontato 12 mesi
per la sua obiezione totale. Il 12 dicembre scorso, però è
stato nuovamente arrestato e trasferito nel carcere militare di Santa
Maria Capua Vetere (Caserta), dove ha scontato un mese per "rifiuto
d'obbedienza": si era rifiutato, nel corso della sua precedente
permanenza a S. Maria, di indossare la divisa. È durante questo mese di
detenzione che Agostino Manni ci ha inviato lo scritto che qui
pubblichiamo.
A mezzanotte del 31 dicembre, mentre
fuori del muro scoppiava l'allegria della gente "normale",
ho pensato a tutti i compagni che stanno in galera - e a quelli,
soprattutto, che ci stanno da anni: ho stretto loro la mano, ci siamo
baciati, e ci siamo augurati un oceano di felicità.
Una guardia ha versato nel mio
bicchiere di carta un po' di spumante e mi ha fatto gli auguri. Ma
anche gli auguri più caldi, qui dentro, non riescono a
toglierti il freddo dal cuore. Così ho trascorso il mio
capodanno: il secondo che passo qui dentro; e certo il più
triste tra quelli di cui mi è rimasto il ricordo.
Mia madre, quando mi hanno arrestato,
era talmente arrabbiata che non riusciva a controllare le parole. Ai
carabinieri che mi avevano preso continuava a ripetere: "E
adesso, che cosa vi danno? La medaglia al valore?". E ad alta
voce, gli buttava addosso continue bestemmie. Almeno quest'anno
pensava di passarla con me, questa festa; e invece, anche stavolta,
ci siamo abbracciati con un telegramma, e con lo stesso sistema ci
siamo scambiati gli auguri.
Qui, nel carcere di Santa Maria, le
cose sono leggermente cambiate. Da quando sono entrate in vigore le
nuove norme di procedura penale, il reparto "Nuovi Giunti"
(l'isolamento giudiziario, che al momento opportuno diventava
"punitivo") praticamente è ormai chiuso.
Quando qualcuno arriva nel carcere,
adesso, quasi sempre, giuridicamente, è già
"definitivo": viene subito portato di sopra, al reparto, e
messo in cella insieme con gli altri reclusi.
Per Manni, invece, anche stavolta la
procedura è stata "speciale" (e si capisce
facilmente il perché): il dottore, durante la visita medica,
mi ha riscontrato una malattia delle pelle (una micosi, di quelle che
si "prendono" al mare) e ha preferito tenermi in sala
degenza, nel reparto dell'infermeria. Questa, almeno, è la
versione ufficiale.
L'ultima volta che entrai in questa
cella, due laureati con la divisa da medico cercavano invano di
imbucarmi una vena per farmi una flebo e ridare "tenore" al
mio corpo dopo un "digiuno" che era durato più
giorni (alla fine di una delle tante proteste, che io e Giuseppe
Coniglio facemmo, contro l'arroganza delle autorità
carcerarie).
Il giorno stesso che sono arrivato, il
comandante della "compagnia detenuti" mi ha ricordato che
"la procedura, qui, è sempre la stessa": come a dire
che, se al momento opportuno, non avessi rispettato i suoi ordini,
sarebbero scattate le rituali denunce.
E la mattina del 27 dicembre, appena
rientrato dal solito ipocrita bagno di bontà natalizia, il
comandante del carcere in persona - lo stesso che per due volte ha
denunciato Coniglio - ha voluto ricordarmi che, nel carcere, "ora
è tutto tranquillo"; e mi ha dato quarantotto ore di
tempo per decidermi ad indossare la divisa prescritta dal regolamento
(quella stessa divisa per aver rifiutato la quale io, adesso, mi
trovo rinchiuso qua dentro). Quarantotto ore di tempo per chinare
la testa.
Quarantotto ore per scordare che un
uomo - oltre a due braccia e a due occhi , ad un cuore, ad un fegato,
ad uno stomaco e a un culo - possiede anche una sua dignità.
Anche se qualcuno ogni tanto lo scorda. Gli ho risposto di ricordarsi di
Manni, il giorno in cui i suoi privilegi verranno a mancare; perché
sarà un uomo come tutti gli altri, quel giorno, quando le sue
stellette e le sue torri dorate perderanno qualsiasi valore.
Oggi è l'otto gennaio e non ho
ancora subito nessuna denuncia: sono sempre in infermeria, con i miei
abiti addosso e conto con ansia le ore che stanno tra me e la mia
libertà.
Se tutto andrà come spero, a
giorni uscirò da questo posto, per non metterci piede mai più:
il mio conto con "giustizia" militare sarà chiuso e
comincerò a vedere queste galere "speciali"
dall'esterno del muro (ma tutte le volte - tutte le volte: lo giuro -
che all'interno ci sarà qualcuno che lotta, qualcuno che senza
dubbio avrà bisogno di me).
Dei "comuni" di Santa Maria -
di quelli che rimasero dentro quando fui scarcerato, alla fine dello
scorso febbraio - sono rimasti soltanto Antonio e Giocchino, i due
"rivoltosi", che stanno scontando due lunghe condanne per
quella protesta che fecero nel carcere di Bari-Palese, non mi ricordo
più quanti anni fa.
Il 31 dicembre, Renzulli era uscito in
licenza: lo stesso "beneficio" avrebbero dato probabilmente
anche a Nino, se non fosse che, l'ultima volta che gliel'hanno
concesso, l'estate scorsa, lui ha preferito restarsene fuori e non ha
fatto rientro. L'hanno arrestato a casa sua, dopo la mezzanotte, non
più di qualche settimana fa.
La notte del 31 dicembre anche lui ha
scelto di non fare la festa. C'è chi dice che qualche giorno
prima, al paese, gli avevano ammazzato un amico: c'è chi
spiega così il fatto che, alle dieci, lui si era già
messo a dormire. Ma certamente, quella notte, qualcuno si è
sentito ancora più solo. Qualcuno sicuramente avrà
sofferto ancora di più; e avrà odiato la gioia degli
altri, per aver rivelato la sua solitudine; e avrà odiato i
petardi, la televisione, il casino e le luci, per aver ricordato la
sua infelicità.
Come quella donna africana, detenuta a
Rebibbia, della quale il "Manifesto" ha pubblicato una
lettera, poco prima della fine dell'anno. Nella quale raccontava una
storia, che è la stessa di migliaia di altri "stranieri",
segregati nelle prigioni delle nostre belle città.
E parlava delle umiliazioni subite, dei
soprusi, della sua solitudine, dell'impossibilità di parlare
con un altro essere umano, almeno di quelli rinchiusi in gabbia con
lei, perché tutti parlavano una lingua diversa da quella che
lei aveva fin da bambina imparato, perché nessuno la poteva
capire, perché nessuno la stava mai ad ascoltare.
Questa storia mi ha molto colpito; e
non solo perché, in pratica da quando mi hanno arrestato, io
vivo lontano dal resto dei detenuti, in un isolamento che, sebbene
non sia "punitivo", non per questo mi riesce meno triste e
meno penoso. Quella lettera mi ha molto colpito perché si
chiudeva con alcune parole, per le quali in questo momento è
facile scendere al fondo di me e chiedere che io non le scordi mai
più.
Quella lettera finiva così: "So
di essere sempre viva. So che un giorno la luce si accenderà
di nuovo e sarò capace di sentire e vedere tutto ciò
che mi è familiare. Le sbarre e il cemento torneranno al loro
posto, però, fino a quel giorno, la mia comunicazione con il
mondo è interrotta".
Mi ricordo quando andavo a scuola. La
maestra ci chiedeva: "Se un grande albero cade nella foresta e
nessuno l'ha sentito cadere: ha fatto davvero rumore?" La classe
si divideva in metà si e metà no. Io rispondevo sì.
Ora so che non avevo ragione.
Un grande albero cade nella foresta e
nessuno l'ha sentito cadere: ha fatto davvero rumore?
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